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Autore: Strong Haze    04/09/2012    10 recensioni
Un incontro casuale, voluto dal destino, fa incontrare due adolescenti totalmente diversi tra loro.
Uno debole, fragile, solo.
Uno forte, allegro, estroverso.
Dalla shot:
< L’amore non è una cosa semplice, mai.
In alcuni casi più che in altri.
E il loro caso è uno di quelli, purtroppo.
Ma loro non lo considerano un problema.
Il problema, se proprio vogliono farselo, è degli altri.
E loro stanno imparando a fregarsene degli altri.
Perché, come dice sempre Frank, cosa te ne frega degli altri se quello che hai vicino è tutto il tuo mondo? >
[ FRERARD ]
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Frank Iero, Gerard Way | Coppie: Frank/Gerard
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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" Autunno "

A Flavia e Cris.




di come Gerard incontra Frank.

Autunno sono le foglie rosse e gialle che ricoprono il prato del parco sotto casa.
Autunno sono le panchine di legno con le promesse d’amore eterno intagliate sopra con coltelli da due soldi.
Autunno sono i pomeriggi passati di fronte alla finestra della camera da letto a osservare le gocce di pioggia che bagnano i ciottoli sulla strada.
Per Gerard l’autunno era una stagione come tutte le altre, ne più bella, né più brutta.
Passava i pomeriggi a creare il suo mondo perfetto fatto di carta, inchiostro e colore.
Un mondo dove il cielo era sempre azzurro ed il prato sempre verde.
Un mondo dove vivevano creature straordinarie.
Un mondo dove la depressione non aveva ragione di esistere.
Un mondo dove la parola paura suonava quasi ridicola.
In questo mondo ideale, un omino stilizzato dai capelli neri attraversava valli e scalava montagne, nuotava nei laghi e combatteva gigantesche ombre nere.
L’omino non parlava mai con chi gli rivolgeva la parola ma la cosa non aveva mai disturbato nessuno.
Era uno che sapeva ascoltare, lui.
Ascoltava talmente bene che era come se parlasse.
Il piccolo pensava che parlare ad alta voce fosse esasperante, esagerato ed inutile.
Pensava tantissimo, forse troppo, a volte.
Gerard si immedesimava così tanto nella creatura nata dalla sua penna che aveva preso a vivere come lui.
Con l’unica differenza che non doveva combattere nessuno e che difficilmente qualcuno si fermava per la strada a parlargli.
Gerard andava a scuola come tutti gli adolescenti della sua età ma lì era come trasparente.
Nessuno lo vedeva e se rimaneva a casa fingendo un malanno improvviso con la madre, nessuno se ne accorgeva.
Nemmeno i professori.
Il che giocava a suo favore, a volte.
La sua vita era calma e piatta, come il mare senza vento.
La sua vita era più solitaria di quella di un eremita, il contrario della socialità.
Non che gli interessasse.
L’importante era avere sempre a portata di mano il suo grande quaderno, quello che conteneva il suo piccolo angolo di mondo.
Nero, rigido e pieno di fogli bianchi sottilissimi, leggeri come se fossero fatti d’aria.
Aveva provato a contarli ma dopo le prime tre centinaia si era arreso.
Da quel momento aveva deciso che il suo quaderno era infinito.
Fino a che avrebbe avuto fantasia i fogli non sarebbero finiti e avrebbe potuto continuare a sporcare pagine su pagine con la penna stilografica del nonno che, ogni tanto, lasciava meravigliose macchioline scure come a decorare una delle tante ombre presenti nei disegni o come per contaminare l’azzurro del cielo o il verde delle sconfinate distese d’erba.
Era un minuto come un altro di un’ora come tutte le altre.
Era un’ora come tutte le altre di un giorno simile a tutti gli altri.
Era un giorno come tutti gli altri in un autunno senza niente di speciale.
A Gerard, in un momento così banale, venne in mente di uscire dalla sua stanza, nella quale era rinchiuso da due settimane, fingendo di avere la varicella e di essere altamente contagioso per tutta la famiglia.
Non che la madre gli credesse davvero.
Dentro di se era più contenta di vedere che suo figlio si era messo in quarantena da solo e poterlo avere, quindi, sotto controllo, che saperlo fuori casa a farsi di chissà cosa, frequentando chissà chi.
