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Autore: _Fedra_    02/09/2012    9 recensioni
Donna e artista. Nel 1788, queste due parole non possono andare d'accordo. Specie se la tua condizione sociale non te lo permette.
E' per questo che Sophie Le Brun è costretta a rinunciare al suo amore per Alexandre, giovane nobile il cui destino è stato scritto sin dalla sua nascita.
Lo scoppio della Rivoluzione francese capovolgerà ogni cosa, creando un nuovo intrigante intreccio in cui ogni decisione spetterà al coraggio e alla forza di combattere dei due protagonisti.
TERZO POSTO AL CONTEST RIVOLUZIONI
Genere: Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Storico
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~Acquerello~

 
 
 
 
 
 
 

Potrei anche dedicare questa fiction
 a più di un paio di persone, ma non lo faccio,
perché non se lo meritano.
 
 
 
 
 
 
 
Questo racconto è un’opera di pura fantasia dell’autrice.
Qualsiasi riferimento a persone o a cosa reali è puramente casuale.
 

 
 
 
 

    La carrozza sobbalza ritmicamente sul viale immerso nell’oscurità, il trotto dei cavalli è attutito dalla ghiaia.
    André dorme con la testa bionda e ricciuta appoggiata alla mia spalla. Di tanto in tanto, spalanca gli occhioni azzurri frastornato, incollando il piccolo naso all’insù al vetro gelido del finestrino e chiedendomi con aria sbattuta:−Manca ancora molto?
    Fuori, i prati ricoperti di neve brillano di una luce argentea alla luce della luna piena, sotto un cielo limpido, perfetto, le cui stelle sembrano diamanti di fuoco freddo che brillano distanti in quel cielo di ghiaccio.
     Mi stringo un po’ di più nella mia mantella imbottita di pelliccia, prendendo a disegnare con la mano intirizzita quel paesaggio così intriso di sublime bellezza. Anche questa volta, l’Arte mi viene incontro, riscaldandomi l’animo e facendomi scordare la fame e il freddo.
    Sono due giorni che io e André siamo in viaggio. Il motivo per cui Madame ci abbia convocato nella sua tenuta di campagna mi è ignoto, come ancora non capisco come faccia a ricordarsi di me dopo così tanti anni e, soprattutto, come ha fatto a sapere dove mi trovavo. Forse è riuscita a intercettare le corrispondenze dell’Accademia, forse è amica di qualche intellettuale, cosa che non mi stupirebbe affatto, se assomiglia a sua madre.
    Sospiro pensierosa, accarezzando distrattamente la chioma ribelle del mio piccolo André e continuando a guardare fuori dal finestrino. L’interminabile vialone ora si sta snodando in mezzo a un prato verde costellato di statue bianche e innevate, le cui forme aggraziate e voluttuose mi rimandano subito ai sogni paradisiaci di Le Notre e alla follia che un grande re ci ha lasciato laggiù in Francia. Una visione straniante, misteriosa, elegante e raffinata come un bozzetto di Fragonard. Un disegno delicato e raffinato, un cofanetto segreto legato a un passato di utopistica grandezza destinato a svanire. Solo lei poteva far rivivere tutto questo. Solo lei poteva creare dal nulla un posto simile, al centro di una delle foreste più impenetrabili d’Austria, mentre fuori tutto il mondo si scuote, cresce, si trasforma. Lei è estranea a tutto questo, rinchiusa al sicuro nella sua fortezza di ricordi, lontana dall’incandescente brulichio che sta spazzando via l’Europa.
    La carrozza prende a rallentare, fermandosi dinanzi all’imponente scalinata di una grande dimora.
    −Siamo arrivati, André – lo riscuoto dolcemente.
    Il bambino spalanca un occhio, poi l’altro, infine si esibisce in uno sbadiglio plateale. –Davvero, maman? – mi chiede sbattendo le palpebre assonnato.
    −Sì. Mi raccomando: voglio che ti comporti bene di fronte a Madame Royale, intesi? Ti ho già mostrato cosa devi fare – gli ricordo un’ultima volta.
    −Certo, mammina. Però non capisco: perché con lei ci dobbiamo comportare in questo modo così strano, se è una tua grande amica? Di solito, con le altre persone non facciamo così – osserva lui con fare acuto.
    −Perché lei è speciale, mio piccolo André – rispondo io sorridendo. –E’ diversa da tutte le altre donne che incontrerai nella tua vita. Ecco perché dobbiamo fare così.
    −Sono curioso di vederla, allora! – esclama il piccino saltando in piedi, mentre un lacchè ci apre gentilmente la porta della vettura. –Chissà perché è così speciale! Magari ha la pelle verde o due teste!
    −André! – lo rimprovero severamente, ricordandogli che il tempo della nostra scherzosa intimità è finito.
    −Sì, mam…madre.
    Saliamo le scale lentamente, stringendoci nei nostri mantelli come possiamo, il freddo che ci penetra nelle ossa. Come avevo previsto, anche la villa riflette la nostalgica fantasia della nostra ospite. Nonostante l’edificio non risalga a più di cinque anni fa, lo stile è ancora carico del lezioso eccesso del secolo scorso, accompagnato però da una leggera dose di classicismo che stempera severamente il lusso per trasformarlo in qualcosa di solenne e regale. La pianta circolare, simile a quella delle grandi ville che costellano le campagne italiane, è costituita da un grande salone centrale, attorno al quale si sviluppano su due piani gli ambienti secondari, tutti decorati con raffinata ricchezza e stucchi dorati. I suoi fasti ci scrutano silenziosamente mentre scivoliamo veloci al suo interno, la luce del candelabro del nostro accompagnatore che danza tremolando sugli affreschi delle pareti, quasi fosse intimidita anch’essa da un tale lusso così carico di severità.
 Alla fine, giungiamo in un piccolo studiolo debolmente illuminato dall’interno. Un brivido mi percorre la schiena, facendomi stringere ancora più forte la mano di André. Mi sento quasi in imbarazzo. Sono settimane che l’appuntamento mi rende nervosa, ma, ora che sto per incontrarla dopo così tanto tempo, il panico diventa insopportabile e con esso cresce in me la voglia di scappare. Ma ormai è troppo tardi.
 Mi faccio coraggio ed entro timidamente nella stanza.
 Anche se sono passati più di vent’anni, la riconoscerei fra mille. Ormai dovrebbe essere intorno ai trent’anni, ma il suo aspetto ne dimostra molti di più. La massa di riccioli biondo cenere fissata sulla cima del suo capo in un’acconciatura che ormai non si usa più da molto tempo è già striata di grigio, così come le sue guance imbellettate non sono più piene come un tempo, quando più di una volta mi fermai ad accarezzarle affettuosamente nei giardini di Versailles, ma scarne e ricoperte dalle prime rughe. Il corpo tarchiato è rivestito di una monumentale veste scura infiocchettata fino a rasentare l’eccesso, in confronto alla quale quasi mi sento a disagio per i miei abiti semplici e borghesi. Mi fissa attraverso i suoi vitrei occhi azzurri dalla sommità di un’elegante poltrona foderata di stoffe preziose, il suo sguardo fa vacillare il mio. Lei è più di una donna, poco meno di una dea. E’ l’ultima Delfina di Francia.
    −Madame – la saluto inchinandomi di fronte a lei e baciandole la mano che mi ha porto con un gesto stanco, appena accennato. L’imbarazzo sale fino a corrodermi le viscere, arrivando a un livello insopportabile quando tale cerimonia tocca anche a mio figlio. Sì, è passato decisamente troppo tempo.
    −Sophie Le Brun – mi saluta Madame Royale con un sorriso. –Mai avrei creduto di potervi rivedere, un giorno.
    −Lo stesso vale anche per me, Madame – rispondo accennando a un inchino.
    −Sedetevi, prego. Abbiamo tante cose di cui parlare – mi invita lei con un gesto eloquente.
    Senza indugiare un istante, mi accomodo prontamente sulla sedia posta davanti a lei, tirando il piccolo André sulle mie ginocchia. Il bambino si irrigidisce per qualche istante, capendo che ciò significa restare zitto e immobile per un tempo interminabile, ma poi si lascia sollevare docilmente fra le mie braccia. Questo è uno dei momenti in cui io stessa mi stupisco della precoce intelligenza di mio figlio.
    −Allora, − prosegue Maria Teresa – ho saputo che anche voi vi siete trasferita in Austria.
    −Sì, Madame, sono circa tre mesi che vivo qui con mio marito – rispondo io educatamente.
    −Così poco tempo? – esclama lei, visibilmente sorpresa. –Come avete fatto a rimanere in Francia, con tutto quello che è successo?
    −In effetti, non sono rimasta in Francia che per pochi anni. Nel 1799 sono fuggita in Inghilterra e sono rimasta lì fino a poco tempo fa, quando abbiamo pensato di venire qui.
    −Come mai questa decisione? L’Inghilterra mi sembra un posto che rispecchi pienamente le vostre aspettative.
    −Vedete, non è per me, ma per mia figlia Olive. E’ un’artista anche lei, come me, ma in Inghilterra le donne hanno molti più problemi a entrare nelle Accademie. Ci sono ancora molti pregiudizi a riguardo. Fortunatamente, mio marito ha dei contatti a Vienna, dove è riuscito a ottenere un’udienza. In questo momento, sono là. Aspetto da giorni loro notizie – mentre parlo, non faccio a meno di pensare alla mia piccola Olive, ormai una giovane donna, di fronte ai più grandi intellettuali d’Austria, pronta a diventare una di loro. So che può farcela, ma come mamma ho sempre paura che qualcosa possa andare storto.
    −Capisco – dice Madame Royale in tono pensoso. –Suppongo che vi starete chiedendo perché vi ho fatto venire qui non appena ho saputo che eravate giunta in Austria.
    −In fede mia, sì, Madame.
    −Voi ricorderete ciò che vostra madre ha rappresentato per mia madre.
    −Sì, Madame. Mia madre ha ritratto Sua Maestà Maria Antonietta per molti anni.
    −E’ per questo che io non voglio cedere tale incarico ad altri se non a voi, Sophie.
 Mi si gela il sangue nelle vene. –V…voi volete che diventi la vostra ritrattista ufficiale, Madame?
    −No, non ho bisogno di qualcuno che stia al fianco di una regina esiliata per il resto dei suoi anni o finché un branco di contadini non venga a prenderla per proprio conto    – risponde lei con amarezza. –No, quello che voglio chiedervi è un ritratto, solo un ritratto. Quello che permetterà di ricordare a me stessa chi sono, per sempre. E una tale opera non può che venire dalle vostre mani, mia cara Sophie, le stesse che più di venti anni fa mi dipinsero futura regina di Francia e a cui ora, allo stesso modo, chiedo di rappresentarmi quale sono.
   −Voi…Madame, io…
   −So che potete farlo – nei suoi occhi brilla improvvisamente una luce strana, viva ed energica come quella che un tempo, in un passato ormai confuso, mi trovai a cogliere nello sguardo nobile e acuto di una giovane regina straniera. –Guardate – soggiunge aprendo una cartella di pelle che tiene sul tavolinetto accanto a noi. –Ho conservato tutti i vostri disegni.
    Mi avvicino timidamente al bozzetto che mi sta porgendo, afferrandolo con mano tremante. Eccola lì, una bambina minuscola che corre spensierata in un grande prato fiorito, la massa di riccioli biondi che si muove ribelle al vento, piccola e fragile come il foglio di carta che reggo tra le mani.
    −E questa siete voi – soggiunge Maria Teresa porgendomi un altro disegno sorridendo. –Lo ha fatto vostra madre, ricordate?
    Prendo l’acquerello con mano tremante. Devo farmi forza per non farlo cadere a terra, perché la valanga di emozioni che mi travolge in questo momento è troppo forte per sostenerla.
    Due adolescenti sono seduti in un bel prato verde, i fiori che solleticano i loro abiti raffinati a diretto contatto con l’erba, protetti dall’ampia fronda di un tiglio centenario. Alle loro spalle, oltre un laghetto solcato da cigni, sorge una piccola fattoria dal tetto di paglia, come se ne vedono ancora in Normandia. Lui ha i capelli castani dai riflessi color rame raccolti in una coda che gli arriva fin sotto le scapole, i tratti del volto regolari, la mano che porge un fiore dai petali bianchi alla fanciulla accovacciata di fronte a lui. Lei è china su un libriccino, intenta a leggere a voce alta. I suoi riccioli bruni fermati sulla nuca da un nastro blu le ricadono dolcemente sulla veste azzurra, simili a onde.
 

