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Autore: rosie__posie    02/09/2012    9 recensioni
School!AU
Il ragazzo biondo scosse la testa, non senza un briciolo di sconforto, prima di abbandonarsi nella poltrona.
-Non so. A volte... A volte penso seriamente di arruolarmi, dopo la laurea.
-Mhm, capisco. Sei drogato di adrenalina. Vuoi sentirla impossessarsi di tutto il tuo corpo, dando vita a indescrivibili emozioni che ti confermino che sei...
Una pausa, in cui Sherlock cercò di nuovo gli occhi di John, trovandoli, abbracciandoli con i propri.
-Che sono cosa?-, lo incalzò, con il respiro che quasi gli stava morendo in gola per la tensione.
-Vivo-, rispose Sherlock, con un fil di voce.
Genere: Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Aprile
 
 
 
-Hai mai pensato di essere destinato a qualcosa di più di ciò che hai in questo momento?
 
-Mhm, del tipo uno yacht?
 
Con malizia, Gregory aveva abbassato lo sguardo sull’amico, disteso sull’erba accanto a lui.
 
-No, non qualcosa di materiale. Qualcosa di più spirituale. Sì, insomma, essere destinato a fare qualcosa di importante…
 
John aveva parlato tenendo le braccia incrociate dietro alla nuca e mordicchiando un filo d’erba. Gli occhi erano rivolti al cielo limpido di tarda primavera e al paio di nuvole bianche e gonfie come batuffoli giganti che stavano viaggiando velocemente, complice il vento magnanimo, come se fossero in ritardo per un appuntamento.
 
-Vuoi diventare famoso, allora.
 
Gregory era seduto dieci centimetri accanto a lui, le braccia serrate attorno alle ginocchia. Dietro di loro, altri studenti erano impegnati in una partitella di pallone.
 
-No, la fama non mi interessa. La fama può essere pericolosa-, tirò a sedere di colpo, appoggiando le braccia alle ginocchia, assumendo più o meno la stessa posizione dell’amico. A volte, aveva l’impressione che nessuno, in questo mondo, riuscisse davvero a comprenderlo.
 
-È come se… se il mio destino fosse sempre un passo avanti a me e, per quanto io mi sforzi, mi sia impossibile raggiungerlo.
 
John fece oscillare entrambe le mani di fronte a sé, le dita ben estese, in modo da sottolineare meglio il concetto.
 
-Forse avresti bisogno di andare in guerra.
 
-Quale guerra, Greg?-, gli chiese di rimando, strizzando leggermente gli occhi sotto il sole pungente.
 
Gregory fece spallucce.
 
-C’è sempre una guerra, da qualche parte.
 
In lontananza, riecheggiò la campana che segnava la fine della ricreazione.
 
 
 
 
 
 
 
Ottobre
 
 
 
-Se ti tiri indietro, mi tiro indietro anch’io.
 
La voce di Molly era stata poco più di un bisbiglio, ma era arrivata dritta all’orecchio di John, recapitando il suo messaggio.
 
-Shh, piantala. Mi deconcentri…
 
-Ti deconcentro dal prendere appunti?-, chiese la compagna, piegandosi ancora di più sul libro di biologia.
 
-Ma no, sciocca! Sto facendo altro…-, John piegò leggermente la testa di lato, in modo che le sue parole potessero essere udite facilmente anche dal banco dietro di sé.
 
-“Altro” tipo?
 
Gli occhi andavano rapidamente dalla schiena di John davanti a sé a quella della professoressa Winslet, alla lavagna.
 
-Un articolo per il giornale scolastico. Ho una scadenza da rispettare.
 
-Tu fai troppe cose. Per questo dopo sei esaurito. Il giornale della scuola, il rappresentante degli studenti, la recita di Natale…-, iniziò a elencare Molly, tornando ad appoggiarsi allo schienale della scomoda sedia.
 
-Niente più recita scolastica, ho detto.
 
-Oh, andiamo!-, sbottò lei, costringendo la professoressa a voltarsi un attimo verso il fondo dell’aula. –Te l’ho detto, se non lo fai tu, non lo faccio più nemmeno io.
 
-Ma Molly, recitare è la tua vita.
 
Quello e dissezionare rane morte, ma forse non era il caso di ricordarlo.
 
-Allora non abbandonarmi, John.
 
Il ragazzo sbuffò, chiudendo il quaderno di fronte a sé.
 
-Tanto c’è Greg, no?
 
-Greg non è altrettanto bravo.
 
-A fare il templare? Molly, chi diavolo vorrebbe fare il templare?
 
