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Autore: Melanto    05/09/2012    5 recensioni
Una raccolta di spin-off legati alla saga dell'AU-fantasy "Elementia: The War" e che racconta l'infanzia dei nostri quattro eroi.
Genere: Fantasy, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Alan Croker/Yuzo Morisaki, Hajime Taki/Ted Carter, Mamoru Izawa/Paul Diamond, Teppei Kisugi/Johnny Mason
Note: AU, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Elementia Esalogy'
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Giorno senza Dei
- Bashaar&Arya’s death -
- Extra n.2 -



- Parte II -


Ghoia, Dogato di Tha Cerròs - Regno degli Ozora, Terre del Sud Centro-occidentali

L’eco delle grida, che Arya non seppe dire quanto allarmate fossero, giunse alle loro orecchie mentre raggiungevano la spianata antistante l’ingresso alle Caverne di Beghnassar. Ci avevano messo più tempo del previsto, ma alla fine erano arrivate.
Involontariamente fermò il passo e si volse, mentre le altre attorno a lei continuavano a salire guidate da Laqua e Saqua che ordinavano di entrare nelle grotte e di non muoversi.
Arya strinse più forte Yuzo, che continuava a dormire, mentre i suoi occhi puntavano le foreste e poi il villaggio, dove le figure erano piccole e correvano dappertutto, ma erano così lontane che era impossibile riuscire a distinguere i buoni dai cattivi.
«Non riesco a guardare…» Haruko si nascose dietro di lei. Aveva provato a seguire la direzione dei suoi occhi, ma la paura di quello che avrebbe potuto vedere gliel’aveva fatta distogliere.
«Non devi, infatti.» Arya, invece, doveva. Doveva sapere che Bash, Alevhar e tutti gli altri stavano bene. Doveva sapere come poter intervenire per essere loro di aiuto, doveva vegliare su di loro, su di lui. Riprese a camminare per raggiungere la cima.
La spianata le si presentò brulicante di donne e bambini. A mano a mano entravano nelle caverne sotto lo sguardo attento di Saqua, mentre Laqua rimaneva affacciata al bordo del precipizio con gli occhi sul villaggio. La lunga ascia bipenne era appesa all’imbracatura che portava in vita, e restava immobile coprendole i polpacci.
Arya entrò nelle caverne e si abituò adagio al cambio di luminosità.
Kima, la moglie di Hock Settedita, stava già provvedendo ad accendere i fuochi assieme a un altro paio di donne. Maryam, invece, affidò Lelia alla vecchia Chieko per poi uscire nuovamente all’esterno, maniche arrotolate fino ai gomiti in atteggiamento battagliero.
Arya si guardò intorno decisa a trovare un posticino per Yuzo e Haruko dove potessero sistemarsi e poi avrebbe raggiunto Maryam. Anche lei fremeva dalla voglia di uscire, di mettersi in contatto con le piante e vedere più da vicino cosa stesse accadendo. Si fermò nei pressi di una roccia non troppo lontana dal fuoco, ma più addentro alla caverna. Appoggiò la sacca al suolo e guardò il suo bambino per qualche momento.
Le labbra di Yuzo si aprirono e chiusero quando gli passò un dito sulla guancia.
Arya sorrise poi lo porse alla sorella.
«Siedi qui e tieni il piccolo con te.»
«Tu dove vai?» Si allarmò subito Haruko che già aveva dovuto lasciare indietro Bash e il buon Alevhar, non voleva vedere andar via anche l’amata sorella.
«Tranquilla, sarò sul pianale qui fuori. Tu resta dentro, sarai al sicuro. Va bene?»
Già il fatto che non si allontanasse troppo per la giovane fu una enorme rassicurazione, così si limitò ad annuire e a dondolare il nipotino, sempre immerso nel sonno profondo.
La mano di Arya le scivolò sul capo e lei le sorrise, seppur titubante. Quando la vide allontanarsi, la breve smorfia felice si dissolse in un attimo.
L’Erborista raggiunse l’uscita in passi rapidi e decisi, così come il suo sguardo. Laqua e Saqua erano ora entrambe presso il bordo del crepaccio, affiancate da una nervosa Maryam.
«Dannazione! Da qui è impossibile capire cosa stia accadendo! E quel fumo non mi piace! Saranno i bastardi di Van Saal? Avranno dato fuoco alle nostre case?!»
«Le case si possono ricostruire.»
La moglie di Zedečka si volse; sul viso le sopracciglia aggrottate le conferivano un’espressione che non riusciva a nascondere la vera preoccupazione che si ostinava a celare con la forza della sua tempra.
Arya le poggiò una mano sul braccio per darle sostegno.
«Puoi vedere che accade?» domandò Laqua, ben più pratica.
«Sì, ma il mio intervento sarà labile, perché sono troppo lontani. Mi è difficile manovrare le piante da questa distanza, però posso sfruttarle ancora per scorgere la situazione.»
La gemella annuì, più accomodante. «Andrà bene, per ora.»
Arya si concentrò e attorno a lei si fece il vuoto. Laqua e Saqua si allontanarono imitate da Maryam. L’Erborista aveva bisogno di spazio per richiamare i suoi poteri. Le braccia erano distese lungo i fianchi con i palmi rivolti alla terra, le gambe unite, la testa alta e lo sguardo dritto. Da che le avevano restituito solo silenzio a ogni richiamo, ora le piante gridavano disperate e tutte insieme il pericolo che li circondava, che era ovunque, che impregnava la terra e macchiava le loro foglie di sangue. E quelle grida ferivano le sue orecchie e il suo spirito, ma doveva ascoltarle fino in fondo. I capelli di Arya iniziarono a oscillare a un vento che sembrava esistere solo attorno a lei. Si gonfiarono, si sollevarono e il nastro verde che li legava in treccia si sciolse lasciandoli liberi di disseminarsi attorno alla sua figura come fossero vivi. Anche i vestiti oscillavano e il vento assunse una consistenza visibile. Erano onde di energia, la tenue luce verde brillante che emanavano l’avvolse interamente e, dalla terra, i primi virgulti iniziarono a salire, spaccare la copertura solida per arrivare a lei, ai suoi piedi, alle sue mani. I rampicanti strisciarono da ogni direzione, richiamati dalle sue parole che non avevano suono se non nella testa dell’Erborista. Le lambirono i calzari, si infilarono sotto i tessuti, avvolsero lo braccia fino ad arrivare al viso. Poi si conficcarono sotto la pelle e Arya gettò il capo all’indietro espellendo l’aria in un respiro forte. Il sangue si mescolò alla linfa vegetale e i capillari si colorarono di verde scuro. Anche la pelle mutò colore in favore di una verde più chiara, così come i suoi occhi, quando abbassò il capo. Non più nocciola, ma smeraldo brillante privi di pupilla.
Adesso poteva vedere come se ne avesse avuti mille. Il punto di vista correva frenetico dall’uno all’altro mostrandole cosa stava accadendo al villaggio.
Lo trovò sotto assedio e i briganti nel vivo dello scontro. Alcuni mercenari avevano davvero dato fuoco alle case come aveva temuto Maryam, ma non era importante. Bashaar era vivo e guidava i suoi uomini con il coraggio leggendario che aveva sempre avuto. Vederlo calare le sue spade riuscì a calmarla appena un po’, ma l’ansia tornò viva e più forte di prima quando si rese conto che non avevano speranza. Grazie alle sue piante poteva avere una visione di insieme molto più ampia e completa rispetto ai briganti e lo svantaggio numerico le saltò agli occhi in maniera così evidente da farle trattenere il respiro.
«Che sta succedendo?» domandò subito Maryam, che in quel fiato tronco leggeva, a ragione, che le cose non andavano bene.
«Sono troppi.» Arya lo esalò come fosse stato il suo ultimo alito di vita. Sbatté le palpebre e il punto di vista mutò di nuovo. Non aveva senso indorare la pillola e forse, pensò, Bash doveva averlo capito quando le aveva detto che c’era la possibilità che non tornasse.
Anche per le gemelle e Maryam fu chiaro. Quest’ultima distolse lo sguardo, girando completamente il viso. Si allontanò di un paio di passi dando le spalle a tutto. Un tentativo di rimanere forte, di scavare nella propria tempra che era sempre riuscita a tenere testa a quella altrettanto dura di suo marito senza mai perdere un colpo, per riuscire a non divenire preda dello sconforto. Non l’avrebbe mai sopportato. E nemmeno Zed.
«Lui è ancora vivo?» domandò e Arya lo cercò con la vista delle piante.
«Sta combattendo contro Ravestorn.»
«Ravestorn?!» Maryam agitò le mani sollevandole al cielo. «Stupido caprone! Perché scegliere proprio quel mostro senza cuore?!»
Non aveva tutti i torti, Arya lo sapeva bene. Tra gli uomini di Van Saal, tre di loro erano da non sottovalutare: Ravestorn, che ora era impegnato con Zed; Dhuman che però vide già morto e Dykee. Quest’ultimo non era sul campo. Arya lo cercò senza vederlo e la cosa non le piacque. Così come non vide Van Saal, ma lei sapeva che doveva essere da qualche parte a godersi lo spettacolo in attesa del finale. E infatti, mutando velocemente i punti di vista, lo trovò che si teneva in disparte con un altro manipolo ben nutrito di uomini. Dykee, manco a dirlo, era con lui.
«Dobbiamo andare a dar loro una mano!» Saqua strinse forte l’impugnatura della grossa ascia bipenne, uguale a quella della sorella, fremendo di impazienza, ma Laqua allungò un braccio per fermarla. Decisione, fermezza. Laqua era sempre stata la più dura tra le due.
«No. Bashaar ci ha dato ordine di proteggere loro e noi così faremo.» Volse le spalle al dirupo e si allontanò di qualche passo.
Anche se non era riuscita a vederla in volto, Arya aveva percepito dal suo tono di voce quanto le pesasse obbedire a quel comando quando avrebbe voluto correre per dar manforte ai suoi compagni. E a lui.
Era difficile dover rimanere a difendere la donna che le aveva portato via l’uomo di cui continuava a essere innamorata, nonostante tutto.
