Libri > Twilight
Ricorda la storia  |      
Autore: PiccolaWriter    31/08/2012    3 recensioni
[...] Jacob si è seduto sulla sedia vuota, questa volta. Mi prende la mano che ho abbandonato inerte sul petto, la chiude fra le sue, la bacia con dolcezza. Bacia ogni dito, ogni nocca ruvida, screpolata, ogni unghia mangiucchiata. Si porta la mia mano magra al volto, respira nell’incavo fra le mie dita, sulle linee storte che mi segnano il palmo. Mi guarda, nascosto dietro quella gabbia di carne.
Genere: Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Isabella Swan, Jacob Black | Coppie: Bella/Jacob
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A







Venuta al mondo






L’infermiera cammina pigramente lungo il corridoio buio, vuoto.
E’ sera, sta per terminare l’orario delle visite. Un brusio di voci basse, di parenti, si allontana lungo le scale. L’infermiera passa davanti alla mia camera: lancia un’occhiata veloce, mi fa un cenno ed un sorriso, gentile, poi tira dritto. Controlla che tutto sia tranquillo ed in ordine. Il suono dei suoi zoccoli bianchi, di gomma bucherellata, che strisciano sul pavimento di marmo, si perde in una eco poco dopo, lontano.
Arrivano altri passi. Più rapidi, più frettolosi. Strisciano sul pavimento liscio, sono suole dure che saltano. Si sente un vada piano ammonitore, forse è la stessa infermiera di poco prima. Segue un mi scusi sommesso, uno sbuffo scocciato. Poi di nuovo quei passi colmi di premura, quei balzi ansiosi.
Jacob spunta sulla soglia della mia stanza un attimo dopo, trafelato.
La morsa che mi attanagliava il petto mi lascia andare, tiro un respiro profondo, sollevato. Mi basta che sia a pochi passi da me per sentirmi bene. Lo guardo placida, le mani lungo i fianchi, braccia bianche su lenzuola bianche. Il tubicino della flebo mi da un po’ di fastidio, è infilato sottopelle, nell’incavo del gomito. Cerco di non guardarlo, di non farci caso. Mi sento debole, e per fortuna posso concentrarmi solo su una cosa per volta.
Guardo mio marito.
Jacob mi sorride, si avvicina piano: stringe fra le mani un pacchetto che emana un buon odore. Il fiatone gli è già passato, ha dei polmoni forti. Tutto in lui è forte. Ha i capelli scompigliati, sono lunghi e neri come la criniera di un cavallo selvaggio, la corsa glieli ha messi tutti sottosopra.

- Ho preso le ciambelle che volevi, amore.

Sono stanca, ma gli sorrido. Gli sorrido sempre. Gli sorriderei sempre.
Lui si butta a terra accanto al mio letto, a gambe incrociate, come un bambino, come un lupo; poggia il pacchetto s’una sedia vuota lì accanto, mi prende una mano e ci poggia addosso la guancia calda. Respira piano per qualche attimo, immobile, ci beiamo di quel silenzio, lasciamo che ci scivoli addosso, ci immergiamo dentro di esso. In momenti come questo sembra che tutto il tempo del mondo si dilati, che tutto fluisca lento come un fiume quieto lì dove deve andare. Gli carezzo la pelle bollente della guancia muovendo appena le dita, incastrate fra il suo volto ed il letto, grattandogli un po’ il mento col pollice.

- Grazie,Jake.

Sento la sua pelle bruna tendersi, tirarsi in un sorriso. Gli piace che lo chiami così, Jake, con quell’abbreviativo, come quand’eravamo adolescenti, ragazzi, quando l’amicizia sembrava l’unica cosa che potesse esistere fra noi. Quanto eravamo ingenui, quanto eravamo ciechi, giovani.
Tiro la mano via da quel morbido incastro, alzo la sua guancia, lo tiro verso il mio volto. Quando mi sfiora la bocca con la sua è attento, non mi pesa addosso, quasi non respira. Odio quando fa così, quando si trattiene; a me piace sentirmi il suo corpo bollente addosso, il suo fiato caldo nella bocca, tra i capelli. Voglio che le sue labbra carnose sprofondino nelle mie, ci respirino dentro il fuoco. Invece Jacob è impaurito, vuole essere delicato, non vuole farmi alcun male.
Sono più fragile del solito, più debole, e lui è sempre così forte.