-Tutti vorrebbero farlo! Non giochi mai alla playstation?
 
No, John non ci giocava mai. Era sempre troppo preso a studiare, ad aiutare la sorella maggiore a cavarsi sempre più spesso dai guai o ad aspettare l’arrivo del suo destino. Si stava preparando per bene, a quell’incontro, pazientemente e diligentemente. In altre parole, sacrificando inevitabilmente qualcos’altro, tipo la spensieratezza tipica della sua età. A volte avrebbe tanto voluto voler barattare qualche anno della sua vita in cambio della capacità che avevano i suoi migliori amici, Gregory e Molly, di vivere la loro vita da teenager proprio come… dei veri teenager.
 
-Dai, se non ci abbandoni, ti aiuto con il test di letteratura! Che ne dici?
 
John sbuffò di nuovo. Avrebbe detto che cedeva, ovviamente, perché a John Watson si poteva chiedere di tutto tranne che deludere i suoi due amici più cari.
 
 
 
 
 
 
 
Novembre
 
 
 
Era in dannatissimo ritardo per le prove mentre attraversava il cortile correndo all’impazzata. Era quasi buio e faceva fatica a vedere bene perché un paio di lampioni erano saltati da alcuni giorni e nessuno si era degnato di ripararli. Gli fu dunque impossibile urtare una berlina nera di lusso parcheggiata dove non avrebbe dovuto sull’ultima curva che portava alle scalinate d’ingresso.
 
-Porc…
 
Le parole gli morirono in bocca, mentre la pioggerella novembrina iniziava a farsi sentire. Si scostò dalla Bentley nuova di zecca, riservandole uno sguardo di fuoco e riprendendo a correre. Il costume bianco da templare con la famosa croce e la finta armatura tutt'altro che leggera, celata dalla clamide artigianale, non facilitavano di certo la sua corsa.
 
-Dannazione, la riunione di domani!-, proferì John a denti stretti, picchiandosi una mano sulla fronte. Prima di recarsi all'auditorium per le prove doveva assolutamente informare la preside che l'indomani sarebbe arrivato alla riunione mensile del consiglio scolastico con qualche minuto di ritardo, poiché aveva appuntamento dal dentista dall'altra parte della città.
 
L'ampio atrio della scuola era buio e semi deserto ma John poteva distinguere chiaramente la voce della preside Scott. Si guardò un po' attorno nel tentativo di individuarla, con il naso all'insù e le labbra sottili leggermente dischiuse, fino a quando non la vide sul mezzanino. Stava conversando con un uomo sulla trentina, ben vestito nel suo completo a doppio petto e trama dell'ombrello, con cui stava giocherellando distrattamente, perfettamente intonata al fazzoletto da taschino. La preside Scott gesticolava mentre sfoderava il migliore e il più bianco dei suoi sorrisi. Forse un giorno l’avrebbero ingaggiata come testimonial di un dentifricio, pensò John.
 
-Non sono certo che questa possa essere la soluzione migliore per mio fratello, in tutta onestà-, stava dicendo il giovane uomo. -D'altronde, nessuna lo sembra.
 
-Potremmo concordare un breve periodo di prova, se lo ritiene appropriato.
 
Le parole giunsero all’orecchio di John lontane e un po’ confuse, ma sufficienti a fargli capire, mentre saltellava nervosamente da un piede all’altro, che fosse meglio ripassare in un secondo momento. Girò sui tacchi e, coprendosi la testa con il cappuccio, uscì nuovamente all’aperto, sotto una pioggia che stava via via diventando più insistente.
 
Attraversò nuovamente tutto il cortile, questa volta nella direzione opposta. Tra la pioggia e la pesante riproduzione della spada templare, ogni passo sembrava diventare più difficile del precedente. Svoltato l’angolo che conduceva all’ingresso laterale della scuola, quello più vicino all’auditorium, la scena che si trovò di fronte lo inchiodò là dov’era, arrestandolo sui suoi passi e facendo smuovere la ghiaia per terra, quasi come se si fosse trasformato nello sfortunato eroe di un cartone animato di Hanna e Barbera.
 
Due ragazzi all’incirca della sua età – un ragazzo dell’ultimo anno che aveva visto qualche volta di sfuggita, che, se si ricordava bene, si chiamava Jim Qualchecosa, e un altro che non conosceva minimamente – si stavano azzuffando incuranti del tempo, gli abiti eleganti di entrambi sporchi di fango e i capelli dritti e appiccicati sul viso dalla pioggia sempre più insistente. John rimase a guardarli per un attimo mentre si dimenavano l’uno sull’altro, indeciso se intervenire oppure spalmarsi contro il muro e dirigersi come se niente fosse verso l’auditorium.
 