   Immagina che un giorno l’uomo possa tornare alle proprie origini. Pensa, nessun vincolo, nessuna legge, nessuna religione. Ciascun essere umano sarà uguale all’altro, come nella sua natura primitiva, senza più nessuno a dividere con la violenza l’uno dall’altro. Tu e io.
    −Ehi, non trovate di stare un poco fraintendendo quello che vi dice Rosseau?
    Alzai lo sguardo e lo fissai in modo malizioso. –Infatti non sto fraintendendo. Rosseau mi ha dato l’idea, il resto ve lo sto dicendo io.
    Alexandre scoppiò in una sonora risata, mostrandomi quel sorriso fantastico che mi mandava sempre in visibilio. –Ma dai! – esclamò quasi con le lacrime agli occhi.
    −Se solo ci fosse parità di diritti, non dovremmo più nasconderci – affermai in tono perentorio.
    −Ma noi non ci stiamo nascondendo! – precisò lui tornando serio all’istante.
    Io assunsi immediatamente un cipiglio severo. –E allora come lo chiamate il fatto che non posso mai partecipare ai ricevimenti al vostro fianco? Che la nostra presenza a corte è perennemente divisa da regole di etichetta e privilegi? Che non possiamo mai stare nello stesso momento nello stesso luogo? Come lo chiamate voi?
    Inaspettatamente, Alexandre tornò a sorridere, intrecciando le sue dita fra le mie. –Ma ora non ci stiamo nascondendo – mi fece osservare. –Siamo insieme sotto le fronde dello stesso albero, voi e me. Nessuno può venire qui a dirci che cosa è giusto e cosa è sbagliato, nessuno può separarci. Siamo uguali. La stessa cosa. Senza più regole né divieti.
    Una vampa di calore invase il mio petto mentre le sue labbra si facevano sempre più vicine alle mie.
     −Vi amo – sussurrai, prima di abbandonarmi completamente al suo abbraccio.
     −Ricordatevi: io resterò con voi per sempre. Lo farete? – mi chiese lui mentre mi baciava.
     −Sì – promisi accarezzandogli la chioma fulva. –Lo prometto.
    Per sempre…
 

    −Sophie? Sophie?
    Mi riscuoto come se fossi caduta improvvisamente in uno strano sonno. Ricordi, fiumi di ricordi che ero riuscita a cancellare erano riaffiorati con violenza nella mia mente, tornando a straziare il mio cuore nella loro piena inarrestabile.
    −Vi sentite bene, Sophie? Dal vostro sguardo, si direbbe che siete sconvolta – osserva Madame Royale.
    −Io…− fisso i suoi occhi azzurri, ancora pervasi da quella strana luce che mi turba ancora di più di quell’acquerello emerso dal passato. –Va bene. Va bene, Madame. Accetto l’incarico.
    −Vi ringrazio, mia cara amica.
 
    Ci disponiamo subito per il ritratto. Maria Teresa mi ha permesso di concedere un po’ di tregua alle gambe indolenzite di André, il quale ora è seduto ai piedi della scrivania, scarabocchiando allegramente un foglio bianco con un carboncino che gli ho allungato dal mio astuccio.
     Io sono seduta di fronte a Madame Royale, predisponendo l’occorrente sul tavolo di fronte a noi. Il mio inseparabile album degli schizzi è già predisposto per l’uso. Io e lei parliamo animatamente, una volta abbandonato l’imbarazzo iniziale, facendoci trascinare dal vortice di emozioni e di ricordi che il nostro incontro ha suscitato. Al ritmo delle mie parole, la mano scivola sulla carta, tracciando i primi schizzi preparatori. La mia voce è con lei, con la regina che non salì mai al trono, ma il mio cuore è altrove, lontano, in una notte senza fine…