La rivalità con Laqua le era stata evidente fin dal momento in cui l’aveva conosciuta. Aveva avvertito nettamente l'ostilità nei suoi confronti, e più il tempo era andato avanti, più era divenuta quasi palpabile. Nell’istante in cui aveva capito di non essere una presenza gradita per lei, aveva compreso che il motivo era legato a Bashaar. Erano arrivate addirittura a sfidarsi, perché Arya voleva dimostrarle di essere all’altezza del brigante.
La rivalità, nel tempo, era mutata in rispetto e ora la sua fedeltà al capo dei briganti emergeva in tutta la solidità di cui era capace. Bash le aveva detto di difendere le famiglie e lei le avrebbe difese fino alla morte.
Un grido sovrastò gli altri, nella mente di Arya, e il punto di vista tornò a mutare. Scivolò tra le fronde e i rami, s’approfondì nelle radici e poi emerse con i mille occhi delle foglie che accerchiavano il villaggio.
Arya vide i corpi privi di vita di Bloody Rus e di Hock Settedita e gli occhi le punsero per il dolore, ma quando s’accorse che era stato Zed a urlare in quella maniera disumana trattenne il respiro e la mano s’artigliò istintivamente al braccio di Maryam, che era tornata sui suoi passi.
Le immagini scorsero come un fiume cui non poteva opporsi perché era solo foglia, ma troppo lontana per riuscire a muoverla se non in un fruscio. Vide Zedečka arretrare, coperto di sangue, l’occhio ormai cieco e Ravestorn che stava avendo la meglio senza alcuna difficoltà.
«Che succede?» Maryam si allarmò subito. «Che cosa stai vedendo?»
Arya aprì le labbra quasi avesse potuto parlare, ma tutto le morì in gola quando Ravestorn martellò la gamba di Zed, mandandolo a terra, e poi gli diede fuoco. Bashaar accorse, ma era troppo tardi.
Zed… il buon vecchio, burbero Zed… se n’era andato.
Arya puntò il verde cieco degli occhi in quelli di Maryam. Le lacrime scivolarono sulla guancia quando mormorò quel: «Mary…»
E la donna capì, quasi glielo avesse detto a chiare lettere. Maryam serrò le labbra e le piegò verso il basso. Strinse gli occhi in un’espressione di rimprovero e spostò il viso di lato.
Voleva dimostrarsi forte, ma la voce le tremava. «Quel… quel caprone… contro Ravestorn… proprio contro…» Scosse il capo e non disse più nulla.
Arya avrebbe voluto confortarla in qualche modo, per quanto capisse come le parole fossero superflue in quel momento, però la sua mente, ancora collegata alle piante, vide ciò cui i suoi occhi non avrebbero mai voluto assistere. Li spalancò e si piegò in avanti, aggrappandosi al braccio di Maryam con tutta sé stessa. Intorno girò tutto e il fiato le venne strappato dal petto, così come sentì che il ventre veniva trafitto da parte a parte. Come le frecce che trovarono il corpo di Alevhar.
«Papà!»
Maryam la sostenne nel momento in cui l’avvertì quasi accasciarsi al suolo. Le lacrime ne avevano completamente velato lo sguardo.
«Papà, no! Non voglio…»
Laqua la raggiunse in un attimo, afferrandola per le spalle. Lo sguardo sgomento.
«Alevhar?! Gli è successo qualcosa?!»
L’Erborista non rispose, ma continuò a scuotere il capo. Una mano s’allungò nel vuoto, quasi avesse voluto toccarlo. Laqua la scosse con decisione.
«Arya, ascoltami! Che è successo ad Alevhar?!»
Le iridi verdi si mossero, abbandonarono il punto indefinito per incrociare quelle della brigantessa. A quest’ultima sembrarono smeraldi coperti da un velo d’acqua. Il verde tremolava, lucido e brillante.
Arya inclinò il capo di lato, non sapendo nemmeno che parole usare o non volendo usarle, ma la sua espressione di dolore non seppe mentire.
Laqua lasciò lentamente la presa e l’Erborista si accasciò al suolo, affondando il viso nelle mani.
Alevhar dai modi discreti e sempre poche, ma giuste parole; l’uomo che sorrideva, ma non rideva mai; i lunghi capelli bianchi e gli occhi verde speranza. Arya lo rivide mentre lavorava alla culla di Yuzo e ripensò alla cura con cui aveva intagliato il quadrifoglio, simbolo della Divina Azumi, come buon auspicio. Lo rivide mentre teneva in braccio il nipote e si lasciava fare di tutto senza smettere di sorridere. Yuzo adorava giocare con i suoi capelli, glieli afferrava senza tirarli, catturato da quel colore così puro e perfetto.

«Se si ha la possibilità di poter scegliere, allora è meglio lasciare indietro ciò che dà meno sofferenza nel distacco quindi non temere, ci sarò io a guardargli le spalle.»
«Ma chi le guarderà a te, papà?»

Avrebbe dovuto capire che non si sarebbe mai preoccupato di sé stesso, anteponendo il bene del figlio, come aveva sempre fatto.
E Bashaar… Bashaar era lì, piegato sul corpo dell’uomo, il suo viso tra le mani e la voce che continuava a chiamarne il nome, anche se sapeva che era inutile, ormai. Attraverso le piante, Arya ne scorse gli occhi e vi lesse dolore. Era così travolgente che non riuscì a reggerne il peso e spostò altrove lo sguardo, lontano, di pianta in pianta, di foglia in foglia. Lontano dal villaggio e dalla morte che sembrava pronta a coprire ogni cosa. A confermarlo arrivò il suono di un corno che anticipò la comparsa di Dykee e Van Saal.
Arya chiuse gli occhi, incapace di affrontare l’inevitabile.

«Papà!»
Bashaar lo gridò con tutto il fiato che aveva nel petto.
Era stato così veloce e al tempo stesso lento. Gli era parso che il suo corpo si muovesse a rallentatore fin da quando aveva visto Zed a terra, contorcersi per spegnere il fuoco e allontanare il dolore. Nello stesso modo aveva visto sé stesso correre per raggiungerlo, dopo aver abbattuto Ravestorn, e scuoterlo, girarlo. Il sangue ovunque e l’occhio accecato per sempre.
Il tempo si stava dilatando come se mani invisibili lo stessero tirando da un lato e dall’altro e loro erano nel mezzo, le percezioni allungate, i movimenti rallentati.
Zedečka era morto e lui si era distratto non vedendo le frecce in arrivo. Se non fosse stato per suo padre sarebbe stato un colabrodo, ma la sua voce era arrivata, anche lei lenta, ovattata, ma chiara e la velocità era tornata per un attimo a far breccia nelle percezioni sballate. Dolore aveva spezzato il pericolo e lui aveva estratto Vendetta dal cadavere di quel cane di Ravestorn per prepararsi alla nuova calata avversaria.
Non c’era tempo per piangere i morti, lo sapeva, e tutte le sue lacrime le avrebbe rimandate alla fine, se fosse sopravvissuto.
Poi, il tempo si era arrestato ancora, centellinato nella clessidra granello dopo granello. Gli era bastato guardare suo padre, vedere le code piumate dei dardi emergere dal suo petto affinché ogni cosa fosse tornata a rallentarsi. E più scorreva lento, più il dolore era grande.
Il richiamo gli esplose in gola quando il corpo di suo padre cadde all’indietro, ruzzolò dal tetto e precipitò al suolo, sul retro della casa.
Alevhar non aveva gridato, compito nella sua discrezione fino all’ultimo istante.
Bashaar corse per raggiungerlo e il suo corpo era abbandonato, sguardo al cielo, sul terreno battuto e già abbondantemente battezzato nel sangue.
«Papà! Papà, rispondimi!» Lasciò le spade al suolo e gli prese il viso. La testa ciondolava al tocco. Doveva essersi spezzato il collo nella caduta, ma probabilmente non era stato quello a ucciderlo, perché Alevhar era già morto prima di toccare terra. Una delle frecce era conficcata proprio all’altezza del cuore.
«Papà…»
Gli occhi verdi erano aperti sul cielo, ma ormai non erano più in grado di vederlo.
Da quando aveva combattuto per la prima volta nell’arena di Bàkaras, Bashaar non aveva più provato un dolore così forte. Aveva estirpato ogni sofferenza per essere in grado di sopravvivere alle crudeltà della Nave dei Deserti, ma quello era suo padre. Tutto ciò che restava delle sue origini e dei giorni felici nel Dogato di Kalavira prima di essere incarcerati. Era il ricordo di sua madre nei racconti che l’uomo sapeva narrargli sempre al momento giusto. Era la calma che non aveva mai avuto e la pazienza che avrebbe sempre voluto imparare.
Aveva vissuto gli anni più difficili della sua vita convivendo col terrore costante di perderlo nell’arena e quando erano riusciti a evadere, era stato in grado di affievolire quella paura. Ma certi destini erano inevitabili e il loro era stato scritto molti anni prima, marchiato sulla pelle. Erano stati già morti prima di lasciare Bàkaras, marionette che avevano sognato una vita diversa. Ora le Dee avevano deciso di recidere i fili.
Stringendo le labbra in una smorfia, che era di rabbia e dolore insieme, Bashaar gli carezzò il capo, dove i capelli candidi erano stati macchiati dalla terra.
«Dormi, papà. Dormi.»
Le dita scivolarono sul viso, chiudendo delicatamente le palpebre affinché non vedessero la fine di quella battaglia già segnata.
Feranco, Bjorn e i pochi rimasti che non erano impegnati a tenere la linea di difesa, ora schierata come un muro per separare le due fazioni, gli furono subito accanto. Dall’alto dei tetti piovevano ancora le ultime frecce.
«E’ arrivato Dykee» disse il primo. «Van Saal è con lui e hanno una terza legione al seguito…»
Nella confusione del tempo che correva e rallentava, nel montare del dolore che lo aveva isolato da tutto non si era nemmeno accorto del suono di corno che aveva squarciato ogni rumore.
Bashaar afferrò Dolore e Vendetta e si alzò in piedi, scambiò un’occhiata con Feranco e tornò sul campo di battaglia.
Lo scontro sembrava essersi inverosimilmente fermato. I due schieramenti separati da una sottile striscia di terra rossa e cadaveri abbandonati.
Dykee era in testa a quelli che dovevano essere, a occhio, più di cento uomini, sommati agli altri mercenari ancora vivi ne facevano poco più di duecento. Bash si guardò rapidamente attorno, loro erano a stento una trentina.