-Sei un folle totale!
 
-E tu sei un noiosissimo stupido-, sibilò il ragazzo dell’ultimo anno, spingendo in là l’altro ragazzo, probabilmente per avere il tempo di “ricaricare”.
 
-Ripetilo, se hai il coraggio-, ringhiò lo sconosciuto, scagliandosi di nuovo verso l’altro, che portò indietro il braccio e gli assestò un bel pugno, colpendolo con forza su uno zigomo. Lo sconosciuto barcollò un attimo prima di cozzare contro John, che, forse forte della sua finta armatura, aveva fatto un paio di passi in avanti con l’intento di intervenire.
 
-Oh oh oh! Piano, non vi sembra di esagerare?-, disse John pacatamente, ma mostrando con decisione la sua spada al ragazzo dell’ultimo anno. Pur essendo finta, faceva comunque la sua bella figura. Con l’altra mano, sfiorò il gomito dello sconosciuto, avvolto in un cappotto di lana tanto elegante quanto ormai irrimediabilmente rovinato, quasi come per offrirgli il suo sostegno. L’altro si voltò verso di lui, trafiggendolo con un paio di gelidi occhi chiari che sembravano urlare ai quattro venti “Me la stavo cavando benissimo da solo”, e subito si scostò come se avesse ricevuto una scossa.
 
In quel momento John pensò che se gli occhi erano davvero lo specchio dell’anima, quel ragazzo ne dovesse essere in possesso di una aguzza come uno spillo e attraente come una calamita. Sollevò la visiera mobile dell’elmo per osservarlo meglio, ma l’altro distolse lo sguardo per rivolgerlo nuovamente al suo assalitore.
 
-Accidenti, è arrivata madamigella Watson, la piccola crocerossina londinese!
 
Sì, era proprio Jim Qualchecosa, sempre pronto a spendere una buona parola per tutti.
 
-Ti suggerisco di squagliartela e di tornare alle tue faccende, Jim, o dovrò fare rapporto alla preside-, proferì John facendo valere la sua autorità di rappresentante di istituto, non senza timore.
 
-Oh, va bene, va bene!-, ribatté Jim, mostrando entrambe le mani a mo’ di resa ed esibendo il migliore dei suoi sorrisi sarcastici. –Tanto qui non c’è più niente di divertente…
 
Indietreggiò di un paio di passi, tenendo lo sguardo fisso sullo sconosciuto accanto a John, dopodiché affondò entrambe le mani nelle tasche dei pantaloni e si voltò, lasciandoli.
 
-Tutto OK? Come ti senti?-, la mano di John era tornata, non sapeva bene come e quando, a reggere il gomito dello sconosciuto.
 
-Ho già detto che non ho bisogno di aiuto-, replicò il moro, asciugandosi con il dorso della mano un rivolo di sangue che fuoriusciva dal labbro inferiore spaccato.
 
“Un grazie sarebbe quanto meno gradito”, pensò John, ma decise di non dare voce ai suoi pensieri. Lo sconosciuto mosse mezzo passo, ponendo fine all’effimero contatto, prima di barcollare e quasi accasciarsi al suolo.
 
-Tu non stai affatto bene-, borbottò John, cingendogli un braccio attorno alla schiena e aiutandolo ad alzarsi.
 
-Ho già detto che…
 
-Sì, ho sentito cosa hai detto, non sono sordo-, il tono di John era serio e non ammetteva discussioni, proprio come quello di un dottore che ha appena visto entrare in ambulatorio il suo paziente.
 
-Hai sempre questo atteggiamento da crocerossina?-, chiese lo sconosciuto, cedendo e aggrappandosi alla stretta forte e vigorosa di John.
 
-E tu vuoi sempre avere l’ultima parola?
 
-Così mi dicono.
 
 
 
 
 
 
 
Bip. Il distributore automatico aveva sputato fuori la “bevanda calda al gusto di the” con un sonoro sibilo. John aprì lo sportellino e prese con cautela il bicchiere di plastica colmo sino all’orlo, usando entrambe le mani. Ci soffiò sopra un paio di volte, prima di porgerlo allo sconosciuto, che lo prese con aria insofferente, quasi fosse stato lui a fare un piacere a John. Le dita del moro sfiorarono le sue per una frazione di secondo, sufficiente a far provare a John una leggera scossa.
 
-Rappresentante di istituto?-, domandò lo sconosciuto, osservando John sollevare leggermente la tunica e riporre la chiavetta nella tasca dei jeans.
 