 
    Quella mattina, come tutte le mie mattine, iniziò con un sorriso. Dopo essermi preparata, aver assistito alla funzione e fatto colazione, afferrai come mio consueto astuccio e fogli e, in seguito alle mie due ore di esercitazione nell’atelier materno, mi diressi negli appartamenti di Alexandre per il nostro appuntamento quotidiano.
    La tarda mattinata era l’unico momento in cui potevamo stare insieme senza che le nostre visite fossero intralciate da visite inopportune e pettegolezzi di corte e noi, dal nostro canto, cercavamo di sfruttare al meglio quei brevi, preziosissimi momenti. Del resto, non stava bene che la figlia di una pittrice fosse così in confidenza con il duca di Normandia.
    Conobbi Alexandre lo stesso anno in cui fui introdotta a corte. Avevo quindici anni. Suo padre, un uomo molto in vista presso i sovrani, aveva incaricato mia madre di ritrarre il suo primogenito. Lei acconsentì e io, che all’epoca stavo ancora facendo il mio apprendistato, fui autorizzata ad assisterla nella realizzazione del dipinto. Per me, quell’incarico significava davvero tanto: fino a quel momento, infatti, le mie mansioni si erano limitate all’intimità dell’atelier famigliare e quella era la prima volta in cui avrei potuto finalmente cimentarmi in una collaborazione vera e propria. In poche parole, quello sarebbe stato un vero e proprio esame che avrebbe deciso la mia validità nel mondo della pittura di fronte a un pubblico giudicante. Non ero mai stata così agitata e allo stesso tempo  emozionata in vita mia.
    Ci recammo negli appartamenti del conte di Normandia in un assolato pomeriggio di maggio, io che trotterellavo nervosamente dietro a mia madre, fremendo dall’eccitazione, mentre lei avanzava con il suo consueto incedere nobile e sicuro di sé, da vera pittrice di corte qual era. Del resto, quello non era certo il primo incarico ufficiale che le affidavano e nei mesi precedenti si era trovata al cospetto di soggetti ben più importanti di uno dei cortigiani più influenti di Versailles.
   Fummo ricevuti in un salottino dall’aria a un tempo intima e ufficiale. Una volta fatte accomodare dall’attendente, il conte di Normandia e suo figlio fecero il loro ingresso nella stanza. I convenevoli furono rapidi e appena accennati e ci mettemmo subito all’opera. Io affiancavo mia madre nel lavoro con grande entusiasmo, svolgendo alla lettera quanto mi veniva richiesto. Preparai la carta e i colori, poi, sempre su sua indicazione, presi a intrattenere gli ospiti nella conversazione, mentre lei traeva dal soggetto gli schizzi che le sarebbero serviti per la realizzazione del lavoro finale. Come figlia della pittrice di corte, dovevo avere necessariamente una buona cultura, perciò gli argomenti non mi mancavano. Parlai con fluidità di arte e filosofia, i temi che più prediligevo, conquistando in pochi minuti l’attenzione dei miei interlocutori. Il conte di Normandia mi trovò subito una persona brillante e mi trovai a conversare molto bene con lui. Eppure i miei occhi non facevano altro che rivolgersi verso la persona che gli stava di fianco, timida e taciturna, ma che, nonostante questo, non riusciva a staccare nemmeno per un attimo i suoi bellissimi occhi azzurri dai miei, né io dai suoi. Improvvisamente, tra di noi si era creato come una sorta di incanto, un campo magnetico che da quel momento in poi sarebbe stato impossibile rompere. Eppure, nel momento in cui simili pensieri cominciarono a solleticarmi la mente, ebbi paura e distolsi violentemente lo sguardo. Ciò che fantasticavo era impossibile: una persona del mio rango non può ambire a certe cose. Neppure un’artista. Tantomeno una donna.
    Terminammo la nostra seduta e ci ritirammo nei nostri alloggi. Il conte sembrava soddisfatto dei bozzetti, ora voleva vedere il quadro completo. Pochi giorni dopo, arrivò anche quello.
 Fortunatamente, durante le ore destinate alla realizzazione del dipinto vero e proprio, fui così presa dalle istruzioni impartite da mia madre mentre l’assistevo, che fui dispensata dallo scomodo incarico di intrattenere gli ospiti, cosa che con mio grande sollievo fu presa da lei stessa, la quale discorreva con energico entusiasmo mentre stendeva i pigmenti sulla tela.
    Il risultato fu straordinario. Noi ricevemmo il nostro compenso e le lodi, loro la gloria delle generazioni future impressa per sempre in quella vertigine di colori fastosi. Era tutto. O almeno, così credevo.
    Qualche giorno dopo la consegna del quadro, mentre mi incamminavo sola per i viali di Versailles, mi venne incontro un servitore dall’aria ufficiale. Mi lasciò un biglietto tra le mani, poi scomparve. Curiosa, lo aprii. Le parole che vi trovai all’interno avrebbero sconvolto la mia vita per sempre:
    Vorrei rivedervi. Siete la persona più brillante e straordinaria che abbia mai incontrato. Per favore, non deludetemi.
   Vostro,
   Alexandre De Poligny, Conte di Normandia
 