Alle spalle di Dykee, e di molti dei suoi mercenari, al brigante parve di scorgere un ghignante Van Saal.
«Cosa ci resta, Bash?» domandò Bjorn, ma la risposta la conoscevano già tutti.
Bashaar ora guardava Dykee fisso in volto. «Morire a testa alta.»
Il capo di Feranco si mosse avanti e indietro in un continuo annuire. Le labbra strette, l’espressione feroce e la mano che si apriva e chiudeva attorno all’elsa con nervosismo.
«Tutti uniti, fino alla fine.»
«Fino alla fine» ripeté Bjorn.
«Fino alla fine» fece eco Roth alle loro spalle.
Shigeru si unì al coro. «Fino alla fine.»
E poi, uno dopo l’altro, gli ultimi briganti diedero voce alla loro fedeltà, che si chiuse con Bash.
«Fino alla fine» scandì quest'ultimo, lentamente. Abbassò lo sguardo al suolo e guardò le punte di Dolore e Vendetta graffiate di sangue, le ombre che non lo avevano mai abbandonato e lo avevano sempre difeso. Spostò lo sguardo e cercò qualcosa di preciso che trovò poco lontano dai suoi piedi. Lo stelo fragile di tarassaco ormai privo di fiore restava dritto in quell’inferno di cadaveri sventrati. Il verde delle foglie miracolosamente non era stato sporcato. Solo allora si concesse un piccolo sorriso di commiato, consapevole della presenza di Arya in quel filo d’erba. Era il suo modo di dirle addio, anche se avrebbe voluto avere più tempo e abbracciarla ancora una volta, abbracciare suo figlio e sussurrargli di crescere forte e giusto, coraggioso e onesto, di vegliare su sua madre e di non avere mai paura, perché non c’era nulla da temere davvero in quel mondo. Nemmeno la morte. Bashaar distolse lo sguardo e questo tornò subito all’immediatezza dell’azione, alla linea sottile che li separava dalla fine.
Al suo fianco, Feranco fece un passo avanti, assumendo una postura d’attacco. «E’ stato un onore combattere con te. Ci ritroveremo all’Infero.» Poi il suo grido di guerra caricò gli altri, come una reazione a catena. Il domino si mosse unito, compatto, per brillare un’ultima volta e abbracciare il proprio destino.
Trenta anime che non si sarebbero mai arrese corsero coperte da alcune frecce, spezzarono la linea di difesa.
Dykee non si prese nemmeno il disturbo di scendere dal cavallo. Sollevò una mano e le frecce del contrattacco calarono in una pioggia fitta facendo scomparire quelle avversarie quasi non fossero esistite. Trovarono pelle e corpi e lì si conficcarono facendo cadere i briganti uno dopo l’altro. Nel cranio, nella gola, nel petto.
Feranco crollò all’indietro e la giugulare zampillava senza sosta. Bjorn rimase immobile al suolo con ancora la spada stretta tra le dita e il viso premuto nella terra.
Bash si protesse con Vendetta dall’ampia lama, ma non fu abbastanza. Sentì la prima freccia trovare la coscia sinistra, la seconda il braccio destro già ferito, la terza il fianco, la quarta la spalla. Ma tutto quello che fecero fu di rallentarlo, non fermarlo. L’ostinazione l’aveva fatto vivere fino a quel momento e avrebbe continuato fino a che avesse avuto fiato nel petto.
La quinta freccia penetrò nell’addome e prima che le gambe fossero troppo pesanti per poterle muovere, Bashaar caricò le ultime forze nel braccio che reggeva Dolore, ma fu in grado solo di sollevarla oltre la testa prima che altre quattro frecce trovarono la via del suo corpo.
Si fermò di colpo. Il braccio piegato perse tutta la forza e lasciò cadere la lama che crollò a terra con un tonfo. Vendetta rimase abbandonata lungo il fianco, prima che anche quelle dita la lasciassero andare.
In piedi, dei suoi, era rimasto solo lui e Bash se ne rese conto in quel momento, quando, con la sorpresa negli occhi girò la testa da un lato e dall’altro. Era l’ultimo.
Cadde in ginocchio perché non sentiva più le gambe e le mani formicolavano. Le guardò e si guardò il torace dove le frecce erano conficcate con angolazioni asimmetriche per aggirare le placche di metallo; l’aveva sempre detto, lui, che non sarebbero mai riuscite a proteggerlo. Un filo di sangue scivolò dalla bocca e cadde, in goccia rossa, per bagnare la terra anche con la sua linfa vitale.
«Finalmente sei prostrato ai miei piedi.»
Lo sguardo mise a fuoco la punta di stivali lustri in pelle pregiata. Non avevano nemmeno una chiazza di sangue o di fango a insudiciarli. Le iridi verdi seguirono la linea delle scarpe fino al ginocchio e poi videro i tessuti ricamati con perizia, la seta e il velluto, la punta in argento del fodero sottile dove la spada giaceva a riposo, lungo la coscia; chissà se avrebbe mai visto del sangue vero, un giorno, a intaccarne la lama. Una mezza armatura finemente lavorata in oro, pettorali, spallacci e guanti. Il mantello oscillava alle spalle, appuntato attorno al collo da un fermo in preziosi.
«L’avessi fatto prima, chissà. Magari a quest’ora avresti indosso l’armatura della Guardia Cittadina e staresti lavorando per me.»
Bashaar lo irrise. Le labbra si piegarono al lato sinistro e uno sbuffo di risata gorgogliò impavido, fregandosene della condizione di svantaggio.
«…e poi venne lo sciacallo, a banchettare coi resti dell’altrui pasto.» Il brigante recitò il verso di una vecchia storia popolare che aveva sentito da sua madre quando era stato molto piccolo. «Per quanto mi riguarda, puoi continuare a baciarmi il culo, Van Saal. Non avrei lavorato per te nemmeno se fossi stato il Re in persona.» Lo scandì lentamente, parola per parola, la fatica di respirare e parlare contemporaneamente era quasi insostenibile, ma lui non gli avrebbe dato alcuna soddisfazione.
Il Delegato Dogale ghignò a sua volta. «Anche adesso, con la morte appollaiata sulla spalla, non perdi l’arroganza.»
«Rassegnati.»
Van Saal si avvicinò, guardandolo coi suoi occhi cattivi. Il tono più sottile, quasi sibilato. «No. Sei tu quello che deve rassegnarsi, Bashaar. Avete perso, mentre io… io e vinto e Ghoia tornerà a tremare sotto la mia mano.»
Si fissarono, entrambi con fermezza e intensità. Poi Van Saal si allontanò e tornò a ghignare.
«E adesso, come è giusto, vengo a prendermi il meritato premio per la mia lunga e paziente attesa.»
Bash non replicò, ma mantenne la testa alta e, negli occhi, la luce della sua forza sembrava dire: ‘Coraggio, allora. Uccidimi. Non ho paura né di morire né di te e non mi sentirai urlare, perché non esiste dolore capace di spezzarmi’.
Kahil, che si era unito agli altri soldati appena il gruppo di Dykee era arrivato, guardava la scena mantenendosi più lontano, nascosto tra altri mercenari. La fierezza del capo dei briganti era indiscutibile e, ancora, con più forza, gli fece pensare che non sarebbe dovuta finire in quel modo, che la vera giustizia sarebbe stata nell’inversione dei ruoli. Ma la storia avrebbe avuto un finale diverso. Vide Van Saal raccogliere la spada che Bashaar avrebbe voluto lanciare senza riuscirci. La sollevò e ne rigirò l’elsa preziosa per guardarla con attenzione. Carezzò il pomolo a goccia e l’impugnatura dagli intrecci di cuoio. La guardia aveva, nei lati ricurvi, la stessa lavorazione del pomolo.
«Ho sempre voluto vederle da vicino. Sono davvero pregiate come mi avevano raccontato.» Le soppesò, inclinando il capo in segno d’approvazione. «E pesanti. Sai, penso proprio che me ne conserverò una come trofeo. A dire il vero avrei voluto la tua testa appesa sul camino», ridacchiò, «ma ho deciso che lascerò il putridume alla terra e ai vermi. Spolperanno la tua merdosa carcassa in mio onore.»
Van Saal impugnò Dolore con entrambe le mani. La lama larga e piatta non era maneggevole per lui che, forse, a stento aveva impugnato una spada normale. Quella scimitarra era grande almeno il doppio.
La sollevò, torreggiante su Bashaar, la lama rivolta in basso e sulle labbra il sorriso trionfante. Si sarebbe aspettato di trovare almeno un po’ di paura nelle iridi verdi del brigante perché chiunque, chiunque, aveva terrore della morte quando ce l’aveva di fronte. Ma Bashaar Morisaki, figlio di Alevhar Morisaki, aveva smesso già da molto tempo di essere una persona qualunque. Mantenne la testa alta e gli occhi ben aperti, anzi, accennò addirittura un mezzo sorriso che sembrava urlare a Van Saal: ‘Io non ti temerò mai’.
Il Delegato Dogale caricò il fendente.
«Porta i miei saluti alla Dea Puttana!»
La lama calò e, irriconoscente a tutte le volte che era stato lui a impugnarla, trapassò le piastre d’acciaio e il petto di Bashaar emergendo dalla parte opposta, ma per Van Saal non fu sufficiente. Fece peso con tutto il suo corpo e si sentì soddisfatto solo quando Dolore si conficcò nel terreno, lasciando il brigante piegato all’indietro, gli occhi rivolti al cielo.
Non si levò un grido. Nemmeno un lamento. Bashaar serrò tutto nelle labbra e lo ingoiò assieme al sangue che ora gli inondava la gola. Un fiotto caldo venne espulso assieme al fiato.
Van Saal strinse la bocca in un’espressione contrariata. Quell’uomo aveva un’ostinazione che non era umana. Poi arretrò di un passo quando gli vide sollevare le mani. Non riusciva a credere che avesse ancora forza sufficiente per provare a estrarre Dolore dal petto.
Bash usò la lama per fare perno e sollevare appena il busto. L’acciaio sfregò le carni, ma ormai il dolore si stava già affievolendo, come tutte le sensazioni.
Riuscì a trovare Van Saal con gli occhi, anche se la posizione non gli permetteva di vederlo bene.