-Come…
 
L’altro indicò la chiavetta con il mento, soffiando ancora sul the bollente.
 
-Non tutti gli studenti se ne vanno in giro con una chiavetta per i distributori automatici. Non in una scuola come questa, almeno.
 
Alla parola “questa”, il moro si era guardato un po’ in giro, arricciando sia naso che labbra.
 
-Già, in effetti a tratti sembra un po’ fatiscente-, ammise John, sorridendo allo sconosciuto, il quale, nonostante i suoi sforzi, non poté proprio fare a meno di atteggiare la bocca a un mezzo sorriso. Si sedette accanto a lui sui gradini delle scale che portavano in mensa, le mani affondate nelle cosce strette, lo sguardo imbarazzato.
 
-Me lo ha fatto capire la chiavetta e quello che hai detto a quel… quel…
 
-Delinquente?-, suggerì John, con un sorriso che sembrava trasmettere il concetto “non dovrei ma lo faccio”.
 
-Stavo per dire folle, ma delinquente va bene lo stesso-, ribatté lo sconosciuto, piegando la testa all’indietro per finire l’ultimo sorso della sua bevanda calda.
 
John lo guardò di sottecchi, mentre una goccia ribelle di the andava a mescolarsi a una di sangue raggrumato nella fossetta all’angolo sinistro della bocca. Il moro sentì lo sguardo dell’altro su di sé; i suoi occhi si spostarono piano nella sua direzione, per poi tornare a guardare in avanti, verso l’ingresso secondario, non prima di aver costretto John a fare altrettanto, imbarazzato.
 
-Lo conosci?
 
John avrebbe voluto fare un milione di domande a quel ragazzo. Non succedevano mai cose realmente interessanti nella sua scuola e quel ragazzo era qualcosa di davvero fuori dall’ordinario. Si sentiva un po’ come se, mentre si trovava in un prato disteso sopra un plaid rosso per un pisolino pomeridiano, un disco volante fosse atterrato davanti a suoi occhi. Si sarebbe forse lasciato scappare l’occasione di fare due chiacchiere con il suo conducente?
 
-Chi?
 
-Il folle delinquente. Chi sennò?
 
Il moro fece spallucce.
 
-Ci siamo incontrati in un paio di occasioni-, rispose, con l’aria di chi non avrebbe aggiunto altro sull’argomento. Solo in quel momento sembrò accorgersi del sangue rappreso che si era formato agli angoli della bocca e provò a pulirsi, usando di nuovo il dorso della mano. Un altro gesto innocente che costrinse di nuovo John a voltarsi. Rimasero in silenzio ancora per un attimo, mentre John si strofinava nervoso le mani sempre sprofondate nelle cosce. Sembrava che a nessuno dei due piacesse stare lì, ma nemmeno se ne volevano andare.
 
-È tua la Bentley nel cortile della scuola?
 
-Tu fai troppe domande.
 
-Scusami-, farfugliò John. –Non volevo essere invadente. È solo che tu sembri…
 
-Io sembro cosa?
 
-Interessante.
 
Per un attimo, l’aria parve immobilizzarsi attorno a loro. John riuscì quasi a sentire il respiro dello sconosciuto morire a mezz’aria a quella parola. Interessante. Mentre lui trovava inaspettatamente il coraggio di voltarsi per guardare l’altro negli occhi. Vide che erano scintillanti e fieri. E ne fu ammaliato.
 
-Nessuno me lo dice mai.
 
John sorrise, di un sorriso contagioso e goloso, che spinse il moro a fare altrettanto.
 
-Sì, è mia. Di mio fratello, in verità.
 
Lo sconosciuto era tornato a guardare davanti a sé, ma le labbra erano ancora atteggiate a un mezzo sorriso e i lineamenti del viso erano più rilassati. Poteva sembrare il dipinto della serenità, se non fosse stato per quell’occhio nero.
 
-Credo di averlo intravisto parlare con la preside, poco fa.
 
-Può essere. Sta cercando di trovare la scuola giusta in cui piazzarmi.
 
In tutta onestà, John lo avrebbe visto un po’ fuori luogo in quella scuola, ma non gli sarebbe dispiaciuto averlo come compagno.
 
-Nelle altre facevi fatica a integrarti con gli altri?
 
-No, nelle altre erano gli studenti e i professori che non erano capaci di integrarsi con me.
 
John si morsicò il labbro per non ridere e sembrare scortese. Riusciva a immaginare con facilità il motivo per cui, in pieno novembre, quel ragazzo non avesse ancora trovato una scuola da frequentare.
 