    Sorrisi fra me e me, mentre correvo per gli interminabili corridoi della reggia. Il nostro primo incontro era il ricordo che più volentieri richiamavo alla mente. In quel mondo d’oro e cristallo, dominato da regole e privilegi inviolabili, non ci sarebbe stata gioia più grande per una giovane come me di quella di amare incondizionatamente un ragazzo che, sfidando le stesse leggi che lo incatenavano alla propria famiglia, mi accettava per quello che ero, preferendo alla povertà di rango la ricchezza del cuore e la nobiltà delle arti. Le ore trascorse insieme erano cariche d’amore e di poesia, d’arte e di bellezza. Mentre ero con lui dipingevo e allo stesso tempo sfioravo le sue labbra, modellavo la creta e mi lasciavo accarezzare dalle sue mani sottili quanto forti. Eravamo felici e perfetti nella nostra relazione senza vincoli né regole. Il nostro amore scorreva nei fiumi dell’Arcadia ed era benedetto dalle Muse. Non avrei mai creduto di essere più felice.
    Neppure quando il duca d’Auvergne, uno dei nostri committenti, aveva preso a comportarsi in modo desueto nei miei confronti. Quell’uomo mi inquietava ogni giorno di più. Faceva sempre in modo che mi trovassi da sola con lui, dal momento che ormai mia madre, ignorando completamente il mio rapporto con Alexandre, riteneva opportuno affidarmi alcuni incarichi minori, mentre lei si occupava delle committenze reali. E io non sapevo più dove sbattere la testa. Il duca diventava sempre più viscido nei miei confronti man mano che il tempo passava, prendendo a farmi addirittura delle domande così inopportune che spesso mi ritrovavo costretta a non rifondergli, continuando a dipingere con la lingua fra i denti. Avevo paura. Per qualche giorno, temendo ritorsioni contro Alexandre se mai fosse venuto a conoscenza della mia relazione, feci a meno di vederlo. Ovviamente, più di una volta avevo avuto occasione di parlargli del problema che mi stava assillando da più giorni e lui mi aveva rassicurato come suo solito, stringendomi forte tra le sue braccia e assicurandomi che tutto sarebbe andato per il meglio, che lui sarebbe sempre rimasto al mio fianco per proteggermi.
    E poi, in quegli ultimi giorni, era accaduta una cosa che, Dio ci perdoni, aveva reso ancora più indissolubile il nostro rapporto. Non avevo mai fatto l’amore prima di quel momento e mai avrei creduto che una cosa simile, tanto osteggiata da chi mi stava intorno, potesse essere una cosa così bella, naturale. Da quel momento in poi, era come se io e Alexandre, nonostante non esistesse alcun vincolo umano a legarci, fossimo diventati marito e moglie nel vero senso della parola.
    Ecco perché, nonostante quelle preoccupazioni, in quei giorni mi sentivo felice. Sapevo di essere una donna, una donna libera, innamorata e amata dalla più splendida fra le creature viventi, il mio Alexandre, il mio bellissimo Apollo.
    Salii i gradini di marmo due a due, raggiungendo i piani superiori e accostandomi alla sua porta. Con mio grande stupore, nessuno venne ad aprirmi quando bussai. Perplessa, mi limitai ad attendere, sicura che prima o poi sarebbe passato qualcuno.  In compenso, la mia sorpresa aumentò ancora di più quando vidi uscire dalle sue stanze una giovane bionda con il perfetto viso d’angelo, che mi oltrepassò con grazia prima di svanire nel corridoio, l’orlo della lunga veste verde acqua che frusciava con grazia sul pavimento di marmo.  Fu allora che si degnarono di aprirmi.  
    Trovai Alexandre nel suo studiolo, le braccia allacciate dietro la schiena, lo sguardo perso fuori dalla finestra.
    −Buongiorno, amore – lo salutai emergendo alle sue spalle.
    −Buongiorno, cara Sophie – mi salutò lui senza voltarsi. –Accomodatevi, prego. Dobbiamo parlare.
    Il suo tono non mi piacque. Doveva per forza essere successo qualcosa. Lottando contro la morsa di ghiaccio che improvvisamente mi aveva attanagliato lo stomaco, mi sedetti e attesi.
     −Non so proprio da dove cominciare – esordì voltandosi lentamente.
     −Chi era quella donna? – buttai lì con violenza.
    La fronte di Alexandre si corrugò in due solchi scuri sulla pelle diafana. –Ah, − disse quasi in tono di scusa – avete visto tutto, non è così?
    −Per la verità non ho visto niente e gradirei delle spiegazioni da voi, Monsieur.
    −Sophie, temo che da quest’oggi non potremo rivederci mai più.
    Un istante, un solo insignificante istante, e il mondo mi crollò sulla testa. Avevo la bocca secca e amara e il cuore prese a battermi dolorosamente nelle orecchie. –C…come sarebbe a dire non possiamo rivederci mai più? – domandai in preda al panico.
    −Vedete, è che mi sposo.
    In quel momento, credetti davvero di essere sul punto di svenire, ma resistetti, decisa a vederci chiaro. –Che cosa? – esclamai in preda all’orrore.
    −Avanti, che cosa vi aspettavate? Non pensavate davvero che la nostra relazione durasse per sempre, spero! – replicò Alexandre, quasi fosse lui la parte lesa.
    −Ma…− mio malgrado, scoppiai in una risata isterica. Risi, risi a lungo, additandolo e allo stesso tempo lasciando andare le prime lacrime che bruciavano agli angoli degli occhi. –Dite la verità, è stato vostro padre a farvi dire queste parole, non è così? Non è Alexandre quello che mi sta parlando, ma un fantoccio fabbricato ad arte per mandarmi via, giusto?
    −Non parlate in questo modo di mio padre! – ruggì il ragazzo torreggiando su di me.
    −Voi siete un maledetto vigliacco! – lo aggredii io, mentre la rabbia si sostituiva al dolore. –Da quanto tempo va avanti questa storia? Sapevate di essere promesso, non è vero?
    −In verità è dall’età di sette anni che so di dover sposare una donna che neppure amo – fu la risposta, breve e concisa.
    −E allora perché non me ne avete mai parlato? Perché allora mi avete amata, dicevate di amarmi? Tutte fandonie, tutte bugie!
    −Sophie…
    −No, siete voi che dovete ascoltare me! – gridai balzando in piedi. –Vi rendete conto di quello che avete fatto? Sappiate che io per prima non vi avrei mai amato, mai! Sapevo che fra noi le cose non potevano funzionare, eravamo troppo distanti, troppo legati a una società congelata nelle proprie stupide regole per poter stare insieme! Eppure voi le avete sfidate, queste regole, come avete sfidato qualunque cosa pur di restare al mio fianco. Mi avete fatto credere in un mondo che, ahimè, era solo un’illusione. Eppure l’avete fatto. Per mesi ho creduto potesse esistere qualcosa di diverso, di rivoluzionario, di perfetto. La mia vita con voi era il paradiso su questa terra. Con voi mi sono comportata come non ho fatto mai con nessun altro, ho fatto dei sacrifici, ho messo a repentaglio la mia stessa dignità e tutto questo per voi, solo e soltanto per voi, perché credevo che vi importasse qualcosa di me, che mi amaste proprio come io amo voi, e invece no, avete finto dall’inizio. Ero un trastullo, una cortigiana e niente più, non è così? Vi rendete conto di quello che avete fatto? Io non sono un pezzo di carne, Alexandre, un oggetto di cui potete disporre a vostro piacimento, ma un essere umano, con un’anima e dei sentimenti e voi li avete calpestati senza alcun rispetto, disponendo di me secondo i vostri capricci. Cane!
    −Adesso basta! – prima che me ne fossi resa conto, Alexandre mi aveva afferrato entrambi i polsi, distendendomi le braccia lungo i fianchi. –Mi avete frainteso, tutto qui – mi disse con voce suadente, tentando di avvicinare le sue labbra al mio collo. –Io vi amo, lo capite? Io non voglio questa donna, ma devo. E’ un dovere che mi spetta per portare avanti la mia famiglia, capite? Lo faccio per il futuro della Francia, che è anche vostro.
    −LASCIATEMI! – mi divincolai schifata. –Avete un bel coraggio a fare questi discorsi davanti a me. Meglio così, vuol dire che alla fine la vostra bella maschera è caduta. Mi avete molto deluso, Monsieur. Per un attimo, avevo creduto che foste un uomo migliore e che poco vi importasse della nobiltà e di tutte le altre frivolezze che imprigionano tutti in questa reggia di folli.
    −Voi non avete proprio la concezione della realtà – disse Alexandre scuotendo il capo. –Per forza, cosa mi dovrei aspettare da una donna che passa l’esistenza avvolta nelle proprie fantasie? Come avete solo potuto pensare che tutto quello che c’è stato fra noi, e che non nego, avrebbe avuto un seguito? Io non posso trascorrere la mia vita al fianco di una pittrice, né voi potete pretendere di diventare una contessa. Non lo siete e non lo sarete mai. E’ ora che ciascuno di noi resti al posto che Dio gli ha assegnato e che così sia. Mi dispiace di avervi illuso in questo modo, Sophie. Pensavo che la sapienza racchiusa nel vostro nome arrivasse a comprenderlo da sola, ma mi sbagliavo. Del resto, siete pur sempre una donna. Quello che leggete nei libri, mi duole dirvelo, resterà per sempre nei libri. E’ stato bello sognare insieme, ma ora è giunto il momento di svegliarsi e di prendere ciascuno la propria strada. Addio, mia piccola amica. Spero che un giorno anche voi possiate trovare la tua strada.
    Non rimasi ad attendere il suo ultimo bacio. Non serviva più, non dopo che ci eravamo già detti addio da un pezzo. Mi voltai di scatto e corsi, corsi via, senza una meta, la vista annebbiata dalle lacrime che scendevano copiose sul mio viso febbricitante. Non sapevo dove stavo andando, né che cosa stava succedendo intorno a me. Ignoravo le occhiate allarmate che mi rivolgevano le persone che incontravo, non mi curavo se nella mia folle corsa ne urtavo qualcuna. Ero pazza, delirante, lacerata, distrutta. Alla fine, crollai ai piedi di un grande faggio, nel cuore del parco, al sicuro fra le braccia della natura, a contatto con la nuda terra, l’unica ancora libera dalla cieca schiavitù che la follia degli uomini imponeva senza pietà a qualsiasi essere vivente, restando lì, rannicchiata in posizione fetale, abbandonandomi al dolore, desiderando sprofondare per sempre, accecata dalla rabbia e dalla vergogna, il cuore ferito a morte, mentre il canto delle cicale raccoglieva pietoso il sale delle mie lacrime.
 
    −Avete un’aria molto abbattuta, mademoiselle Le Brun – disse il duca d’Auvergne in tono untuoso, senza staccarmi gli occhi vitrei di dosso. –Forse qualcosa vi affligge?
    −Sto benissimo – mentii io da dietro la grande tela che stavo dipingendo, l’unico baluardo che mi difendesse dallo sguardo famelico del giovane uomo.
    −Eppure voi mi nascondete qualcosa – insistette questi con falsa compassione.
    −Per favore, Monsieur, vi prego di non muovervi finché non avrò finito. Manca poco, ormai – lo pregai lottando per non rimettermi a piangere un’altra volta. Per quel giorno, ne avevo avute a sufficienza.
    −Sì, manca poco, ormai.
     Non avevo fatto in tempo a bloccarlo, che improvvisamente me lo ritrovai al mio fianco. Aveva uno sguardo che avrebbe terrorizzato Satana in persona.
   −Mia cara Sophie, − esordì con un largo sorriso –forse non avrete ancora notato il mio amore per voi, ma io vi giuro con tutto il mio cuore che mai ho provato dei sentimenti tanto nobili quanto quelli che ho per voi.
    Per quanto scontata, quella dichiarazione ebbe su di me l’effetto di uno schiaffo in piena faccia. Era solo la seconda volta quel giorno che il mondo mi crollava addosso.
    −Mi rincresce, signore, − risposi facendo appello a tutto il coraggio che avevo in corpo –ma io non vi amo.
    Le mie parole ebbero su di lui l’effetto che provoca una mosca intrappolata nella tela del ragno: maggiori sono le vibrazioni suscitate dal suo agitarsi, più l’aracnide si affretta a divorare la preda.
    −Dunque è così, puttanella? – ghignò il duca avvicinandosi pericolosamente a me.
    Nonostante la paura mi stesse paralizzando, trovai comunque il coraggio di sputargli in faccia:−Sì.
    Con una mossa repentina, l’uomo rovesciò il cavalletto a terra, mandando in pezzi la grande tela che mi era costata settimane di fatica, afferrandomi poi per le spalle e inchiodandomi al muro. Io provai a urlare e a divincolarmi, ma in tutta risposta ricevetti uno schiaffo in piena faccia.
    −Dove credi di andare, piccola strega? – disse il duca torreggiando su di me. –Una donna non dovrebbe fare quello che fai tu. L’arte vi dà alla testa, l’ho sempre detto. Fantasie, tutte fantasie che vi confondono le idee e vi rendono incapaci di essere soddisfatte di ciò che potrebbe farvi felici. Io potrei darti tutto ciò di cui hai bisogno: un marito fedele, una famiglia tutta tua, un titolo nobiliare e una vita nel lusso. Oh, ci sarebbero centinaia di donne che vorrebbero essere al posto tuo e tu che fai, mi respingi? Ma chi ti credi di essere, dove pensi di andare, tu e la tua arte? Non sei nessuno, solo una miserabile popolana che si diverte a imbrattare le tele e niente più, una sciocca ragazzina senza nient’altro da offrire al di fuori della propria stupidità. Ora avrai una chiara dimostrazione di che cosa succede a chi si ribella ai propri padroni. Sì, perché tu avresti potuto essere mia moglie e invece hai scelto di essere la mia schiava.
    Poi fu il buio.
 