- Devi stare a riposo - mi dice, quando si allontana.

Adesso è lui che mi tiene una mano sulla guancia, docile, ma la sua è così grande che le dita arrivano ad insinuarsi sulla mia nuca, dietro le orecchie; mi sorregge, mi sostiene.

- Non ho subìto un operazione chirurgica - mi lamento, il tono da bambina capricciosa che lui adora, alzo gli occhi al cielo, sbuffo. Lo vedo trattenere a stento un’altro sorriso tutto denti.

- Per fortuna no.

- Sto bene - affermo, fissandolo negli occhi bui - sto benissimo.

Jacob storce appena la bocca, disapprova, nel frattempo fa di tutto per non farmi capire che sta per scoppiare a ridere. Guarda in alto, in basso, si morde un labbro carnoso. Ma è più forte di lui. Gli scappa una risata profonda, bassa, buona. Poi mi bacia di nuovo, di slancio, perché è questo che voglio e lui lo sa. Si lascia andare. Mi mordicchia il labbro, gioca col mio respiro. Per un momento sembra ignorare i tubicini sul mio braccio, il monitor col suo bip snervante dietro di noi, il mio aspetto orribile da ospedale. Non c’è alcun letto da ricovero, scompaiono le notti in bianco, i dolori sopportati a denti stretti.
C’è solo quel suo bacio di una volta, che mi leva il fiato.

Sembra lo stesso bacio di una volta. Come il suo bacio dopo il mio , col prete che gli chiedeva con clemenza ed imbarazzo di aspettare, fra le risate gioiose dei parenti e gli ululati degli amici. Ragazzo mio, non è questo il momento del bacio, che il buon Signore perdoni la tua sventatezza!
E Jacob che si stacca a forza da me, scocciato, che mi stringe la mano e borbotta arrabbiato e impaziente, quando diamine dichiara che tu sei mia e basta, fino al tuo ultimo respiro?
C’è questo bacio che sembra volermi risucchiare, imprigionare dentro di lui. Proprio come il bacio che mi aveva dato quella mattina, quando io ero tornata prima da scuola, avevo dovuto abbandonare la mia classe, stavo male. Avrei spiegato un’altra volta Joyce ai miei alunni di terzo superiore.
La porta d’ingresso non l’avevo vista neanche, Jacob mi aveva fissato stranito dalla cucina, aveva mezzo hamburger in bocca. Quella vista mi diede il voltastomaco, peggio di prima.
Che ti succede, amore? Sei tornata prima da lavoro, ti sei sentita male?, aveva bofonchiato lui, ma non l’avevo neanche sentito. Con la mano premuta sulla bocca mi ero precipitata al piano di sopra, nel bagno, sul water. Avevo vomitato tutta la colazione, i cornetti caldi del bar di Quil accanto al rifornimento.
Jacob, che mi aveva seguita, mi tenne nervosamente i capelli con le mani, badando che non mi sporcassi. Era muto, lo sguardo fisso e serio. Le spalle gli tremavano un po’. Il fiele mi colava dalla bocca e la nausea non faceva che aumentare. Jacob mi tirò su, mi pulì la bocca con un pezzo di carta igenica, mi passò con cautela dell’acqua. Il liquido trasparente e fresco ballava dentro quel bicchiere di carta. Mi baciò la fronte, disse che probabilmente avevo fatto indigestione, gli risposi che non poteva essere indigestione, quei cornetti li mangiavo da una vita, ogni mattina da quando Quil si era aperto quel piccolo bar, e non mi ero mai sentita così male.
Quella mattina, prima di uscire per andare nella più vicina farmacia, Jacob mi diede uno di quei baci. Quelli che sembra tentino di prendermi l’anima, o perlomeno se ne strappano dolcemente un pezzetto, se lo conservano, se lo mettono da parte chissà dove. Non gli importava delle mie labbra che sapevano di dentifricio, della mia lingua acidula, del mio respiro affannato.
Quella mattina scoprii di essere incinta, e Jacob mi aveva baciato così.
Non c’ero più abituata. Sono io a dovermi allontanare, adesso. Mi passo un palmo sulla fronte, mi sento già la febbre.