Non era cattiva, in fondo gli voleva bene.
Non amava dimostrarlo.
Era fin troppo riservata, come il figlio, del resto.
E a Gerard andava bene.
No, meglio dire che ci era abituato.
A fatica, il ragazzo dal lungo ciuffo nero si alzò dal letto dove stava cercando di dormire da più di tre ore senza ombra di successo.
Indossò jeans neri, scarpe nere, maglia e felpa con il cappuccio anch’esse nere.
Recentemente aveva anche cominciato a truccarsi di nero, gli piaceva.
Ai suoi compagni di classe invece l’aggiunta non era piaciuta affatto.
Continuavano a chiamarlo femminuccia, frocio, ricchione e in tanti altri modi offensivi.
Se ne era fregato, come al solito.
Era andato avanti.
A testa bassa, ma era andato avanti.
Fuori pioveva come accadeva spesso in quella stagione e le gocce d’acqua, forti ma regolari, gli avevano schiacciato rapidamente i capelli alla fronte.
Il trucco nero scivolava lungo le guance e la felpa, ormai bagnata fradicia, lo rendeva simile ad uno spettro.
Bianco come il cielo nuvoloso autunnale, nero come la più buia delle notti.
Si guardava i piedi come al solito.
Non per paura di inciampare, però.
Cercava di nascondersi più che poteva, di stringersi nella felpa, come per scomparire, come per rendersi invisibile.
Cercava di evitare gli sguardi dei passanti.
Aveva paura di vedere compassione nei loro occhi, come facevano da quando lo avevano visto muovere il primo passo.
< Piccolo, sbrigati che piove. Ti prenderai un raffreddore.>
Gerard, praticamente per caso, sentì la voce di un ragazzo giovane.
Parlava sicuramente con un bambino, quei piccoli esemplari di essere umano incuranti della presenza di qualsivoglia agente atmosferico come pioggia, neve o grandine, sprezzanti del pericolo e con quella buona dose di fortuna che, ogni volta che un’idea tanto geniale quanto rischiosa gli balena per la mente, riesce a salvare, sebbene miracolosamente, la pelle a loro e dalle lacrime i genitori, costretti a piangere un figlio morto a cinque anni per essere andato a finire in un fossato con tutta la bicicletta dopo aver provato un salto di dieci metri o, più semplicemente, l’ebbrezza del salto mortale carpiato dal castello di legno giocattolo del parco giochi.
Cinismo, esagerazione? Forse, ma Gerard preferiva chiamarlo realismo.
Immerso nei suoi pensieri, Gerard quasi non si accorse del “piccolo” labrador che correva verso di lui scodinzolando.
In pochi secondi, giusto il tempo di realizzare che l’enorme massa di pelo bianco era un cane e si stava avventando su di lui, era a terra, più spaventato e sorpreso che ammaccato per la botta.
< Oh mio dio, cazzo Zac, fermo. >
La voce del ragazzo di pochi secondi prima.
Non si riferiva ad un bambino, ma ad un cane!
Da quando in qua i cani devono tornare a casa perché il padrone ha paura prendano il raffreddore?non poté fare a meno di pensare Gerard.
Ridicolo, insensato, immotivato.
Nemmeno sua madre si era mai preoccupata per una cosa del genere.
Va bene che sua madre non era proprio il migliore degli esempi, però..
< Ehi, va tutto bene? >
Il ragazzo parlava con lui, questa volta, anche se, per un momento, ne aveva seriamente dubitato.
Ne aveva avuto la certezza solo perché, alzando lo sguardo, lo vide guardarlo dritto negli occhi.
Gerard annuì, cercando di farfugliare qualcosa che risultò essere emessa troppo a bassa voce per essere sentita.
< Sicuro? Tutto al suo posto? >
Gerard annuì ancora una volta.
Maledetto poco allenamento nel parlare, pensò Gerard.
< Mi dispiace tanto – continuò il ragazzo dai capelli neri – a volte Zac è un po’ troppo affettuoso >
Gerard si ritrovò ad annuire per la terza volta consecutiva.
Stava cominciando a sentirsi penoso.
Infatti il ragazzo di fronte a lui aveva aggrottato le sopracciglia, stupito di aver trovato un suo coetaneo così poco loquace.
Gli porse la mano per aiutarlo ad alzarsi, lui la afferrò giusto per cortesia e si tirò su in fretta, facendo leva sulle ginocchia e sulla mano libera per non pesare troppo.