    Nuda. Nuda di fronte al ragazzo che avevo amato con tutta me stessa. Nuda di fronte all’uomo che aveva abusato di me.
    Spezzata.
    Né il mio corpo né la mia anima erano sopravvissuti a quella follia. L’uomo, quale orribile bestia!
    In quel momento, non ero più niente. Uno specchio rotto, una bambola strappata, un foglio bruciato.
    Senza più dignità, né pudore. Non avevo più un posto dove andare, né occhi da fissare senza provare vergogna e terrore di un giudizio.
    Ero una puttana, nient’altro che una puttana. Eppure, io non avrei mai voluto tutto questo. E invece, ero proprio io a portarne il peso, dal momento che tutti coloro che avevano insudiciato il mio essere se ne stavano tranquilli e beati a portare avanti le loro fin troppo scontante esistenze.
    Io invece ero lì, gli abiti strappati e le membra ricoperte di lividi e sangue adagiate sul fondo del canale. Non ero ancora morta, ma non ero neppure sicura di essere del tutto viva.
    In un solo giorno, ero stata violentata per ben due volte, nel corpo e nell’animo. Non restava molto di me.
    Eppure, c’era ancora qualcosa che mi diceva di andare avanti e continuare a vivere, perché la mia storia non era ancora finita. Dovevo rialzarmi e trovare il coraggio di proseguire, lontano da lì.
    Con uno sforzo sovrumano, mi levai lentamente in piedi e strisciai via, sparendo nella notte. Il canto dei grilli ricoprì i passi dei miei piedi nudi su quei prati che un tempo avevo così tanto amato.
 
     Un anno dopo
 
1.      Gli uomini nascono e vivono liberi ed euguali nei diritti. Le distinzioni sociali non possono essere fondate che sull’utilità comune.
2.      Il fine di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali e imperscrittibili dell’uomo. Questi diritti sono: la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione.
3.      Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella Nazione. Nessun ufficio, nessun individuo può esercitare un’autorità che non emani espressamente da essa.
(Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789)
 
    Camminavo speditamente per le strette viuzze della città, il pacco di giornali stretto al petto. Il cuore mi martellava furiosamente al petto e sentivo le membra affaticate scosse come da un’inarrestabile euforia, la stessa sensazione di ardore che mi prendeva ogni volta che Camille Des Moulins suonava la campana. Il messaggio poteva significare una cosa sola: i giornali erano pronti. Lottando contro le gambe che protestavano deliberatamente, mi arrampicai su per le strette scale polverose della redazione e feci irruzione nella sala macchine, accolta immediatamente dal familiare odore dolciastro dell’inchiostro.
    −Sophie, finalmente! – mi salutò Lucie Des Moulins venendomi incontro per abbracciarmi.
    Io la strinsi fraternamente a me, sorridendo al culmine della gioia. –Sono pronti? – chiesi impaziente.
    −Altroché! – rispose lei entusiasta, facendomi strada nel caos che ci circondava.
    Pochi metri più in là, emergendo dall’immenso macchinario che occupava l’intera sala, i capelli arruffati e il volto impiastricciato d’inchiostro, Camille ci fece un rapido cenno di saluto. In un angolo, all’interno di un cantuccio ricavato nella parete, un piccolo fagottino si alzava e abbassava come se fosse mosso da un respiro regolare. Sorrisi intenerita, inchinandomi sulla copertina sbrindellata per rivelare una piccola testa rosea ricoperta da una fitta peluria rossiccia.
    −E’ stata buona tutto il tempo, aspettando che tornasse la mamma – disse Lucie.
    −Povera la mia piccola Olive – dissi io sfiorandole il capo con le labbra.
    La piccina era nata nove mesi dopo la mia fuga da Versailles, quando mi ero rifugiata in una fredda locanda di Parigi. Per tutta la durata di quel periodo terribile, fui assillata dal dubbio atroce su chi fosse il fautore di quel rigonfiamento che in poche settimane aveva fatto la sua apparizione sul mio ventre, ma poi, nel vedere quella massa di capelli rossicci e i suoi vivacissimi occhi azzurri, compresi con sollievo che solo Alexandre poteva avermi lasciato un dono così bello.
    Per me, Olive era diventata tutto. Era la dolcezza di ogni giorno che, dopo essere stata inghiottita dall’oblio di quei mesi bui, era ritornata a risplendere. Ma non era solo la gioia di essere diventata mamma a illuminarmi la vita.
    In quegli ultimi mesi, infatti, il mondo era cambiato per sempre. La follia degli uomini, alla fine, aveva avuto la peggio. Era venuta la Rivoluzione.
    La Francia, messa in ginocchio dai capricci di una piccola parte della popolazione che speculava liberamente sulle nostre teste, aveva deciso di dire basta.
    A giugno, la situazione si era fatta insostenibile. Fame e miseria ovunque. Il re aveva convocato gli Stati generali, pensando che la questione si sarebbe risolta alla solita maniera. E invece, questa volta qualcosa era andato storto. Il Terzo stato, quello delle masse, dei borghesi e dei poveri, gente senza nome come me, aveva detto di no: si era riunito nella Sala della Pallacorda, la stessa dove io e Alexandre, di nascosto dal mondo esterno, ci eravamo sfidati in partite memorabili, e avevano proclamato la Costituzione.
    A luglio, avevano preso la Bastiglia.
    Alla fine dell’estate, il re era a Parigi.
    Nulla sarebbe stato più come prima. Si parlava di uguali diritti per tutti, di libertà, di fraternità, di giustizia. Cose che, solo un anno prima, si sarebbero limitate a essere le stupide fantasie di un’adolescente che leggeva troppo. E ora, invece, ero tra le prime file di quella rivoluzione, lottando con tutte le mie forze per una realtà che mi era sempre stata negata, costruendo pietra su pietra il mio futuro, il posto nel mondo che un giorno io e Olive avremmo avuto.
    Le mie mani non disegnavano più teste coronate e nobili profili, ma uomini come tutti gli altri, pronti a combattere per la libertà: scene di lotta, assalti, giuramenti, vittorie.
    Ogni giorno, nascevano dal nulla nuove parole, nuovi concetti, nuove idee. Dall’oggi al domani, i giovani della nuova generazione, come ispirati da un genio divino, avevano deciso di reinventare il mondo daccapo, portando in trionfo quei principi che per millenni erano stati calpestati e soffocati dall’egoismo e l’ignoranza di chi deteneva il potere.
    −Ecco i giornali – disse Camille porgendomi la mia razione di copie da distribuire. –Le tue incisioni sono fantastiche come sempre, Sophie. Non so che cosa faremmo senza di te.
    −Dovere – dissi io con un sorriso, nascondendo i giornali nel paniere che portavo sempre con me.
    −Fai un buon lavoro, Sophie− mi salutò Camille mentre mi avviavo verso l’uscita.
    −Te la tengo un po’ io, finché dorme – mi disse Lucie mentre cullava Olive sulle ginocchia.
    −Grazie, ragazzi! – li salutai io prima di sparire giù dalle scale.
    Una delle mie più grandi fortune era stata quella di incontrare i coniugi Des Moulins. Erano le persone più straordinarie che potessero esserci sulla faccia della terra. Erano stati loro a farmi entrare nell’ambiente rivoluzionario, mettendomi in contatto con i principali caffè e circoli letterari della città, permettendomi di mettermi a confronto con i più grandi intellettuali di Parigi. Tutte quelle idee, quegli scambi di opinione e quell’aria densa di cambiamento mi facevano sentire più viva che mai. Finalmente ero libera di esprimere appieno la mia personalità senza scontrarmi con i pregiudizi altrui, ormai considerata un individuo pensante a tutti gli effetti.
    Era proprio a uno di questi caffè che ero diretta, portando la mia dose giornaliera di notizie.    Camminavo spedita per le strade parigine, il vento autunnale che mi gonfiava gli abiti irriverente, mentre proseguivo per la via fischiettando un allegro motivetto. Quasi non mi accorsi di stare costeggiando il palazzo delle Tuileries.
    Quel pomeriggio il cielo carico di pioggia sembrava essersi fatto così basso da sembrare sul punto di conficcarsi nel tetto spiovente del vecchio palazzo in malora. Per un attimo, una ruga di disappunto mi solcò la fronte, invitandomi ad affrettare il passo. In quel momento, fra quelle mura polverose era rinchiusa l’intera corte di Versailles, tutto il mondo che avevo conosciuto e a cui un tempo ero appartenuta anch’io. Mi sfuggì una risatina limpida. Se non fossi fuggita, in quel momento sarei stata anch’io prigioniera del mio stesso popolo, languendo in quelle umide stanze e tremando di paura, isolata dal mondo esterno, quando invece ero libera come non lo ero mai stata prima, completamente immersa in quell’aria rivoluzionaria che stava scuotendo Parigi e il mondo.
    Fu in quel momento che li notai. Una giovane donna dai lunghi capelli biondi elegantemente raccolti sulla nuca passeggiava lentamente nel giardino incolto, il vento tempestoso che le gettava addosso le foglie secche che cadevano incessantemente dagli alberi vicini e le rigonfiava l’orlo del ricco abito di seta in tante pieghe voluminose. Teneva fra le braccia un fagottino minuscolo ricoperto di merletti bianchi che risultava essere un bambino, mentre un giovane uomo dai lunghi capelli castano ramato le passeggiava al fianco, tenendola amorevolmente a braccetto.
    Mi si contrasse lo stomaco per il disgusto. Mai avrei pensato che un giorno avrei rivisto Alexandre, non in quel quadretto di stucchevole vita coniugale. Per un attimo, la mente mi fu dilaniata da sentimenti contrastanti. Da una parte il dolore per quello che mi si era parato crudelmente davanti agli occhi, dall’altra il cieco trionfo di vederli così soli e disperati, prigionieri di quell’orribile palazzo muffito, ormai prossimi alla disgrazia. Il risultato fu una fuga repentina da quella tremenda visione, cosa che non mi evitò di vedere Alexandre levare lo sguardo verso di me e seguire pensosamente la mia sagoma bruna sparire dietro l’angolo. Cinque minuti dopo, prese a piovere a catinelle.
 