Lo sconosciuto accartocciò il bicchiere di plastica vuoto e lo lanciò verso il cestino, poco distante da loro. Colpì il bordo, rimbalzando un paio di volte prima di fare canestro.
 
-E i tuoi amici? In che scuola vanno?
 
-Io non ho amici.
 
Associale, leggermente introverso con difficoltà a relazionarsi con il prossimo, registrò John, cercando di pensare a quali altri argomenti potesse tirare fuori per aiutarlo a fare un po’ di conversazione.
 
-Se rimani qui, non so se tuo fratello riuscirà a trovarti-, disse infine.
 
-Vuoi mandarmi via?-, chiese il moro sconosciuto, non senza una punta di malizia.
 
-No no no, non era mia intenzione.
 
La punta delle orecchie leggermente a sventola di John si dipinse di porpora.
 
-E comunque ti assicuro che, se solo volesse, Mycroft sarebbe capace di rintracciarmi in capo al mondo.
 
Mycroft? Che nome orrendo, pensò John. Così orrendo che gli andò per traverso la sua stessa saliva, rischiando seriamente di strozzarsi.
 
-Coraggio, signor rappresentante di istituto, esistono nomi peggiori al mondo!-, lo canzonò l'altro, picchiettandogli leggermente sulla schiena. John poté quasi percepire il calore di quella mano a contatto della sua schiena, attraverso la tunica, la finta cotta e la camicia. Buffo, assurdo.
 
-Come accidenti.. Coff... facevi a sapere...
 
-Te l'ho visto passare direttamente attraverso i tuoi occhi-, spiegò, indicando con l'indice teso gli occhi di John. -Gli occhi della gente parlano, Watson. Ogni minuto, ogni secondo. E, credimi, il resto del corpo umano è solitamente ancora più loquace.
 
La sua voce era profonda e invitante. Quasi ammaliante. A John riportava alla mente i prestigiatori del circo, quando la mamma ci portava lui e sua sorella da bambini. A John il circo non era mai piaciuto. Animali, trapezisti improbabili e, soprattutto, clown. Ma gli spettacoli di magia... Quello era tutto un altro paio di maniche. La luce soffusa, il freddo che calava sotto il tendone e che quasi faceva accapponare la pelle. E quella voce... La voce suadente del mago che ti entrava dentro, nella testa. Che ti prometteva di tutto e di più e te lo dava, alla fine. Ben impacchettato in un nastro rosso. Purché guardassi dove ti diceva lui.
 
-Affascinante...-, mormorò John, stregato dalle parole del moro. -A proposito, non conosco ancora il tuo nome. Io sono John. Beh, il cognome lo sai...
 
-È importante?
 
-Adesso non rispondermi dicendo che una rosa avrebbe ugualmente lo stesso profumo anche con un altro nome!-, lo canzonò John, iniziando a rendersi conto che si stava divertendo davvero come non gli era mai capitato da mesi.
 
Il moro aggrottò la fronte, atteggiando sul volto un’espressione perplessa, non avendo idea di ciò che John stesse parlando. Ignorante in fatto di letteratura – registriamo anche questo, si disse il biondo.
 
-Comunque, Sherlock Holmes. E attento a non strozzarti di nuovo con la saliva!
 
Risero entrambi di gusto, curiosi testimoni dello sbocciare di qualcosa. Di che cosa, esattamente, non avrebbero saputo dirlo, ma era indubbiamente stimolante.
 
-Sempre a proposito, tu non dovresti andare da qualche parte, con quel costume addosso?-, chiese Sherlock, distogliendo lo sguardo.
 
-Dannazione-, sbraitò John, scattando in piedi come una molla. Si bloccò di colpo dopo appena un passo. -Ehi, perché non vieni anche tu, visto che ti stai nascondendo?
 
 
 
 
 
 
 
Nel piccolo auditorium della scuola si sedettero in penultima fila, ultime due poltroncine esterne. In disparte. John piegato in avanti, le braccia buttate stancamente sullo schienale della poltrona davanti, le gambe incrociate all'altezza delle caviglie. Sherlock sprofondato nella sua poltrona, il sedere sul bordo del sedile, le gambe allungate sotto la poltrona davanti, le braccia serrate al petto e lo sguardo perplesso.
 
-Adesso mi spieghi perché fate una recita sulla natività con i Templari-, borbottò, slacciandosi il cappotto.
 
John appoggiò il capo sul bordo orizzontale dello schienale della poltrona davanti a lui.
 
-Non è sulla natività.
 
-Non è la recita di Natale, scusa?
 