«Oggi… posso anche… morire, ma… un giorno… qualcuno… te la farà pagare… per tutto questo…» rantolò, come fosse stata una profezia, una sentenza. Le parole scivolarono fuori assieme al sangue.
Il Delegato tornò a farsi avanti, inferocito dal modo in cui l’altro si ostinava a non mostrare terrore, a non piegarsi, a non ammettere che era lui il migliore. Si appoggiò al pomolo e fece forza di nuovo; la lama sprofondò ancora un po’ nel terreno.
«E chi? Nessun brigante sopravvivrà. Vi farò passare tutti a fil di spada. Farò trovare le vostre donne e farò uccidere anche loro. E i vostri figli. Chiunque si metterà sulla mia strada troverà la morte.»
«… mio figlio… non… non morirà… perché lui… lui… è nato… libero…(1)» Bash sorrise sprezzante un’ultima volta, poi la forza si spense, le mani persero la presa sulla lama e ricaddero al suolo, così come la testa crollò all’indietro per guardare, di nuovo e per sempre, l’immenso cielo azzurro inondato dal sole.
Van Saal sputò ai suoi piedi con sdegno e stizza. «Hai voluto avere per forza l’ultima parola, vero, bastardo? Tsk. Tanto non cambierà il destino che ho in serbo per lui e per quella cagna di tua moglie!» Infastidito si chinò a raccogliere Vendetta, il trofeo che avrebbe portato con sé, e poi si volse facendo oscillare il mantello alle spalle. «Dobbiamo trovare le donne. Non possono essere andate troppo lontano con i mocciosi al seguito.» Si avvicinò a Dykee, ancora in sella al proprio cavallo.
Più distante, Kahil non riusciva a spostare lo sguardo dal corpo del brigante. La leggenda era davvero finita.
Poi, quel vibrare di foglie, quell’agitarsi di rami, quell’ululare di fronde li avvolse all’improvviso come il cappio d’un boia.
Le cavalcature s’inquietarono, indietreggiando per lo spavento; qualcuna si impennò. Dykee e i suoi si guardarono attorno, spaventati. Era come se la vegetazione stesse gridando e piangendo. Le chiome si agitavano furiose come similmente avveniva durante le violenti tempeste che a volte si abbattevano su quelle terre. Eppure la brezza che spirava non era niente più di un refolo piacevole.
«Deve essere quella strega!» gridò Van Saal, stringendosi la testa tra le mani perché l’urlo degli alberi era acuto e penetrava fin dentro il cervello.
Dykee non sapeva di cosa occuparsi per primo, se del cavallo che si stava imbizzarrendo o del rumore che gli stava perforando un timpano. Cercò di fare entrambe le cose insieme, tenendo le redini con una mano e turandosi un orecchio con l’altra.
«Devono essere qui vicino! Forse sulla montagna! Nelle Caverne di Beghnassar!»
«E allora che diavolo state aspettando?! Andate a stanare quelle puttane prima che riescano dove i loro mariti hanno fallito! Muovetevi!» Van Saal lo urlò così forte che alla fine si mise a tossire e Dykee non se lo fece ripetere. Con difficoltà ordinò agli uomini di mettersi in marcia e la colonna attraversò il villaggio diretta alla montagna.
Mentre la vita finiva di spegnersi dentro al suo corpo, Bash vide una foglia volare nel cielo, trascinata dal vento, e l’eco di grida acute che piano si affievolivano sempre di più.
Il suo ultimo pensiero fu solo per lei.
- Non piangere, Arya. -

«Arya, fermati!»
I tentativi di Laqua non ebbero effetto, Arya sembrava sorda a qualsiasi richiamo, forse perché non riusciva a sovrastare le sue stesse grida.
Alla brigantessa, così come a Maryam, non c’era voluto molto per capire cosa fosse accaduto. Prima Zedečka, poi Alevhar. Doveva essere stato il turno di Bashaar e tutto quel dolore che sgorgava sottoforma di energia attraverso il corpo dell’Erborista, inondava le piante che le erano connesse ed esplodeva in grida erano la conferma.
Arya aveva gli occhi stretti, come i pugni serrati lungo i fianchi. Il volto levato al cielo e i capelli che ondeggiavano talmente forte che sembrava fossero sul punto d’esserle strappati via dalla testa.
Saqua aveva impedito alle persone nelle caverne di uscire, perché in quel momento avvicinarsi all’Erborista era troppo pericoloso.
Rami e fronde cozzavano gli uni con le altre, spargendo foglie come fosse autunno inoltrato, quasi inverno.
«Basta così, maledizione! Rischi di ammazzarti!»
Ma ogni avvertimento le rimbalzava addosso, su quella corazza luminescente che la circondava.
Come potevano chiederle di fermarsi, quando l’aveva visto morire? Quando era stata troppo lontana per poterlo aiutare, proteggere, forse salvare. Come potevano credere che le importasse tutto il resto?
La loro gente era stata annientata, tutto quello che avevano costruito era andato distrutto. I loro mariti, fidanzati, figli, amici. E lei che l’aveva visto con i suoi occhi, che li aveva visti cadere uno dopo l’altro senza poter intervenire non era in grado di sopportare un simile peso. Non era in grado di sopportare che la sua famiglia fosse stata spezzata a metà.
Lei, che era sempre stata piena di speranza e fiducia, in quel momento avrebbe voluto distruggere il mondo.
Laqua tentò di avvicinarsi l’ennesima volta, ma dei rampicanti si levarono e schioccarono come fruste per tenerla alla larga. Maryam approfittò di questo per riuscire a entrare nello spazio che le piante tenevano sotto controllo e l’afferrò saldamente per le spalle.
Lei poteva comprendere il suo dolore di moglie e amante, ma doveva farle capire che non poteva permettergli di prevalere su tutto il resto. C’erano ancora donne e bambini che avevano bisogno della sua guida, come Bash aveva guidato i briganti. E tra questi bambini c’era anche il suo. Il dolore avrebbe dovuto aspettare.
«Arya! Arya, ascoltami!» Maryam la scosse con decisione. «Io lo so che è difficile, che… il pensiero di non averlo più accanto ti uccide, ma non è questo il tempo di lasciarsi morire! Hai capito?! Arya, guardami!»
Quelle parole sembrarono giungere finalmente all’Erborista, parvero scalfire il suo spazio ed entrare. Maryam le vide calare il capo e aprire gli occhi. Le iridi verdi erano smarrite e sofferenti.
«Non li possiamo più portare indietro, Arya… non possiamo… lasciamoli andare…»
Era così difficile. Scosse il capo. «Non ci riesco…»
«E invece dobbiamo… devi, Arya, perché la battaglia non è ancora finita e le altre hanno bisogno che tu dica loro cosa fare.»
Le parole di Maryam la portarono piano alla realtà, ricordandole che c’erano delle vite ancora in gioco, tra cui quella di suo figlio. Il suo piccolo Yuzo.
Arya inclinò leggermente il capo di lato, ingoiando parte di quelle lacrime che erano troppe e scorrevano sulla pelle e nella gola.
L’intensità della magia calò adagio fino a scomparire. Le iridi tornarono nocciola e le piante si staccarono da lei, ritirandosi da dove erano venute. Si accasciò al suolo ancora una volta e i capelli le ricaddero attorno, coprendole le spalle e le braccia.
Maryam si accasciò con lei, prendendole le mani e lasciando che le lacrime comparissero anche sul suo volto. «Sapevamo a cosa andavamo incontro quando abbiamo deciso di innamorarci di loro. E dobbiamo ritenerci fortunate del tempo che ci è stato concesso. Ma ora dobbiamo guardare avanti, ai nostri bambini, così come avrebbero fatto loro.» Accennò un sorriso, mentre Arya si passava il dorso della mano sul viso. «Queste sono frasi che avresti detto tu.»
«Lo so…»
«E allora ritrova le parole giuste. Le altre hanno bisogno di sentirsele dire da te. Sei la moglie di Bashaar; facci da guida.»
Arya si volse a cercare anche lo sguardo di Laqua e questa era in piedi, ritta e fiera. Accennò col capo per farle capire che Maryam aveva ragione e lei tornò a guardare la foresta oltre il precipizio.
Aveva la responsabilità di tutte loro, adesso, ma gli uomini di Van Saal erano ancora troppi.
«Stanno venendo qui» disse, la voce uscì stranamente ferma.
«Allora non c’è tempo da perdere!» Saqua aveva lasciato l’ingresso alla caverna per raggiungere la sorella. «Dobbiamo portare tutte via per-»
«Per andare dove?» La fermò Laqua. Aveva una concretezza maggiore della gemella, più idealista, e diede voce a quelli che erano anche i pensieri di Arya. «Non potremmo mai allontanarci abbastanza, Saqua. Noi siamo a piedi e con dei bambini. Il Valico di Sakarei è troppo impegnativo e il freddo di questo autunno troppo intenso. Non ce la faremmo, loro ci sarebbero addosso in poco tempo.»
«E allora cosa dovremmo fare?!»
«Combattere.» Arya si attirò lo sguardo sgomento di Saqua. L’Erborista non parlava mai di imbracciare le armi, fedele ai suoi principi più pacifici, ma con Van Saal era impossibile pensare di discutere. Non c’era altro da fare. «Combattere fino alla fine.»
«Ma… ma…»
Stavolta, Arya si volse a guardare Saqua dritta negli occhi e anche se la brigantessa vide lacrime scivolare lungo le guance, non poté non scorgere anche quella sicurezza di intenti.
«Se proprio dobbiamo morire, allora facciamolo con le armi in pugno e non come topi in gabbia in attesa di essere stanati.»
Saqua non seppe che rispondere. Chiuse le labbra e spostò altrove lo sguardo.
«Sono d’accordo.»
L’appoggio di Maryam era stato scontato fin da subito; fosse stato per lei, sarebbe rimasta ad affrontare gli uomini di Van Saal già al villaggio. Anche Laqua annuì con convinzione. Si volse in direzione della sorella e le poggiò una mano sulla spalla per attirarsi il suo sguardo.
«Non è una decisione facile, ma cerca di capire. La strada per il Valico è impervia e in salita. Persone come la vecchia Chieko non potrebbero mai farcela, saremmo costrette a lasciarle indietro. E io non abbandono i miei compagni.»
«Ma… i bambini… dovrebbero avere una possibilità…»
Laqua comprese la richiesta della gemella e si volse in direzione di Arya. «Quanti sono?»