    Passò una settimana e il fervore popolare si faceva sentire sempre più forte in tutti i luoghi di ritrovo. Alla redazione ormai non avevamo più un attimo di pace e io ero continuamente in moto, portando il più velocemente possibile in tutti i caffè le straordinarie notizie che fioccavano ogni ora da ogni angolo della Francia. Non si faceva altro che parlare di guerra, di complotti, di decisioni. Ogni cosa era solo una questione di ore prima che venisse messa in atto. Ben presto, mi resi conto di aver preso un incarico di gran lunga superiore alle mie forze. Oltre che al lavoro alla redazione, infatti, dovevo prendermi cura di Olive, che cominciava a reclamare sempre più spesso la mia assenza. Alla fine, fui costretta a portarla con me nei vari spostamenti, quando il tempo lo permetteva.
    Fu una di quelle sere, verso le undici, che accadde qualcosa di completamente imprevisto. Stavo ritornando a casa dopo l’ultimo giro di consegne, stanca e affamata, la mia bambina stretta al petto, mentre dal cielo cominciava a cadere la prima neve. Camminavo speditamente, decisa a varcare l’uscio del solaio prima di prendermi qualche malanno, quando mi resi conto di non essere completamente sola nella stretta strada ammantata di nebbia. Qualcuno mi stava seguendo da lontano. Avvertivo distintamente la cadenza ritmica dei suoi passi sul selciato.
    Temendo per la mia vita e soprattutto per quella di mia figlia, presi a correre più forte che potevo, sperando di raggiungere al più presto la prima locanda aperta che avrei trovato sul mio cammino.
    Voltai l’angolo e feci per infilarmi sotto un portico laterale, quando improvvisamente dalle tenebre emerse una mano inguantata che mi trascinò con violenza nell’oscurità, incollandomi la schiena contro le pareti gelide del muro di una casa.
    −Chi siete? Che cosa volete da me? – esclamai terrorizzata. –Vi avverto, non provate a toccare la mia bambina, altrimenti…
    −Sophie, Sophie, sono io.
    Di colpo arrestai la mano che avevo levato per graffiargli la faccia. In quel momento, nel risentire di nuovo quella voce che si rivolgeva a me in tono così rilassato, dopo avermi usata a suo piacimento in quel modo così spregevole, mi aveva acceso una voglia irresistibile di prenderlo a schiaffi, ma dall’altra parte, non so per quale impulso irrazionale, non riuscivo a dominare l’istinto di gettargli le braccia al collo come non facevo ormai da più di un anno.
    −Voi! – fu tutto quello che riuscii a dire. –Come vi permettete di ripresentarvi così, dopo quello che avete fatto?
    −Perdonatemi, Sophie – disse Alexander, i suoi bellissimi occhi azzurri che brillavano da dietro il cappuccio. –Vi ho già detto che sono legato a una donna che non amo, ma ora io vi giuro che vi amo con tutta la mia anima, come vi ho sempre amata, dal primo momento che vi ho vista, anche se avete preferito un altro uomo.
    −Ma cosa dite? – sbottai spazientita.
    −Ma come? Il duca d’Auvergne ha detto che lo avete sedotto il giorno stesso della vostra fuga. Vostra madre è disperata e anch’io con lei.
    A quelle parole, mi graffiai il viso per la rabbia. Non solo quel viscido serpente aveva fatto quello che aveva fatto, ma ora si vantava pure di plasmare la mia immagine a suo piacimento, scaricandosi da qualsiasi colpa.
    −Aprite bene le orecchie, − dissi fremente d’ira –io non ho mai amato un uomo tanto spregevole come il duca d’Auvergne, né mi sognerei di sedurre chicchessia per fare un dispetto a voi. Quell’essere orribile ha fatto violenza su di me quando l’ho rifiutato, dopo avermi costretta a ritrarlo con l’inganno.
    A quelle parole, fu Alexandre quello a rimanere sconvolto. –Che cosa? – esclamò. –No, non è possibile! Ma dite sul serio? Ah, miserabile! Se solo potessi mettergli le mani addosso e fargliela pagare fino all’ultimo…
    −Non disturbatevi, posso pensare da sola alla mia vendetta.
    −Non servirebbe. Il disgraziato è fuggito dalla Francia insieme alla famiglia non appena le cose si sono messe male.
    Mi lasciai sfuggire un gemito di amarezza. –A quanto pare, la strada per la giustizia è ancora lunga – commentai fra i denti.
    In quel momento, Olive, svegliata da tutto quel fracasso, cominciò a piangere disperatamente. Nel notare il fagottino che si dimenava fra le mie braccia, Alexandre ebbe un moto d’orrore.
    −Che cos’è?− domandò tremando da capo a piedi come se tenessi in grembo una vipera velenosa.
    −Oh, − risposi ridendo –Alexandre, sono lieta di presentarvi vostra figlia!
    −Che?
    In tutta risposta, scostai la coperta che proteggeva la piccola Olive, rivelando una testina paonazza ricoperta da una criniera di riccioli rossi, gli occhioni azzurri colmi di lacrime.
    −Mia…questa è mia figlia? – ripeté Alexandre sbalordito.
    −Sì. La vostra primogenita, a quanto pare – assicurai io rimettendo subito al sicuro mia figlia prima che prendesse troppo freddo.
    −Ma…è incredibile!
    −Già, pazzesco.
    −Ascoltate, dovete tornare alle Tuileries con me. Ci penserò io a voi, farò in modo che vi riprendiate la vostra vita…
    −No! – la mia risposta rimbombò secca e decisa nella notte gelida. –E’ troppo tardi, Alexandre. Un anno fa avete scelto di mandarmi via, non ha senso che tentiate di trattenermi proprio ora.
    −Ma ora, con questa bambina, è diverso…
    −E allora? Vi ripeto che le cose sono cambiate e ora ci troviamo ai due lati opposti della stessa barricata. Io ho scelto la mia parte, voi ora non dovete fare altro che pensare alla vostra. Non intendo cambiare per voi, assecondando ancora una volta i vostri capricci.
    −Ma…− Alexandre fece un altro tentativo di convincere, ma io fui irremovibile.
    −Avete avuto la vostra possibilità e l’avete usata male. Addio – tagliai corto avviandomi a grandi passi sotto la neve.
    Nonostante tutto, lui mi seguì.
 