-Sì, il ventitré dicembre. Qualora non avessi impegni e volessi venire...-, buttò lì John con fare innocente, evitando di aggiungere "mi farebbe solo piacere".
 
Sherlock gli lanciò uno sguardo assai eloquente, uno di quelli che sembravano completi addirittura di sottotitoli. E i sottotitoli in questione erano "non starai seriamente pensando che io possa anche solo prendere in considerazione una simile eventualità".
 
-Era solo per dire...-, ribatté John, scuotendo leggermente il capo. -Comunque, abbiamo fatto per anni recite sulla natività. Tutte uguali. Ho proposto qualcosa di diverso al gruppo teatrale, per quest'anno.
 
Lo sguardo di John osservava vago la sua compagna di corso, Sarah Sawyer, che sul palco dettava legge a destra e a manca forte del suo ruolo di regista. 
 
-Rappresentante di istituto, gruppo teatrale, giornale scolastico...-, recitò Sherlock, non senza enfasi. –Qualcosa d’altro?
 
-Come sai del giornale?-, chiese John, voltandosi di colpo a guardarlo, la fronte aggrottata.
 
Sherlock intrecciò le mani dietro la nuca, sprofondando ulteriormente nella poltrona. 
 
-Inchiostro di cartuccia da stampa sui polpastrelli e incastrato sotto le unghie. Di qualità professionale. Non una normale stampante domestica. È recente. Quindi hai stampato qua a scuola. Suppongo una stampatrice di piccole dimensioni. Il giornale scolastico mi sembra la spiegazione più appropriata, vedendo....-, Sherlock piegò leggermente il capo a sinistra, per meglio osservare il suo interlocutore. -Beh, vedendo un po' che tipo sei-, concluse, strizzando l'occhio.
 
La mandibola inferiore di John decise di scendere senza permesso, lasciandolo a bocca aperta, con le labbra atteggiate in una perfetta O di meraviglia.
 
-John! Cinque minuti!-, gridò Sarah dal palco, interrompendo i loro discorsi. John si voltò a guardarla e oscillò una mano in cenno di assenso. Tornarono entrambi a osservare silenti la scena che si snodava sul palco. Gregory e Mike Stamford avevano appena fatto il loro ingresso travestiti da eruditi.
 
-Pensi mai… pensi di mai essere destinato a qualcosa di importante?-, chiese John a bruciapelo. –Qualcosa di più importante di ciò che c’è già nella tua vita?-, specificò, voltandosi per guardare Sherlock. Era sicuro che, se mai esistesse qualcuno che potesse comprendere il suo disagio, quella persona potesse essere proprio questo curioso ragazzo appena conosciuto.
 
-Stiamo parlando della tua vita o della mia?-, chiese il moro di rimando, corrugando le folte sopracciglia e guardandolo con occhi improvvisamente interessati, attraversati finalmente da un baluginio di vita. John fece spallucce, tornando a coricare la testa sullo schienale della poltrona di fronte, senza tuttavia abbandonare gli occhi dell’altro con il proprio sguardo.
 
-Di entrambi. A te è mai capitato?
 
-Cosa credi sia assente nella tua vita, John Watson?-, rispondere a una domanda con un’altra domanda non era la migliore definizione di educazione, ma era una delle essenze di Sherlock Holmes. -La frustrazione dell'adolescente britannico di ceto medio...
 
-No, dai, seriamente. Ti è mai capitato di sentirti destinato a qualcosa di più grande di quanto la gente si aspetti da te? Voglia da te?
 
Sherlock si sporse in avanti e raddrizzò le gambe. Era così vicino a John che gli stava respirando addosso, con le iridi grigio-azzurre che inchiodavano quelle blu dell'altro lì dov'erano.
 
-Ogni.singolo.giorno-, rispose, scandendo al massimo le parole come se ne andasse della sua stessa vita. Il suo respiro addosso a John era così carico di tensione emotiva da fargli increspare la pelle.
 
-E quale credi sia la soluzione?-, gli domandò John di rimando, sostenendo lo sguardo.
 
-Tu cosa dici?
 
Il ragazzo biondo scosse la testa, non senza un briciolo di sconforto, prima di abbandonarsi nella poltrona.
 
-Non so. A volte... A volte penso seriamente di arruolarmi, dopo la laurea.
 
-Mhm, capisco. Sei drogato di adrenalina. Vuoi sentirla impossessarsi di tutto il tuo corpo, dando vita a indescrivibili emozioni che ti confermino che sei...
 
Una pausa, in cui Sherlock cercò di nuovo gli occhi di John, trovandoli, abbracciandoli con i propri.
 