- Stai bene, adesso?

Mi scruta con cipiglio sbruffone, ma nel fondo del suo sguardo mi accorgo che c’è una traccia di paura, di premura. Non vuole farmi affaticare, ha una terribile paura che mi stanchi. I suoi occhi neri scattano rapidi sul monitor poco distante, collegato a me attraverso una fastidiosa pinzetta sul dito, che segnala che tutto è a posto. Non è necessario un macchinario del genere che controlli il mio stato di salute, cioé la frequenza dei battiti, solitamente; ma per me questa precauzione è stata necessaria. Solo per colpa del mio cuore instabile. Ha fatto le bizze, quello stupido, stava per giocarmi un brutto scherzo. Ma l’ha detto anche il medico, è stata l’emozione, solamente la troppa emozione. Non ho mai sofferto di problemi cardiaci in vita mia, nessuno nella mia famiglia ha mai avuto infarti o cose del genere, è stata soltanto l’emozione.
Un’emozione enorme, devastante, che mi ha travolta, mi ha riempita come un uovo.
Il mio cuore non era pronto a tutto quel fiotto di emozioni, tutto questo amore.

Mi perdo tra quei pensieri. Jacob mi sta guardando ancora con una certa preoccupazione, il sopracciglio inarcato. Starà cercando d’indovinare a cosa sto pensando, quando mi ammutolisco così d’improvviso e rimango pensosa a guardarlo, mentre frugo dentro la mia testa, dentro i miei stessi pensieri. Sto zitta un altro po’ prima di rispondere alla domanda di mio marito.

- Sto bene, ma starei meglio se mangiassi una di quelle deliziose ciambelle...

Lui sorride buono, come se l’aspettasse, e scarta il pacchetto. Me ne porge una, io la addento famelica.
Un lamento sottile mi solletica le orecchie.
Lascio cadere in terra la ciambella, mi giro immediatamente: è un richiamo, il mio richiamo, è più forte di qualsiasi grido, di qualsiasi pianto. Anche se il braccio è indolenzito, come tutto il resto del mio corpo magro, mi isso sul gomito, mi tiro su, sbircio dentro la culla di acciaio accanto al mio letto. La vedo bene. E’ una cosina tutta imbottita, paraurti ricamati dovunque, lenzuolini con disegnini colorati ricamati minuziosamente tutt’intorno.

Sarah, lì in mezzo, piccola cosina scura in tutto quel candore, dorme.

Respira lenta. Le palpebre appena strizzate, la pelle bruna, un po’ arrossata sulla fronte e sul nasino, stropicciata sul collo. Stringe un pugnetto contro la bocca, la apre, lo spinge sulle gengive rosee. Si lascia scappare un altro lamento flebile, gnaula come un cucciolo di gatto. Muove un po’ le gambette. Sembra un pesciolino fuor d’acqua, nuota con le sue zampette brune dentro quella orrenda tutina gialla che nonna Renée le ha donato, che le ho messo solo per farle piacere.

Mia madre non vuole che la si chiami nonna, in realtà, ma tutti lo fanno per farle dispetto. Renée, permalosa, storce la bocca e poi sorride con gli occhi lucidi, perché in realtà ama quel nomignolo. Ama sentirsi così. Nonna Renée, la canzona Phil, sempre. Poi l’abbraccia e la bacia, così lei sorride ancora di più, e ritorna a sentirsi di nuovo una ragazzina.

- Cosa c’è?

Jacob, papà iper-protettivo, iper-premuroso, iper-spaventato. Mi guarda con le sopracciglia scure corrugate, guarda la nostra bimba, ritorna a fissarmi confuso, la sua bocca è una linea di disagio. Lo comprendo. Si sente impreparato, inesperto. Un uomo-lupo terrorizzato dall’idea di non riuscire ad essere un bravo papà.
Gli poggio una mano sul braccio, la pelle scura che sbuca da quella camicia arrotolata.

- Si agita nel sonno. Forse sta sognando.