    Che sia stato davvero amore? In quel momento, lo pensai davvero. Per me, Alexandre aveva rinunciato a tutto e questa volta in maniera assoluta, definitiva e ipocrita. Non appena poteva, sgattaiolava di nascosto fuori dalle Tuileries, lasciando a dormire moglie e figlio e venendo da me nel cuore della notte, trascorrendo insieme le ore più fredde nel buio di qualche anonima locanda come due fuggiaschi, cercando di riprenderci quei preziosissimi attimi come facevamo un tempo, quando eravamo ancora puri e innocenti. Ora, però, consumati dalle nostre stesse catene, non potevamo fare altro che amarci come due bambini che erano diventati adulti troppo presto.
 E’ assurdo, ma in quelle notti capii che, nonostante tutto, lo amavo ancora. Alla fine, ciò che aveva fatto era stato dettato solo dalla paura e dall’ignoranza che ancora imperversavano a corte. In fondo, era un prigioniero delle proprie idee. Proprio come stava riuscendo a far sentire me. In quelle assurde fughe d’amore, stavo tradendo gli stessi ideali per i quali avevo così tanto lottato in quegli ultimi mesi, trascorrendo il mio tempo in compagnia di un uomo che ormai disprezzavo e che allo stesso tempo non riuscivo a smettere di amare. Spesso mi davo dell’ipocrita e della codarda, ma poi rivedere così da vicino quei suoi splendidi occhi azzurri che brillavano al solo rivedere la luce del mio sorriso, quei capelli fulvi che si annodavano ribelli fra le mie dita, il suono melodioso della sua voce, la forza delle sue parole, mi faceva scordare ogni preconcetto, riportandomi alla purezza del primo amore. In quelle ore interminabili, ritrovavo la bellezza e la poesia perdute nella dolcezza dei suoi baci e delle sue carezze, regalando nuovamente alla vita quella magia che nemmeno i giorni più bollenti della Rivoluzione avevano saputo regalarmi. In quei momenti meravigliosi, comprendevo a fondo il concetto di libertà e uguaglianza. E che l’ultima frontiera da distruggere sarebbe stata la più difficile. Sarebbe mai stato possibile amarsi l’un l’altro senza l’ostacolo del ceto sociale, delle idee etiche e politiche? Può l’uomo accantonare per un attimo i propri ideali e pregiudizi in nome dell’amore e del rispetto per un’altra persona? Forse no, eppure in quel momento fra noi due stava accadendo un simile miracolo. Ora più che mai eravamo divisi dalla tempesta che imperversava sulla Francia, eppure a vederci così, legati indissolubilmente l’uno all’altra, tutto sembrava possibile.
    Ma non poteva durare, non quando le nostre vite erano in balia di un destino così crudele. Le vicende della Rivoluzione si facevano sempre più oscure, l’odio e il sospetto serpeggiavano ovunque, le barriere s’innalzavano.
    Due anni dopo la ripresa delle nostre frequentazioni, in una calda notte di inizio estate, la famiglia reale tentò la fuga, ma fu scoperta e catturata a Varennes. La reazione dei rivoluzionari fu tremenda. A Parigi si respirava un’aria intrisa di violenza e l’incendio che si preparava a divampare da un momento all’altro era solo una questione di tempo. Ognuno era chiamato a prendere le proprie parti e questa volta definitivamente.
    Il mio addio fu semplice, senza né lacrime né imbarazzo. La nostra ultima notte, mi risvegliai prima del solito. Mi soffermai a osservare il suo viso d’angelo incorniciato dalle onde ramate dei suoi capelli, dispiacendomi solo di non poter rivedere i suoi occhi ancora una volta. Non persi tempo e lo immortalai lì, perfetto nella beatitudine del suo sonno, quasi un nuovo Endimione, fissando il suo amatissimo volto sulla carta ingiallita di un piccolo foglio di carta, lasciandoglielo poi lì, a fianco a lui, appoggiato sul guanciale su cui solo pochi attimi prima vi era stata adagiata la mia testa. Dopo avergli sfiorato un’ultima volta la fronte con le labbra, mi rivestii in fretta e sparii nella notte.
 