«Poco più di due centinaia.»
Saqua si portò la mano al viso, scuotendo il capo. Anche se avessero provato a disperdersi nella foresta non avrebbero avuto scampo, non con così tanti sulle loro tracce. Non c’era alcuna possibilità, dovevano giocarsi tutto lì, su quella spianata. Erano loro l’ultima possibilità dei bambini.
«Armeremo tutte le donne in grado di impugnare una spada o un arco» decise Arya alzandosi in piedi. «Gli anziani resteranno più addentro alle caverne assieme ai piccoli. Chiuderò l’ingresso affinché non riescano ad entrarvi troppo facilmente.» Il suo sguardo si spostò alternativamente su tutte e tre. In quel momento comprese il motivo per cui Bash non aveva voluto animare false speranze, ma essere sincero su quello che li avrebbe attesi. «Non abbiamo possibilità, ma possiamo provare a crearcene una.»
Maryam sistemò meglio la fascia che le teneva indietro i folti capelli mossi, affinché non la intralciassero, piegando le labbra in una smorfia di chi era pronto alla vendetta. «Allora facciamolo.»
La decisione era stata presa, bisognava solo agire.
«Laqua, Saqua andate a prendere le armi e portatele fuori per distribuirle.» Arya rientrò, seguita da tutte e tre, nelle caverne.
Kima le fu subito vicino dando voce alle preoccupazioni delle donne che erano rimaste in attesa.
«Arya, che sta succedendo? Cos’erano quelle grida di prima?»
L’Erborista avanzò di qualche passo ancora affinché fosse più al centro per farsi udire da tutti. «Chiunque sia in grado di combattere vada fuori, riceverà un’arma da Laqua.» Si volse a Chieko, più vicina al fuoco. «Vecchia Chieko, tu e gli altri anziani resterete qui e vi occuperete dei bambini. Portateli all’interno delle caverne, mentre io chiuderò l’entrata.»
La donna annuì, sulla fronte le rughe si accentuarono mentre l’aggrottava, ma non perse tempo e si alzò, spostandosi con l’aiuto del bastone.
«Arya!» Kima tirò l’Erborista per un braccio. «Che significa tutto questo? Cosa-»
«Abbraccia i tuoi figli» la moglie di Bashaar la interruppe pur senza durezza. «E poi aspetta fuori.»
Solo allora, Kima sembrò comprendere e la lasciò andare. Stringendo le labbra per ricacciare indietro le lacrime annuì e si allontanò.
Consapevole di dover fare lo stesso, Arya si volse e scorse Haruko dove l’aveva lasciata. Sul suo viso l’ansia traspariva chiaramente.
«Sorella, cos’è tutta questa agitazione? Prima Saqua ha impedito ad alcune di noi di uscire.»
«Non c’è molto tempo, vieni con me.» Arya prese la borsa e fece cenno ad Haruko di seguirla. Aveva perlustrato a fondo quelle caverne, assieme a Feranco e Shigure, quando la comunità aveva iniziato ad allargarsi, e conosceva un anfratto piuttosto piccolo e nascosto dove sua sorella avrebbe potuto rimanere rintanata assieme a Yuzo. Aveva un enorme masso davanti, che ne rendeva difficoltoso l’ingresso, ma adatto per una persona minuta, proprio come Haruko.
«Perché dobbiamo nasconderci ancora più dentro? E perché le altre devono armarsi? Anche io posso armarmi! Sono in grado di combattere, potrei-»
«No» ferma, ma non severa, Arya poggiò la borsa all’interno dell’anfratto, stendendo al suolo una coperta, affinché Haruko stare più comoda. Poi uscì fuori e prese il piccolo Yuzo dalle braccia della sorella. «Tu devi restare qui, con Yuzo.»
«Ma potrebbero pensarci Chieko e gli altri-»
«No. Voglio che resti con te. Tieniti nascosta nell’ombra e non uscire mai, per nessun motivo al mondo. Non importa quello che potrai udire.» Arya la guardò con intensità per un lungo istante, prima di abbassare lo sguardo sul bambino. La pozione che gli aveva dato stava facendo perfettamente il suo dovere e Yuzo era così quieto, un delizioso frugoletto. Gli sorrise con tutto l’amore che aveva dentro di sé e che avrebbe voluto potesse accompagnarlo per il resto della sua vita.
Haruko balbettò con incertezza, quasi avesse paura di chiedere. «Che ne è di Bash e… e gli altri?»
Arya non distolse lo sguardo dal viso di suo figlio né mutò il sorriso che gli stava donando, così come non lasciò la sua manina. «E’ morto» soffiò via a mezza bocca. «E anche Alevhar e Zed. E Rus, Feranco, Bjorn. Sono morti tutti.» Stavolta si girò e non si sforzò di trattenere le lacrime, ma la voce non mutò in lamento. «Siamo rimaste solo noi, Haruko. E loro.» Accennò a Yuzo col capo, per indicare tutti i bambini.
Haruko cercò di trattenersi, arrivando persino a mordersi il labbro a sangue, ma i singhiozzi erano più forti di lei e cominciò a piangere.
Arya le passò la mano sui capelli per farle forza, anche se sapeva non essere sufficiente. «Per questo voi dovete restare qui, nascosti. Van Saal sta arrivando, ma noi non gli permetteremo di prendervi.»
«E-e… pe-perché non fuggiamo? Nascondiamoci nella foresta, non ci troveranno!»
L’Erborista sorrise, con la stessa dolcezza che aveva rivolto a suo figlio. «Fuggire? Non posso più. Né posso arrendermi e guardare come marciano sulle nostre vite e le calpestano. Non posso permettere che tutto sia vano. Io combatterò fino a che avrò vita per farlo.(2)»
Haruko riprese a singhiozzare, mentre lei salutava un’ultima volta il bambino. Adagio spostò un lembo della copertina dal viso per carezzargli la guancia. «Se le Dee vorranno, un giorno, molto lontano, saremo di nuovo uniti. Ma fino a quel momento, non dimenticare che la mamma e il papà ti ameranno per sempre e saranno sempre al tuo fianco, anche se non potrai vederci. Ti vogliamo bene, piccolo mio.» Con le labbra umide di lacrime gli baciò la fronte e poi lo consegnò alle braccia tremanti della zia, che non riusciva a smettere di singhiozzare. Arya baciò anche lei; prendendole il viso tra le mani cercò il suo sguardo affinché ascoltasse attentamente le ultime parole che aveva da dirle. «Qualunque cosa accada, non permettere mai che Yuzo finisca nelle mani di Van Saal. Promettimelo, Haruko.»
La ragazza annuì, ma non riuscì a risponderle, così Arya le sorrise ancora una volta.
«Voglio tanto bene anche a te, sorellina. Mi dispiace di averti coinvolto in tutto questo.»
Non attese che l’altra potesse replicare, la spinse a entrare nell’anfratto e restare acquattata nella parte più buia. Poi richiamò i suoi poteri e lunghi rampicanti emersero dalle fessure tra le rocce. Scivolarono sulla parete di pietra e calarono davanti l’apertura per coprirla e cercare di mimetizzarne la presenza.
Col cuore a pezzi arretrò d’un passo quando l’opera fu conclusa. La sua speranza era tutta lì e nell’occhio delle Dee che, dall’infinito, di sicuro continuavano a vegliare su di loro. Non le importava se sarebbe dovuta morire, ma pregò che un miracolo, uno qualunque, potesse risparmiare almeno loro.
«Proteggeteli» supplicò. Poi si volse e corse fuori dalla caverna per prepararsi a ricevere l’armata di Van Saal.

«Mi fanno ancora male le orecchie» Dykee arricciò le labbra. Le mani erano appoggiate sulla sommità della sella. La cavalcatura era ferma, così come la legione che aveva portato con sé. Si guardò attorno; le fronde parevano aver acquietato del tutto le grida di poco prima e al momento non sembravano voler riprendere. Meglio così.
Gli uomini che avevano mandato avanti tornarono indietro correndo lungo la strada poco agevole che portava alle caverne.
«Chi ha cercato di coprire le tracce è stato bravo, ma non abbastanza per me.» Müron era chiamato ‘il Segugio’ per un motivo ben preciso. «Ormai non hanno scampo, riuscirei a trovarle anche se si fossero separate e disperse nella boscaglia.»
«Molto bene.» Dykee approvò, lieto di poter mettere fine, entro quella giornata, all’intera faccenda. Spronò il cavallo con un leggero colpo sul fianco. «Andiamo.»
La colonna si incamminò tenendogli dietro.
Kahil pensò che quello non fosse affatto il suo giorno fortunato, per certi versi. Non sapeva come, ma era riuscito a salvarsi dalla carneficina al villaggio, era quindi stato convinto che, almeno per lui, fosse finita. Invece era stato scelto per seguire Dykee sulla montagna, a prendere le donne. E questo, forse, molto più di tutto, lo terrorizzava. Inorridiva all’idea di quello che avrebbe dovuto vedere. Gli era bastato il sangue sparso al villaggio, quello che restava sui suoi guanti e parte degli abiti. Anche per lui esisteva un limite a ciò che poteva sopportare e l’idea di veder sventrati delle donne e bambini indifesi gli faceva venire la nausea. Stavolta, però, non avrebbe potuto nascondersi: gli occhi di Dykee vedevano sempre tutto e tutti. Se avesse provato a defilarsi per poi comparire alla fine, non avrebbe avuto scampo: l’uomo di Van Saal l’avrebbe ucciso all’istante e senza nemmeno starci a pensare.
Spronò leggermente il cavallo ad aumentare il passo per tenere la salita e respirò a fondo.
La via che conduceva alle caverne non era particolarmente adatta per essere affrontata in sella, soprattutto se si era in molti. Era piuttosto stretta e tortuosa ma, in confronto a quelle che conducevano al Valico di Sakarei, era agevolissima.
La colonna avanzò piuttosto speditamente e il loro sguardo vagava alle fronde che costeggiavano la strada. Erano abbondanti, ricche, folte. Perfette per nascondere degli arcieri.
Kahil accennò un mezzo sorriso che non sapeva cosa avrebbe dovuto essere se mesto o sollevato nel pensare che, purtroppo, le donne dei briganti non avrebbero potuto sfruttare quel particolare vantaggio a loro favore. Sarebbe stata una facile carneficina.