< Piacere, io sono Frank! Per gli amici Frankie! > gli strinse la mano lui, provocandogli una strana scossa di calore lungo la spina dorsale.
< Io sono Gerard e gli amici non ce li ho. > riuscì a dire lui, risultando, più a se stesso che a Frank, davvero molto ridicolo.
< Ma Gerard è un nome troppo lungo! >
Lui, per tutta risposta, alzò le spalle confuso.
E che diavolo posso farci io se ho un nome di merda, eh?
Cosa?
< Facciamo Gee. Ti piace? > continuò Frank, lasciando Gerard totalmente senza fiato.
Non solo nessuno si era mai preso la briga di chiedergli come si chiamasse ma nessuno gli aveva mai trovato un soprannome.
E poi si conoscevano da cinque minuti.
< Mh > mugugnò Gerard, soprappensiero.
< Un po’ rincoglionito? Ti offro una birra al bar dell’angolo, sicuramente parlerai un po’ di più. >
Gerard, prima di cominciare a seguirlo, non poté fare a meno di notare il sorriso che attraversava il viso di Frank. Notò gli occhi brillanti, i capelli lisci che andavano verso tutte le direzioni immaginabili, i vestiti che valorizzavano il corpo esile perfettamente.
Nel complesso doveva ammettere che era proprio bello.
Emanava simpatia da tutti i pori, se non altro.
E, stranamente, era riuscito a rimanergli accanto per più di cinque minuti.
< Allora, questa birra? Se non ti va basta dirlo, nessun problema >
< No! > si trovò quasi ad urlare Gerard, notando il buio che stava scendendo sugli occhi di Frank.
Dopo i primi dieci minuti di silenzio nei quali Gerard doveva abituarsi all’idea di essere in compagnia, non smisero di parlare nemmeno un secondo.
Musica, libri, scuola, famiglia.
Alla fine della serata era felice come non lo era da anni.
Frank era allegro, spensierato e anche un po’ sarcastico.
Più andavano avanti e più ridevano, complice l’alcool.
Se qualcuno dei suoi compagni lo avesse riconosciuto (quasi impossibile ma non da escludere completamente) sarebbe sicuramente rimasto a bocca aperta.
Gerard non ride, Gerard piange.
Gerard non beve birra, Gerard non frequenta locali, Gerard non ha amici.
Gerard è solo.
E allora perché si sentiva così bene?
Cosa aveva quel ragazzo davanti a lui di così speciale?
Non riusciva a rispondersi.
< Devo tornare a casa, ciao Frank >
< T-te ne vai già? Puoi chiamarmi Frankie, comunque >
< Okay, Frankie. Non avevo detto che uscivo e tutti a casa saranno preoccupati per me >
Bugia.
Enorme e palese bugia.
Perché? Che bisogno ce n’era?
Poteva semplicemente dire la verità.
Si, qual’era la verità?
Non sapeva nemmeno questo.
Questo aumentare di emozioni contrastanti e domande senza risposta lo stavano confondendo così tanto che dovette prendersi la testa tra le mani.
Prese fiato una, due, tre volte.
< Va tutto bene? > chiese inevitabilmente Frank.
< Non lo so > ammise lui.
Senza un apparente motivo, almeno dal punto di vista di Gerard, l’amico lo abbracciò.
< E’ un mondo di merda, ti  capisco, sai? >
Capiva cosa?
Anche stavolta, come le tante volte precedenti, non sapeva rispondersi.
Ma una strana consapevolezza si stava facendo strada dentro di lui, cosa contava saper rispondere a tutti quegli interrogativi?
In quel momento preferì concentrarsi sulla grande ondata di calore che il corpo di Frank trasmetteva in lui.
Di domande ne avrebbe avute altre centinaia, forse migliaia.
Chi se ne frega, si disse.
< Grazie di tutto > sussurrò appena, in modo da farsi sentire solo da lui.
Aveva dimenticato, con un solo abbraccio, la sua vita, i suoi problemi, le sue paranoie.
Ormai la terra, il cielo e le persone avevano perso importanza.
Era in una bolla isolata dal mondo.
Solo lui e Frank.
Era questa la materializzazione del suo mondo ideale, dei suoi disegni.
Per un momento pensò di essere morto.
In effetti quattro o più ore prima, un cane di grossa taglia, facendolo cadere, poteva avergli fatto rompere la spina dorsale o fatto venire un trauma cranico.
Poteva essere in coma.
Chi se ne frega, pensò ancora.
Se quello era il paradiso, gli piaceva molto.
Pregò con tutto se stesso che il tempo si fermasse o che i minuti scorressero più lentamente possibile.
Ma, in cuor suo, sapeva che Frank non lo avrebbe lasciato.
 