   10 agosto 1792.
    Una data che non scorderò mai e che ogni volta che la ricorderò mi lascerà sulla lingua il sapore del sangue e del sale delle lacrime. La notte più terribile della mia vita, quella in cui la verità si abbatté tremenda su di me e la Francia intera. Il giorno del giudizio.
    Ormai si era giunti al punto di rottura. L’odio, la rabbia e la fame ci avevano spinti oltre ogni limite. Volevamo giustizia, volevamo vendetta, volevamo pane. E l’origine di tutte le nostre sventure pareva essere rinchiusa proprio lì, alle Tuileries, ingrassando alle nostre spalle all’interno della sua prigione di lusso. Non potevamo sopportare oltre.
    Quella notte, l’incendio divampò.
    C’ero anch’io, in quella folla senza volto, gridando la mia voglia insaziabile di pane e sangue. Ero presente quando sfondarono i cancelli e diedero inizio al massacro. Vidi macellare come animali i miei stessi compagni e insieme a loro tutti quelli che andavamo ad attaccare, finalmente tutti uguali dinanzi alla morte, uniti per l’eternità. Non riuscivo a distinguere più nulla in quella massa informe che si accalcava in ogni angolo, urlando e strepitando idiomi che sembravano non avere origini umane. Alla fine, la follia aveva trionfato anche nella Rivoluzione, trovando il modo di manifestare la sua perversa potenza anche nel tempio della Ragione, insozzandolo e profanandolo sotto i nostri occhi ciechi.
    Ma a un certo punto, giunti al culmine del massacro, qualcosa cambiò. La mia foga, il mio ardore giovanile che mi aveva portata a nascondere anche i sentimenti più profondi del mio animo inquieto, lasciò il posto alla paura verso qualcuno che in quel momento si trovava dall’altra parte.
    Lo vidi emergere in quell’intrico di picche e scuri urlando come una bestia ferita, mentre sorreggeva fra le braccia la moglie morente. Lo vidi scagliarsi contro alcuni di quei pezzenti, macchiando di sangue le sue mani immacolate. Lo vidi venire verso di me, entrambi con le armi in pugno.
    Fu un attimo, quel tanto che bastò a farci fuggire dalle parti opposte, ciascuno alla ricerca di un riparo da tutto quell’orrore.
    Speranza, paura, rabbia, dolore, euforia, disperazione, ebbrezza, tutto si fondeva in quel guazzabuglio infernale che squarciava la notte con i suoi bagliori rossastri.
    Senza neanche rendermene conto, mi ritrovai a correre controcorrente per le strade buie di Parigi, schivando i miei stessi compagni che si aggregavano al tumulto, ignorando le loro apostrofi nei miei confronti. Volevo scappare, andare via di lì, da quell’inferno. Volevo raggiungere casa mia al più presto, sollevare Olive fra le mie braccia e fuggire via insieme, per non fare più ritorno in quel covo di banditi. La folla mi stringeva da ogni lato, colpendo alla cieca, impedendomi la fuga. Urlavo a pieni polmoni, cercando di aprirmi un varco, ma più mi dimenavo, più quella massa senza volto sembrava venirmi contro.
    Poi, improvvisamente, lo vidi. Stava combattendo con tutte le sue forze contro un drappello macilento che si era scagliato su di lui armato di forconi, zappe e altri orribili arnesi, respingendo i loro fendenti con colpi di spada, ferendo e uccidendo ovunque attorno a lui.
    −Alexandre! – urlai, terrificata da quello spettacolo diabolico. –ALEXANDRE!
    Senza pensare che un tale gesto avrebbe potuto benissimo costarmi la vita, piombai in mezzo a quella folla selvaggia, frapponendomi fra le armi e il giovane, le braccia spalancate verso il nemico, lo sguardo deciso. –Fermi! – ordinai con fermezza. –Lui è innocente.
    −Nessuno che si fa chiamare duca o conte è degno di pietà, cittadina! – rispose un omaccione armato di roncola. –Fatti da parte!
    Nonostante l’intimazione, io rimasi perfettamente immobile.
    −Bene, se non sei con noi, vuol dire che sei contro di noi! – decretò il popolano facendo per colpire.
    Si irrigidì di colpo, centrato dal proiettile che in quel momento era partito dalla carabina di Alexandre.
    −Andiamocene – mi disse il ragazzo prendendomi per mano e facendosi largo tra la folla a colpi di spada.
    Il suo corpo era martoriato da numerose ferite, ma, nonostante tutto, il ragazzo continuava a combattere, traendomi a sé con tutta la forza che aveva in corpo, deciso a proteggermi fino alla fine.
    −Perché mi avete lasciato? – esclamò a un certo punto, quando, apertici un varco, riuscimmo a svicolare in una viuzza laterale.
    −Non avevo scelta! – risposi io, faticando a tenergli il passo. –Dovevo scegliere una parte!
    −E vi sembra questo ciò che volete? – chiese lui in tono severo, indicando le violenze inaudite che stavano esplodendo intorno a noi.
    Io abbassai lo sguardo, rossa di vergogna. –No – fu la mia risposta.
    −Troppo tardi.
    −Che ne sapevo che sarebbe finita così? Nessuno di noi poteva prevederlo!
    −Libertà, uguaglianza e fraternità. E’ così che chiamate massacrare degli innocenti? E’ così?
    −No.
    Lacrime di rabbia e di vergogna mi solcavano crudeli il viso, bruciando come piombo fuso sulle mie guance rosee. Non capivo dove volesse arrivare, dove fossimo diretti. Alexandre fremeva di rabbia in ogni singola fibra del suo corpo. Forse, mi avrebbe ammazzata. Lo avevo già messo in conto. La nostra corsa proseguì per un tempo interminabile, fino a quando non giungemmo lungo la Senna, discendendo lungo gli argini fino ad arrivare a un porticciolo maleodorante che puzzava in modo insopportabile di pesce marcio e di vino. A quel punto, Alexandre si voltò vero di me.
    −Voi non sapete che cosa avrei fatto per voi! – esordì fuori di sé dalla rabbia.
    −Smettetela! Ho già sentito queste parole in passato e non intendo tollerarle ancora. Uccidetemi, se è questo che intendete fare. Ma non sprecate il fiato con me – lo bloccai io con decisione.
    In quel momento, così come era accaduto tre anni prima, un lampo selvaggio solcò il mare dei suoi occhi, deformandogli il volto in un’espressione di pura ferocia, ma non ero io la sua vittima. Ci fu un lampo d’acciaio e la sua spada si incrociò con la sciabola di un uomo scarno che puzzava di alcool, che stava per colpirmi alle spalle. Con un urlo di rabbia, Alexandre lo spinse verso la banchina, allontanandolo il più possibile da me. Prima ancora che potessi fare qualunque cosa per fermare ciò che stava accadendo, impietrita com’ero dal terrore, il ragazzo ferì mortalmente l’uomo alla gola, scagliandolo nelle acque nere della Senna, ma, un attimo prima di precipitare nel fiume, questi gli conficcò fino all’elsa la sciabola nel fianco, sparendo poi nell’oscurità.
    L’urlo di Alexandre, accompagnato al mio, scosse la notte. Il giovane cadde esangue a terra, la mano premuta sulla ferita, disteso in un mare di sangue. Io mi precipitai al suo fianco, cercando disperatamente di soccorrerlo. Il suo sguardo era già spento e il viso più pallido che mai alla luce spettrale della luna piena.
    −Alexandre! – lo chiamai con la voce rotta dal pianto. –Alexandre!
    −Scusatemi, Sophie – sussurrò lui. Il petto gli fu scosso da una risatina leggera. –Non avrei mai creduto che sarebbe finita così – si giustificò alla mia occhiata perplessa.
     −Non dite così! – dissi io scuotendo il capo. –Ci deve essere un altro modo!
    −Ormai è tardi. Troppo tardi – rispose il ragazzo, la voce sempre più flebile di attimo in attimo. –Sophie, io vi amo. Voglio che lo ricordiate per sempre, ovunque voi andiate, qualunque cosa farete. Abbiate cura di voi stessa e della nostra bellissima Olive e, soprattutto, non smettete mai di dipingere. Ho sbagliato a dirvi quelle parole, anni fa, disprezzando la vostra arte e il vostro talento: in realtà, essi sono la vera essenza della vostra anima ed è stato Dio in persona a donarvele, affinché poteste cantare le glorie del suo creato. Non dimenticatelo mai.
    −Oh, mio Dio!
    Nell’ultimo bagliore di vita, prima che l’ultima speranza svanisse per sempre, le nostre labbra si incontrarono un’ultima volta, unendosi nel bacio più dolce, puro e appassionato che due persone che si amano con tutto il cuore sanno scambiarsi. Per un attimo, la Rivoluzione, il sangue, il caos e le grida parvero dissolversi nel momento più assoluto della mia vita, nel quale non c’era altro che il silenzio, rotto solo da un’infinita dolcezza che è parte dell’essenza di Dio.
    Poi la sua luce si spense e le sue membra si fecero rigide, mentre l’ultimo soffio della sua vita svaniva nella notte torrida. Di lui non restava altro che l’immagine e il ricordo.
    Calde lacrime di stelle cadenti rigavano al cielo in tanti bagliori argentini, soffocando i miei singhiozzi sommessi mentre reggevo fra le palme la sua mano ancora calda, mentre la Senna gorgogliava una muta preghiera sotto di me. Ancora una volta, al di là della cieca follia degli uomini, era stata la natura a raccogliere le mie lacrime, muta testimone di un mondo che stava cambiando per sempre.
 

    Mi fermo di botto, la matita sospesa a mezz’aria.
    Maria Teresa continua a parlare a ruota libera, ignorando che ho smesso improvvisamente di lavorare. Non le do peso, anzi, colgo l’occasione per affrettarmi a mettere via le mie cose.
    −Cosa fate, Sophie? – esclama a un certo punto Madame Royale, notando che fogli e astuccio sono spariti nella mia borsa. –Non ditemi che avete già terminato il vostro lavoro!
    −Non ci sarà nessun lavoro, Madame – rispondo io con fermezza. –Mi ricresce, ma non posso eseguire questo ritratto. Temo non rientri più nelle mie competenze.
    −Ma come! Siete la figlia della più grande ritrattista di corte, non potete non essere all’altezza!
    −Io non sono mia madre. Ho scelto una via diversa. E so perché l’ho fatto. Offenderei la vostra memoria, se lo facessi. E non voglio compromettere in alcun modo la mia figura, né la vostra. Con permesso, Madame.
    −Capisco – sentenzia Maria Teresa con un’espressione triste dipinta sul volto stanco. –Allora non posso che augurarvi buona fortuna, Sophie. Vi ringrazio, comunque, per la vostra visita. Rivedervi dopo così tanto tempo mi ha dato un’immensa gioia.
    Agguanto André e ci avviamo fuori dalla villa, risalendo sulla carrozza e fuggendo via di gran galoppo, verso Vienna.
    Improvvisamente, ho una voglia irresistibile di rivedere mio marito Leonard, mia figlia Olive, di stringerli a me, di risentirmi a casa. Avvertendo la mia tensione, André si raggomitola al mio fianco. Io lo abbraccio forte, immergendo il volto nei sui riccioli biondi e ribelli.
    Nonostante gli orrori rievocati in quella notte, sono consapevole di aver trovato il coraggio di andare avanti. Maria Teresa no. Lei non ha dimenticato, la sua mente, così legata al passato ormai morto, non è mai riuscita a uscire dalla gabbia. Io invece sì.
    Le ultime parole di Alexandre sono state la freccia che mi ha aiutata a superare il momento più brutto della mia vita. Sono andata avanti, nonostante tutto, e sono riuscita finalmente a trovare il mio posto nel mondo. Un posto che né Madame Royale né chiunque altro abbia incontrato nella mia vita precedente potrà mai comprendere.
    Mi sono sposata con un uomo che amo con tutta me stessa, ho due figli fantastici, una bella casa. Non ho mai smesso di dipingere. Le mie opere ora sono apprezzate in tutta Europa. E ora è il turno della mia piccola Olive, ormai una giovane donna.
    Spesso, ho come la sensazione che, in qualche modo, Alexandre vegli su di noi, assicurandosi che ci comportiamo bene e guidandoci nelle scelte più difficili. I miei figli non lo sanno, soprattutto Olive, ma lassù c’è un angelo invisibile a proteggerli.
    E io, attraverso ogni singolo colore che imperversa le mie tele, non smetterò mai di ricordarlo.




TERZO CLASSIFICATO PER IL CONTEST "RIVOLUZIONI"

Grammatica: 8/10 
Originalità: 15/15 
Caratterizzazione Personaggi:10/10 
Aderenza: 15/15 
Uso oggetti proposti: 10/10 
Scorrevolezza: 9/10 
Giudizio personale: 3/5 
TOTALE: 71/75 





























 
 
 
  
 
 
  
 
 
 
 
   
 
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