-Che sono cosa?-, lo incalzò, con il respiro che quasi gli stava morendo in gola per la tensione. Pareva assurdo, ma già gli sembrava quasi di sentirle, quelle emozioni. Brivido, libertà e altre sensazioni a cui non era capace di dare un nome. Non ancora.
 
-Vivo-, rispose Sherlock, con un fil di voce.
 
John si ammutolì, con la testa che iniziava a farsi pesante, come dopo un giro sulle montagne russe. Sentirsi vivo, esserlo sul serio. Era forse questo il tassello che mancava al puzzle della sua vita? E ci voleva realmente uno sconosciuto, affascinante e misterioso quanto voleva ma pur sempre uno sconosciuto, a fargli trovare la bussola dell’esistenza?
 
-E la soluzione di Sherlock Holmes quale sarebbe, invece?
 
Il moro tornò a reclinare la schiena nella poltrona, gli occhi che si stavano per spegnere, piano piano.
 
-Drogarsi di… droga.
 
Il cuore di John si perse per strada un paio di colpi: l’alieno venuto dallo spazio infinito che aveva scelto di parcheggiare il proprio disco volante, anche solo per un breve rifornimento, nella sua Roswell non poteva essere banalmente alla mercé di una o più sostanze stupefacenti.
 
-Non stai parlando seriamente.
 
-E chi ti dà questa certezza? Tu nemmeno mi conosci.
 
Il silenzio cadde tra di loro. Era vero, John non lo conosce. Minimamente. Eppure, gli sembrava di essere con lui da una vita. O, forse, in attesa di lui.
 
-No, in verità no-, disse Sherlock, dopo una lunga pausa di riflessione. Era la prima volta che si trovava a essere così sincero. Con uno sconosciuto, oltretutto. -Spesso dico agli altri che lo faccio, che mi drogo, anche se non è vero. Tanto non vengono a controllare.
 
-E perché lo fai, scusa?
 
-Così la gente mi lascia in pace e se ne va-, rispose, increspando le labbra.
 
Nonostante la profonda tristezza che leggeva in quegli occhi di ghiaccio, John si sentiva ogni momento sempre più coinvolto. Si appoggiò al bracciolo di destra, spostando tutto il peso del corpo in avanti, in modo di avvicinarsi di più a Sherlock. 
 
-Perché devi fingere di essere così irritante e antipatico, se non lo sei per davvero?
 
Quelle parole suonarono sorprendentemente interessanti alle orecchie di Sherlock, che si fermò un attimo a considerarle.
 
-Non lo so se lo sono o non lo sono.
 
John aggrottò le sopracciglia, chiedendo mentalmente a Dio perché non avesse mandato sulla sua Terra più persone bizzarre come Sherlock Holmes. L’avrebbero resa decisamente un luogo molto più divertente in cui vivere.
 
-Cosa intendi dire?
 
Sherlock distolse lo sguardo.
 
-Solo che... quando la gente ti dice che sei in un certo modo e te lo ripete per anni, alla fine tu finisci per crederci.
 
Fu come se, in quel momento, le labbra di John avessero assunto vita propria, atteggiandosi in un sorriso. Aveva appena udito una delle cose più tristi di tutta la sua vita, eppure, sgusciate fuori così, dalla bocca di Sherlock, gli erano risuonate strabilianti e coinvolgenti come una formula magica, una ballata gitana o una sonata d'amore. John allungò piano una mano verso l'altro, sfiorandogli appena il polso con un dito, in una carezza che voleva esprimere solidarietà e conforto più di ogni altra cosa. Dirgli "Io sono qui per te". 
 
-Non è detto che vada sempre così, Sherlock...-, sussurrò.
 
Lo sguardo di Sherlock era sempre calamitato verso il palco. Non prolungò o favorì quel contatto in alcun modo, ma nemmeno lo interruppe. Il calore della pelle di John contro il suo esile polso era qualcosa di rassicurante, come una tazza di buon the caldo assaporata in un pomeriggio invernale, distesi su una coperta di lana davanti al camino scoppiettante.
 
-Credo ti stiano chiamando…-, fece notare a John, mettendo definitivamente la parola “fine” al loro confronto. Indicò con il mento una ragazzina che si stava sbracciando sul palco, abbigliata in un costume di scena da pellegrina. Molly.
 
-John! John, tocca a te!
 
John si alzò contro voglia, sbuffando. Si guardò un attimo in giro alla ricerca della sua spada e, quando la individuò per terra nel corridoio un metro più in là, si chinò a raccoglierla. Poi, si fermò un attimo a guardare Sherlock, imbarazzato.
 