 
*  *  *  *

 
 
Ora, nel mondo di carta di Gerard, qualcosa è cambiato.
L’omino stilizzato cammina ancora, si.
L’omino stilizzato continua ad incontrare creature mitologiche ed affascinanti, si.
L’omino stilizzato, però, non è più solo.
Al suo fianco c’è un omino quasi identico a lui.
Frankie, si chiama.
Frankie parla e lui ascolta.
Gee piange e Frankie lo consola.
Raramente però Frankie capisce cosa non va nell’animo del suo amico.
Si limita ad abbracciarlo e ad asciugargli le lacrime.
Una cosa però la ignora.
Gerard non piange per dispiacere o per paura.
Gerard non prova nessun tipo di dolore.
Gerard piange dalla gioia, dalla felicità.
Bacia Frank così spesso che sta cominciano a pensare di esserne dipendente.
Almeno lui ricambia sempre con passione.
Frank ride, Gerard ama.
Gerard ride, Frank ama.
 

 
*  *  *  *

 
 
L’amore non è una cosa semplice, mai.
In alcuni casi più che in altri.
E il loro caso è uno di quelli, purtroppo.
Ma loro non lo considerano un problema.
Il problema, se proprio vogliono farselo, è degli altri.
E loro stanno imparando a fregarsene degli altri.
Perché, come dice sempre Frank, cosa te ne frega degli altri se quello che hai vicino è tutto il tuo mondo?
Nulla, risponde sempre Gerard.







__T's corner.
Salve a tutttiiiiii! *fa ciao con la manina*
Eccomi qua con la mia.. ehm.. terza frerard.
So benissimo di esagerare e anche che EFP mi caccerà molto presto ma senza frerard la mia vita non ha un senso.
Capitemi, cosa può fare un insonne come me tutta la notte?
Niente, vi rispondo io.
Spero vi sia  piaciuta, a detta della mia amica da frerard (ciao Flà <3 ) è carina u.u
Se volete insultarmi pubblicamente, su twitter sono  @TataOnMars, vi aspetto!
Un bacio e alla prossima (muahahahah),
Charlie.

p.s. l'idea era  di scrivere una Frerard per ogni stagione,  ditemi se l'idea vi piace.

 

   
 
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