Una freccia gli fischiò alle orecchie passando a un soffio dalla sua testa per andare a conficcarsi nell’occhio del mercenario che gli era dietro.
Kahil rimase impietrito sulla sella, colto alla sprovvista, mentre le frecce piovevano a più riprese, proprio da quelle fronde scure e perfette per nascondersi.
Aveva parlato troppo presto.
«Vogliono giocare duro?» Dykee estrasse la spada e Kahil ebbe la sensazione che stesse sorridendo sotto l’elmo. «Siete liberi di farne ciò che più preferite prima di ucciderle!» Quell’ordine era il lasciapassare perfetto per simili barbari.
Kahil pensò che sarebbe stato molto, molto peggio che al villaggio, ma cercò di cancellare le immagini oscene che gli erano balenate alla mente per tenersi piegato sul proprio cavallo e cercare di pararsi dalle frecce. Alcuni dei loro arcieri risposero al fuoco e si sentirono grida acute e rumori di fronde. Le prime vittime. Dei mercenari si inoltrarono nella foresta, ridendo in un modo che gli fece ghiacciare la schiena. Erano andati per mettere in pratica il ‘via libera’ concesso da Dykee, ma qualcosa andò storto perché invece di udire urla di donne stuprate o morenti, si librarono grida maschili, terrorizzate. Infine, il silenzio.
Anche le frecce smisero di arrivare su di loro.
Era divenuto tutto così innaturale, Kahil lo sentiva sotto la pelle, stava per succedere qualcosa.
I mercenari si guardavano attorno senza comprendere e anche Dykee si era azzittito, la spada levata a metà e l’aria che sembrava quasi vibrare per la tensione.
Alle proprie spalle, Kahil udì un rumore secco simile a quello dei dardi di cerbottana. Si volse, sempre tenendosi ben basso sul cavallo, e vide uno dei suoi compagni cadere di sella senza emettere nemmeno un fiato, colto di sorpresa.
«Ma che diavolo sta succedendo?!»
Dykee girò su sé stesso con tutta la cavalcatura, mentre altri rumori simili mandarono a terra cinque mercenari.
«Che roba è quella?!»
«Non lo so, signore!» rispose Lance e subito dopo cadde, colpito a morte anche lui.
Kahil lo guardò e scorse qualcosa di scuro spuntare dalla sua faccia martoriata. Erano centinaia, appuntiti. Spilli? Guardò meglio. Erano piccoli e ricurvi e… leggermente… legnosi?
«Sono rovi!» gridò Kantor, miracolosamente sopravvissuto all’assalto del villaggio.
«E’ quella fottuta Erborista!» Per Dykee fu chiaro, ma i suoi uomini continuavano a cadere, trafitti da un numero impossibile di spine. Essendo piccoli, si riuscivano a infilare ovunque e nemmeno chi aveva l’elmo era sicuro di potersi riparare gli occhi, poiché passavano attraverso le fessure delle celate.
«Dobbiamo andarcene da qui! Al galoppo!» L’uomo spronò il cavallo e questo partì come una saetta senza sapere precisamente cosa l’avrebbe aspettato più avanti, ma l’importante era riuscire a sfuggire a un pericolo alla volta. Così non vide nemmeno quando Laqua e Saqua spuntarono, asce alla mano, ai lati stretti della strada, che permetteva solo a due cavalli per volta di transitare appaiati. Le gemelle caricarono entrambi i fendenti con sincronismo perfetto e le lame delle bipenne tranciarono di netto le zampe anteriori delle prime cavalcature.
Dykee si vide proiettato in avanti di schianto e rovinò al suolo con tutto ciò che restava del suo cavallo. Coloro che venivano dietro non ebbero tempo di rallentare e qualcuno riuscì a saltarlo, ma non tutti. Dykee fu in grado di liberarsi e rotolare di lato quanto bastava per non venire schiacciato dagli zoccoli dei suoi stessi soldati.
Le brigantesse si gettarono nella mischia, menando fendenti a destra e a manca, falciando zampe e teste e gambe umane. Qualsiasi cosa si trovassero davanti finiva affettata senza troppi complimenti. La conformazione della strada le favorì, almeno per un po’, dando loro modo di affrontare pochi nemici per volta perché non riuscivano a passare.
Dykee si rialzò e cercò di attaccare una delle due alle spalle: per sua sfortuna, scelse Laqua.
La lama della spada venne fermata dalla lunga impugnatura dell’ascia che la brigantessa portò alle spalle, perpendicolare al fendente. Con un movimento veloce, incastrò la punta della spada sotto piegatura della lama dell’ascia e la sfruttò per rigirarsi e trovarsi così faccia a faccia con il nemico. Ruotò velocemente la testa e le lame, poste alla fine della lunga treccia in cui aveva legato i capelli, fecero volare via l’elmo di Dykee.
«Cagna!» ringhiò quest’ultimo liberando la spada e calando un nuovo affondo, ma Laqua non era un avversario normale. Colpì l’acciaio dall’alto con la punta dell’ascia, bloccandolo al suolo. Usò la propria arma come perno e sferrò un calcio volante al comandante delle guardie di Van Saal.
Un fiotto di sangue volò dalla bocca dell’uomo che cadde rovinosamente a terra. Da quella posizione avvantaggiata, Laqua ne approfittò. Caricò l’ascia, pronta ad affettarlo come fosse stato un quarto di bue, ma Dykee sfuggì all’ennesimo assalto, rotolando di lato. Sarebbe stato un futile tentativo volto più a divertire l’assassina che altro, se non fosse che le urla di Saqua distrassero la gemella.
Laqua la vide accerchiata dai soldati appiedati che seguivano quelli a cavallo, decisamente più liberi di muoversi. Erano in troppi, per lei, ed erano riusciti a disarmarla. Vide uno dei mercenari afferrarla per i capelli mentre altri due la gettavano al suolo. L’incubo di Bàkaras, degli stupri di gruppo di quando erano appena arrivate, tornò prepotente a riemergere da sotto la pelle di Laqua la quale gettò un grido che di umano non aveva più nulla. Era pronta ad avventarsi su quegli sciacalli, tranciare loro le palle con un colpo di scure, farli a pezzi, strappargli le budella dal ventre, ma Dykee intrecciò le gambe alle sue caviglie e la fermò, facendola cadere in avanti.
«Non intralciarmi!» ruggì la brigantessa e menò un fendente alla cieca. Dykee lo evitò, ma approfittò della posizione svantaggiata di Laqua per disarmarla con un colpo di spada, la prima che aveva afferrato dalle mani del cadavere più vicino.
Saqua continuava a gridare e Laqua ruggiva come una furia, agitava le mani al suolo per tentare di rialzarsi, ma senza risultato. Dykee le strattonò i capelli e le fu sopra, piantandole un ginocchio nella schiena e tirandole indietro la testa. Il freddo della lama sporca di sangue rappreso le scivolò sul collo e la voce affannata e divertita, quasi eccitata, di Dykee le arrivò all’orecchio.
«Goditi lo spettacolo, puttana!»
Laqua allungò una mano nel vuoto, il palmo spalancato, quasi avesse potuto afferrare sua sorella, ma qualcosa davvero arrivò in suo soccorso, all’improvviso.
Liane lunghe, intrecciate le une alle altre, vibrarono nell’aria e schioccarono sui mercenari come pesanti colpi di frusta. A decine, dal sottobosco, strisciarono al suolo e poi si sollevarono, simili a serpenti al comando del flauto dell’incantatore. Avvolsero colli, spezzarono braccia, sfregiarono volti. I soldati che avevano aggredito Saqua furono sbaragliati, sotto lo sguardo incredulo di Dykee.
Quest’ultimo si disinteressò alla prigioniera, troppo preso da quelle piante che si muovevano da sole e stavano fermando i suoi uomini. Si alzò in piedi gridando come un forsennato.
«E’ ancora quella bastarda della strega! Malediz -!»
La sagoma appuntita di un ramo gli entrò nel fianco, attraversandolo da parte a parte. Dykee rimase senza parole. Abbassò lo sguardo e lo fissò quasi con sorpresa. Poi venne sollevato e sballottato avanti e indietro come fosse stato una marionetta, prima di venire lanciato e crollare al suolo.
Laqua fu finalmente libera di alzarsi e correre da sua sorella. L’aveva vista rimanere immobile al suolo anche dopo che Arya l’aveva liberata dagli assalitori e si sentì in colpa. Avrebbe dovuto lasciarla libera di provare a fuggire e invece le sue maledette filippiche, i suoi fottuti paroloni da concreta del cazzo l’avevano tenuta legata a lei fino alla fine. Avrebbe dovuto… avrebbe dovuto dirle che ci avrebbe pensato lei a difendere le altre e che non doveva sentirsi per forza vincolata alle sue scelte solo perché erano sorelle. Avrebbe dovuto… dirle di provare a essere felice…
Era ormai a un passo, stavolta, allungando la mano, sarebbe riuscita a toccarla…
La spada le arrivò alle spalle, trafiggendole la schiena e lasciando intravvedere la punta rosso sangue tra i seni prosperi.
Laqua sentì il fiato sfuggirle via all’improvviso e il dolore bloccare i movimenti senza permetterle di concluderli. Il contatto col suolo le riecheggiò in tutto il corpo sommando dolore al dolore. Sollevò il capo dalla terra e vide Saqua così vicina, da poterla toccare…
Allungò una mano.
Poterla toccare… un’ultima volta…
Protese il braccio fino al limite.
Poterla… toccare…
La mano ricadde al suolo priva di vita. La spalla di Saqua ancora troppo lontana.
Distanti da loro, ma non abbastanza, Dykee aveva un mezzo sorriso soddisfatto sulle labbra, mentre sentiva gli occhi chiudersi. Aveva consumato le ultime energie per lanciare la spada che non aveva lasciato andare, nemmeno dopo che la strega lo aveva sballottato per bene. Già, la strega. Era lei quella che doveva assolutamente morire.
In un guizzo afferrò il piede di un mercenario che stava provando a scappare. Il malcapitato gridò per lo spavento di sentirsi bloccare e quando vide che era lui, e che era ancora vivo con il moncone di tronco ancora conficcato nel fianco, impallidì del tutto.