-Ti fermi a scoprire come me la cavo sul palco?
 
-Se ti fa piacere…
 
-Però non ridere.
 
-Non riderò, te lo prometto.
 
John fece un paio di passi verso il palco, quindi si fermò di nuovo. Si voltò e tornò a posare lo sguardo su Sherlock. Si sentiva restio ad allontanarsi, quasi come un soldato che parte per il fronte costretto ad abbandonare la propria famiglia in una situazione di precaria sicurezza fisica e psicologica.
 
-Ti troverò ancora, al mio ritorno?
 
Sherlock non rispose, limitandosi a osservarlo intensamente con i suoi occhi di ghiaccio. Nonostante la musica, i riflettori intensi e pulsanti, gli odori forti dell’ambiente chiuso e il vociare sul palco e attorno a esso, John non faceva fatica a percepire il suono ben mercato prodotto dagli ingranaggi del cervello del moro in fase di frenetica attività e quello più tenue dei battiti del suo cuore, un muscolo poco abituato al lavoro. Gli era già capitato di vedere tutto questo, nel corpo di sua sorella, ogni volta che, dopo l’ennesima lite con i genitori seguita dall’ennesima fuga, John la prendeva con sé, si chiudevano nel disimpegno sotto scala e tentava di rassicurarla con parole dolci, che esprimevano tutto il suo amore fraterno. E, ogni volta, John sapeva che non sarebbe bastato.
 
-Ho capito-, mormorò John, dirigendosi con passo stanco verso il palco.
 
 
 
 
 
 
 
-Greg, andava bene ma dimentichi sempre la quinta e la settima battuta a pagina dieci! Dovresti metterci più impegno. Fa finta che sia una partita di rugby-, sentenziò Sarah, lo sguardo basso sul copione, alla fine delle prove.
 
John saltò giù dal palco, preferendo un balzo al posto dei quattro scalini laterali.
 
-Andiamo a bere qualcosa? Sperando che abbia smesso di piovere…-, Mike si avvicinò alla console di controllo, iniziando a spegnere le luci.
 
-Ho davvero voglia di un cappuccino!-, cinguettò Molly, raccogliendo lo zaino da una poltrona in prima fila.
 
-Può venire anche il mio amico?-, domandò John, iniziando a muoversi verso le ultime file di poltrone.
 
-Chi?-, domandò Greg, mentre si toglieva rapidamente il costume di scena.
 
John si bloccò fatti solo pochi passi. Nonostante la luce dei riflettori si affievolisse man mano che si raggiungeva l’uscita dell’auditorium fino a spingersi nella penombra dell’ultima fila, poteva vedere benissimo che le poltrone erano tutte vuote. L’alieno venuto dallo spazio infinito era saltato di nuovo a bordo del suo disco volante e aveva lasciato Roswell.
 
Sospirò, aprendo e chiudendo a pugno un paio di volte la mancina.
 
-Fa niente-, mormorò a se stesso con fare risoluto. –Tanto ti ritroverò. È una promessa.
 
Un attimo dopo sentì le dita fresche di Molly che cercavano le sue. –Andiamo?
 
Cinque minuti per togliersi il costume. Tre per raggiungere il suo armadietto in cui contava di riporlo, eccezion fatta per la spada troppo grande. Un numero indefinito per osservare completamente inebetito il foglietto strappato da un quaderno a quadretti e appiccicato con un pezzettino di scotch sullo sportello. Quando finalmente tornò a essere padrone delle sue facoltà, John lo strappò esercitando il massimo dell’attenzione, in modo da mantenerlo integro. Era come se quel pezzetto di carta gli parlasse, ancor prima di aprilo per conoscerne il contenuto. Sospirò, chiuse gli occhi e lo aprì. Un altro numero indefinito di secondi prima di riaprirli.
 
Sei stato bravo, non ho riso. Avrei comunque qualcosa da ridire sulla sceneggiatura. Fa un po’ acqua in almeno un paio di punti. Forse dieci, includendo il pezzo in cui il tuo amico ha un incontro ravvicinato con un dromedario. Se quel giorno non avrò impegni, potrei anche venire a vedere come te la cavi di fronte a un pubblico. SH
 
John sorrise, ripiegò il biglietto, lo sventolò un paio di volte sotto il naso, come se volesse saggiarne il profumo e imprimerselo bene nella mente, quindi lo ripose nel taschino della camicia, vicino al cuore.
 
Sì, lo avrebbe certamente rivisto.
 
 
   
 
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