- Anche i neonati sognano?

- Già, anche i neonati sognano.

- Chissà cosa sogna - borbotta meditabondo, osservandola con quel cipiglio colmo di preoccupazione.

Si alza, fa il giro del mio letto. Si china sulla culla senza toccare nulla, senza muovere niente. Si china sulla testolina scura di nostra figlia, chiude appena gli occhi. Inspira l’odore di quella pelle nata da poco, di quella carne molle. Si morde il labbro, mi guarda di sottecchi, come un bambino che chiede cauto il permesso, ed io stiracchio le labbra in un sorriso incoraggiante. E’ tua, penso, è nostra.

Papà Jacob allunga il dito verso quel pugnetto chiuso, abbandonato sopra il pancino gonfio, ricoperto di ciniglia gialla. Lo sfiora, accarezza col polpastrello quelle nocche minuscole, quelle fossette di carne. Poi Sarah apre la manina, avvolge il dito del papà, lo stringe forte. Jacob la guarda, guarda quel piccolo miracolo, quella pagnotta di pelle bruna che è sua figlia. Sarah non si lamenta più. Ha chiuso la piccola bocca, sembra soddisfatta, tranquilla.

- E’ incredibile... tutta la dolcezza del mondo... chiusa in un corpo così piccolo - mormora Jacob, incantato, senza distogliere gli occhi da lei, dal suo pugnetto caldo che gli afferra l’indice.

Li guardo, guardo gli occhi velati d’emozione di Jacob, lo guardo quando finge un colpo di tosse per tirare su col naso, quando dice di avere uno stupido prurito nell’occhio per asciugarsi una lacrima che gli sfugge. Di nuovo sento il cuore fare le bizze, fa quasi male, ad ogni battito una fitta. E’ come se si fosse gonfiato d’amore. E’ troppa, la bellezza che ho davanti agli occhi, è troppa per il mio cuore sghembo, per il mio corpo fragile, bianco. Mi poggio una mano sul petto, inspiro ed espiro con lentezza, come mi ha raccomandato di fare il dottore prima di andarsene. E’ l’emozione, mi ripeto. Mi sdraio.

Jacob ha sciolto il nodo di quelle piccole dita con un’incredibile rapidità e delicatezza, mi è di nuovo accanto, ha raccolto la ciambella da terra, altrimenti quella befana dell’infermiera Mason comincia a lamentarsi. Si è seduto sulla sedia vuota, questa volta. Mi prende la mano che ho abbandonato inerte sul petto, la chiude fra le sue, la bacia con dolcezza. Bacia ogni dito, ogni nocca ruvida, screpolata, ogni unghia mangiucchiata. Si porta la mia mano magra al volto, respira nell’incavo fra le mie dita, sulle linee storte che mi segnano il palmo, mi guarda nascosto dietro quella gabbia di carne.

- Ti amo - sussurra roco.

E’ come una colata di lava nei polmoni, mi sento mozzare il respiro, come ogni volta che me lo ripete. Dentro di me tutto è denso e caldo, bollente, proprio com’è lui... la sua pelle. Mi passo una mano sulla guancia, la sento scottare, mi sento un’idiota, non ho più diciassette anni, non sono alla prima cotta, lui è mio marito, la mia vita, ed io mi imbarazzo ancora nel momento delle dichiarazioni d’amore. Sono proprio una stupida.

- E’ incredibile... - balbetto, quando riesco a scollare la lingua dal palato - tutto l’amore del mondo... dentro un omaccione così grosso...

Jacob sorride, sorride come mi ha sempre sorriso, e con quel sorriso mi scalda ancora di più. Chiude gli occhi e continua a sorridere. Mi giro appena, osservo quel piccolo corpo che riposa nella culla. Lì, tra quei pugnetti piccoli, tra la poca peluria spelacchiata che ricopre la testolina molle, lì, tra quegli occhi grandi, acquosi, che ancora vedono solo ombre, tra quelle piccole orecchie, quelle minuscole conchiglie di carne... Lì riposa un pezzo di me, di noi.
Io e Jacob, lì dentro, vivremo per sempre.




   
 
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Twilight / Vai alla pagina dell'autore: PiccolaWriter