«…fuoco…» biascicò Dykee in un impasto di saliva e sangue. «…fuoco…»
«C-come?» Il mercenario s’arrischiò a chiedere. Era Kahil.
«…il… fuoco… date… fuoco… bruciate questa fottuta montagna!» Il mormorio divenne un ringhio insanguinato cui Kahil non seppe fare altro che inorridire e annuire velocemente più volte.
«Sì! Sì, signore! Il fuoco! Sì, signore!»
Quando vide che Dykee non aggiungeva altro, pur tenendolo ancora stretto, i denti di fuori e gli occhi puntati su di lui, fissi, il giovane capì che era morto.
«Per tutte le Dee! Dee Santissime!» Kahil si liberò con uno scoordinato strattone e inciampò nei suoi stessi piedi, ritrovandosi chiappe a terra. Strisciò via sulla terra sporca di sangue, fermandosi solo quando si sentì abbastanza distante dal cadavere, ma i suoi occhi continuavano a restargli attaccati addosso, quasi lo stessero rimproverando di essere ancora lì e non aver comunicato il suo ultimo ordine.
Il Segugio Müron gli si inginocchiò accanto, toccandogli la spalla e Kahil sobbalzò di nuovo, girandosi di scatto.
«E allora? Che ti ha detto?»
Quel ragazzino era molto più sveglio e reattivo di lui, lo sguardo acuto, il viso sottile. Kahil cercò di darsi un tono, voleva conservare almeno un po’ del proprio orgoglio in mezzo a tutto quell’orrore. Si alzò in piedi e puntò lo sguardo d’intorno, calandosi un’aria decisa che non lo rispecchiava affatto.
«Ha detto di dare fuoco a tutto.»

«No!» Arya lo gridò con tutta la rabbia che aveva in corpo. Agitò un pugno nell’aria e le piante che erano collegate a lei e le entravano nella carne si mossero al gesto. «No, dannazione!»
Maryam al suo fianco non sconvolse la propria espressione, ma seppe di dover apprendere l’ennesima cattiva notizia. «Le abbiamo perse?»
Arya girò il capo nella direzione opposta a quella della moglie di Zedečka. La donna aveva già capito. «Laqua e Saqua.»
Si era accorta che la seconda era morta subito dopo averla liberata dai suoi aggressori, il cuore della guerriera non aveva retto alla paura di ritrovarsi di nuovo vittima di abusi, come era avvenuto quando era a Bàkaras. Era paura che Arya aveva letto nei suoi occhi spalancati, quando l’aveva vista attraverso le foglie. Il suo supporto era arrivato troppo tardi.
Purtroppo, il suo limite era quello. Gli Erboristi non erano maghi d’attacco e l’impiego massiccio di poteri finalizzati al combattimento necessitava di lunghe pause per permettere loro di ricaricarsi. La pioggia di rovi l’aveva stancata e quando era stata in grado di poter attaccare di nuovo, Saqua era già morta.
Ma Laqua.
Laqua era convinta di averla salvata!
E quel bastardo di Dykee gliel’aveva portata via all’ultimo momento, sul filo della morte.
Si volse e vide Maryam stringere di più l’elsa della spada. «I soldati a cavallo sono stati annientati, ma quelli a piedi avanzano con maggiore facilità. A breve saranno in cima.»
«Allora vado a rallentarli» disse con decisione. Fece cenno alle ultime anime rimaste ancora in vita e si mosse.
«Cercherò di coprirti quanto più possibile.» Nonostante le sue forze stessero arrivando al limite e il tempo di cui aveva bisogno per riprendersi aumentava a ogni attacco, Arya le promise senza ombra di dubbio il suo sostegno.
Maryam si volse e sul viso tondo, segnato dal tempo, ma con la vitalità della giovinezza ancora brillante negli occhi, le sorrise. «Comunque vada, non ho alcun rimpianto.»
«Nemmeno io.»
Non rimpiangevano le loro scelte, non rimpiangevano di aver abbracciato una causa che non sarebbe mai finita bene, non rimpiangevano di aver scelto d’amare gli uomini più difficili che avessero mai incontrato. Non rimpiangevano d’aver deciso di combattere anche loro, fino alla fine.
Maryam annuì e sollevò fieramente la spada, incitando le compagne.
«Forza! Facciamogli vedere di che pasta sono fatte le signore dei briganti!»
Gli occhi di Arya la seguirono mentre il gruppo si allontanava per affrontare il proprio destino, fino a che non scomparve. Anche lei sorrideva, ma non le aveva rivelato del piano di Dykee di incendiare la foresta. Maryam avrebbe compreso la pericolosità e non le avrebbe permesso di usare ancora i suoi poteri, ma Arya non voleva tirarsi indietro. La sofferenza era di tutti, non aveva senso rifuggirla, non in quel momento, che aveva la responsabilità di proteggere la caverna. Si volse, alle spalle vide l’ingresso coperto da un intreccio di rampicanti. Per quanto stretto, non sarebbe stato sufficiente a fermarli, questo lo sapeva, poteva solo affidarsi alle Dee e sperare di annientarne ancora quanti più possibili.
Rafforzò il legame con le piante e chiuse gli occhi, concentrandosi solo sull’altra vista, quella che sfruttava la vegetazione della foresta. Era l’ultima possibilità che avevano, così attinse a piene mani dalle sue ultime scorte di energia, quelle vitali, affinché la separazione dalle piante non fosse più possibile. I suoi poteri sarebbero aumentati all’improvviso, come ultimo bagliore, e poi si sarebbero spenti per sempre. Se bisognava rischiare, allora tanto valeva giocarsi il tutto per tutto. Le piante entrarono in lei più in profondità, attingendo alla sua linfa come degli ‘upir(3) incontrollati, ma seppero ripagare l’estremo dono dandole il completo controllo sull’intera foresta.
Attraverso i migliaia di occhi delle foglie vide la carica portata avanti da Maryam scontrarsi duramente con gli uomini di Van Saal che apparvero visibilmente sorpresi da tanta ferocia, testardaggine e nessuna voglia di arrendersi. Erano stati convinti che avrebbero chiuso quella giornata rincorrendo sottane che scappavano dappertutto e invece, proprio quelle sottane, gli si erano riversate addosso gridando.
Le spade calarono, ma le mogli non erano abituate a combattere come i loro mariti e molti di quei fendenti, che in mano ai briganti avrebbero significato morte certa per gli avversari, andarono a vuoto.
Fu un gioco al massacro, Arya lo vide bene, attimo dopo attimo, piangendo a gridando dall’alto della spianata. Le fronde vennero sguinzagliate senza alcuna pietà, spazzando via i mercenari, e forse fu a causa della rabbia o dell’adrenalina che all’inizio nemmeno sentì il bruciare del fuoco.
L’ultimo ordine di Dykee era arrivato ad abbastanza orecchie perché cominciassero a muoversi e agire. I primi focolai si levarono molto indietro al tratto finale che portava sulla spianata. Le fiamme attecchirono facilmente sulle foglie che iniziavano a ingiallire, seccare, e strisciavano come serpenti, aggrappandosi al sottobosco, un pezzo dopo l’altro, come una malattia fulminante e incurabile. Le colonne di fumo divennero tante, sparse un po’ dappertutto e Arya percepì il dolore pungerle i piedi.
Ringhiò. Era sopportabile, poteva resistere.
Perpetrò il suo attacco senza fermarsi.
Poi il dolore salì lungo le gambe, superò le ginocchia, le avvolse le cosce.
Le grida furiose iniziarono a essere sofferenti. Era come se l’avessero messa su una pira e avessero dato fuoco, se chiudeva gli occhi avrebbe potuto facilmente immaginare le vampe che ascendevano, divorando ossigeno. Eppure, se qualcuno l’avesse osservata non sarebbe riuscito a scorgere nulla, tranne delle macchie scure. Come grossi ematomi iniziarono a comparire ed espandersi in forme ovali. Erano di colore bruno rossiccio. Bruciature.
La foresta si tramutò in un enorme rogo. Le fiamme si alzarono sopra le chiome degli alberi, agitandosi nel vento e danzando da fronda a fronda. Gli occhi di Arya si riempirono di rosso. Rosso del fuoco che percepiva attraverso la vegetazione ardente, rosso del sangue dei capillari spezzati che le soffocava la vista. Rosso ovunque e l’aria divenne rovente fuori di lei, dentro di lei.
I rampicanti aggrappati alla sua carne si rinsecchirono e il contatto venne reciso in maniera netta.
La vista, entrambi i tipi di vista, scomparve e Arya strozzò l’ultimo respiro a metà petto, crollando al suolo. I capelli biondi crearono come una corona d’oro bruciato attorno alla sua testa.
Per lei, i cui occhi erano sempre stati pieni della luce del sole e dei colori della natura, la morte si presentò nera. Non riuscì a vedere nemmeno il cielo per l’ultima volta.

Haruko non si mosse e a volte smise addirittura di respirare, riprendendo solo quando sentiva i polmoni farle male. Aveva paura di compiere qualsiasi rumore, così restava nascosta nell’ombra proprio come le aveva detto sua sorella. Yuzo stretto tra le braccia era un fagottino di stoffa di cui a stento si riusciva a scorgere il viso.
Di ciò che stava succedendo fuori non riusciva a carpire nulla se non silenzi spezzati da grida furiose e parole concitate. Nelle caverne erano stati spenti i fuochi e il buio era calato su tutti.
Sentiva il pianto dei bambini che cercavano le madri e le parole delle anziane che tentavano di rassicurarli, raccontando loro delle storie vecchissime che aveva sentito talmente tante volte da averle imparate a memoria.
Lei non faceva che dondolarsi avanti e indietro, un movimento che l’aiutava a placare la tensione, mentre le labbra continuavano a restare serrate. Volse lo sguardo su Yuzo, ma l’oscurità non le permetteva di scorgerne il viso.
All’ennesimo grido, stavolta più forte, quasi corale, Haruko alzò la testa, ma nulla mutò negli istanti successivi se non che un secondo grido, straziante, accompagnò il precedente. Le sembrò di riconoscere sua sorella in quella voce disperata, in quelle urla di… sì, erano di dolore.
Dondolandosi più velocemente, la ragazza strinse gli occhi obbligandosi a non piangere di nuovo, altrimenti avrebbe finito col fare troppo rumore. E lei non doveva fare rumore, Arya era stata chiara. Doveva restare nascosta e in silenzio.
L’urlo si protrasse a lungo, prima di spegnersi piano, dissolvendosi nel silenzio. E quel silenzio era irreale, diverso da quelli che l’avevano preceduto, tanto che addirittura le donne e i bambini presenti nella caverna si erano azzittiti. Era un silenzio di attesa. Sembrava dovesse arrivare qualcosa, o qualcuno, da un momento all’altro.
La calma.
E dopo la tempesta, violenta e distruttiva.
Delle voci si levarono all’improvviso. Voci maschili. E se qualche bambino si agitava convinto che fosse il padre, Haruko sapeva bene che non poteva essere, perché i morti non tornavano.
Così, si strinse quanto più possibile contro il muro e smise, di nuovo, di respirare.
Le voci si fecero più numerose, concitate. Qualcuno rideva sguaiatamente, altri bestemmiavano le Dee, infine si avventarono sul muro di rampicanti che Arya aveva eretto come ultima difesa all’ingresso delle Caverne di Beghnassar.
Per quanto Haruko non potesse vederli, non le ci volle molto per immaginare che lo sventrassero a colpi d’ascia, dopotutto erano solo piante e senza più la loro dominatrice, non erano una difesa così solida come era sembrata all’inizio.
Le risate esplosero e si fusero alle urla degli anziani che si videro in trappola e a quelli dei bambini che compresero non esserci nessun padre ad attenderli.
«Eccoli qui, i piccoli bastardi!» sbottò uno.
«Dove correte, topolini!» rise qualcun altro.
Il terzo diede il via alla caccia. «Infilziamoli come spiedi!»
Si scatenò il caos. Haruko rabbrividì e si immobilizzò, ghiacciata sul posto.
«Le Dee vi puniranno per quello che state facendo!» gridò la vecchia Chieko e furono le sue ultime parole, prima che un colpo di martello le fracassasse il cranio.
«Chiudi la fogna, dannata vecchiaccia!»
«Massacriamo questi vermi!»
«Preparate il fuoco!»
La luce divampò all’improvviso nel buio della caverna attraverso le vampe di un focolare. Haruko lo capì da come le ombre tremolavano, filtrando attraverso gli spazi liberi dei rampicanti che coprivano l’entrata al suo nascondiglio.
Le grida dei bambini morirono una ad una, mentre quelle delle giovinette rimbalzavano forti e sovrastavano i grugniti animaleschi dei mercenari che si buttavano su di loro, presi dall’urgenza di svuotarsi il sesso che la frenesia della battaglia aveva eccitato.
Haruko si fece sorda a tutto, quasi non fosse lì, quasi che, se ci avesse creduto abbastanza, fosse divenuta parte della pietra della caverna stessa. Annullarsi. Scomparire.
«Tu controlla da quella parte!» esclamò qualcuno e Haruko udì chiaramente dei passi avvicinarsi a lei, pericolosamente.
Il respiro le morì in gola quando avvertì una mano posarsi sulla roccia, scivolare sulla superficie e toccare le liane. Le vide venir mosse e poi aperte di scatto.
Nel momento in cui quel viso sconosciuto comparve e puntò lo sguardo su di lei, Haruko seppe di essere morta e Yuzo con lei.
Kahil, invece, seppe che avrebbe dovuto prendere una decisione.
Quando era entrato nella caverna e aveva visto lo scempio che aveva immaginato, ma che non avrebbe mai voluto vedere, la prima cosa che aveva pensato era stata quella di uscire e chiamarsi fuori da tutto. Poi però, Müron l’aveva spinto all’interno e insieme si erano messi a perlustrare una parte della grotta, quella più distante dal branco di animali che erano il resto dei mercenari.
«Tu controlla da quella parte!» gli aveva detto il Segugio e aveva battuto la parete palmo a palmo arrivando a quella grande roccia che sembrava coprire l’ingresso di qualcosa. Aveva toccato i rampicanti, cresciuti in maniera strana, e li aveva spostati.
Quello che aveva trovato l’aveva spaventato a morte: una ragazza con un bambino tra le braccia, anzi, un neonato.
Aveva scorto palesemente quanto fosse terrorizzata, di sicuro più di lui, e ora non sapeva che fare.
Lei non si mosse e lui… lui si guardò indietro. Vide le bestie gettare cadaveri in un immenso falò cantando e ridendo e qualcuno ci pisciò anche sopra, così, senza alcun rispetto. Non riusciva più a tollerare che i suoi occhi vedessero tutto quello. Prima al villaggio, poi nella salita alle caverne, poi sul pianale dove il corpo dell’Erborista gli aveva gelato il sangue nelle vene e poi quello. No, non poteva più sopportarlo.
D’un tratto, scorse Müron che si faceva vicino, seppur non lo stesse guardando. Doveva decidere in fretta. Se il Segugio avesse visto cosa aveva trovato, avrebbe preso la ragazza per i capelli e l’avrebbe tirata in mezzo al branco di mercenari, le avrebbe strappato il bambino dalle braccia e… e lui era pronto per macchiarsi le mani di quel sangue? Del sangue di… di… innocenti? Già gli pesava quello di Sertor – Oddee, quel nome non lo avrebbe mai più abbandonato –, ma seppur in esso riusciva a trovare la giustificazione che il ragazzo era stato un ‘guerriero’, loro due, invece, cos’erano?
No, non era pronto.
Con la mano che visibilmente gli tremava, si portò l’indice alle labbra facendo cenno alla ragazza di non fare il minimo rumore, di rimanere in silenzio e stare immobile. Poi richiuse la copertura di rampicanti, sistemandola meglio e si volse, giusto in tempo per fermare l’incedere di Müron.
«Non c’è niente qui. Meglio controllare altrove.»
Il Segugio si strinse nelle spalle e si girò, facendo riecheggiare la sua voce squillante per tutte le caverne.
«Le puttane e i mocciosi sono finiti, non ce ne sono altri!»
Kahil aveva appena salvato la vita a entrambi, ma ciò che era successo quel giorno non avrebbe mai potuto dimenticarlo.

Haruko continuò a non respirare, anche dopo che lo sconosciuto ebbe richiuso la tenda di liane. Non era in grado neppure di pensare e nemmeno ci si applicò più di tanto a capire perché l’avesse lasciata vivere.
Rimase lì, di nuovo nel buio, e poi il lezzo di bruciato arrivò fino a lei, assieme al fumo. Col terrore di iniziare a tossire e quindi essere scoperta, si coprì la bocca e il naso con uno scialle e tenne Yuzo stretto al petto, affinché non respirasse quell’odore nauseante di carne bruciata. Fuori dal nascondiglio, i mercenari ridevano ancora, qualcuno cantava divertito e poi la voce cupa di Van Saal riportò l’ordine. Lo sentì borbottare qualcosa e poi ridere e poi…
«Li avete ammazzati tutti? Siete sicuri? Anche il figlio di quel cane di Bashaar?»
Haruko rabbrividì. Qualcuno rispose.
«Sì, signore. Sono tutti morti. I Briganti di Ghoia non esistono più.»
A quelle parole le lacrime le salirono nuovamente agli occhi, ma le controllò ingoiandole a forza. Di fuori, Van Saal e i suoi continuarono a godere del loro trionfo e poi se ne andarono così come erano venuti. Le loro voci si affievolirono a poco a poco fino a scomparire, ma nemmeno quando il silenzio fu totale ebbe il coraggio di uscire.
Haruko attese, piangendo nel buio senza emettere un lamento, per ore. Ore nelle quali il sole compì il suo giro nel cielo e puntò l’orizzonte. Ore che posero fine all’effetto della pozione di Arya.
Fu al primo vagito di Yuzo che lei sollevò il capo e aprì gli occhi. Il terrore la colpì, convinta che potessero sentirla, che magari avessero lasciato qualcuno di guardia, ma poi si rese conto che sarebbe stato inutile, da parte loro. Per Van Saal non erano che un ricordo, ormai.
«Shhh! Buono piccolino, buono… va tutto bene… c’è la zia Haruko… c’è la zia…»
Yuzo agitò i pugnetti e i suoi lamenti erano sottili, sofferenti, come li ricordava prima che si scatenasse l’inferno.
Le lacrime scivolarono lungo le guance. «Lo so… lo so, ma non devi aver paura… tuo padre non ne aveva mai… non ne aveva mai…»
Haruko decise finalmente di alzarsi. Il lezzo era orribile e l’aria quasi irrespirabile, il bambino doveva lamentarsi anche per quello. Si caricò la borsa con tutte le sue cose sulla spalla e uscì dal nascondiglio.
Piano avanzò oltre la roccia e quando fu abbastanza vicina alle ultime braci strozzò un respiro a metà, stringendo il piccolo a sé. La devastazione era totale e quelle che un tempo erano state le Caverne di Beghnassar si erano trasformate in un mattatoio e in un forno. Corpi scempiati, bruciati; non era stato risparmiato nessuno. Abbandonato al suolo, riconobbe il bastone della vecchia Chieko, ma di lei non riuscì a scorgere il cadavere.
Un passo dopo l’altro, all’indietro, Haruko raggiunse l’uscita delle caverne e solo allora si accorse che il sole era già alle sue spalle, che si immergeva nelle montagne del Nohro.
Spaventata dalla vastità dell’esterno, la giovane si guardò attorno per esser sicura che non ci fosse nessuno. In quel momento scorse una figura abbandonata sul limitare del pianale. Piano le si avvicinò, cullando il piccolo Yuzo che continuava a piangere.
Quando scorse quei capelli biondi, lunghi, il cuore le saltò un battito.
Familiari. Fraterni.
Gli occhi ancora aperti, ma rossi del sangue che le era esploso dentro, non avevano più niente di sua sorella, così come la pelle, un tempo liscia e perfetta di un bel colore chiaro, ora aveva delle chiazze rossastre sparse ovunque. Radici morte erano abbandonate attorno a lei, staccate dal corpo.
Era stata così bella.
«Arya… Arya…» La chiamò un paio di volte, quasi avesse voluto svegliarla, ma quello era un sonno che non avrebbe mai conosciuto risveglio.
Yuzo pianse più forte e Haruko lo strinse forte.
«No… non è la mamma… la mamma aveva gli occhi belli… belli come i tuoi… non è la mamma…» gli raccontò, allontanandosi dal cadavere prima a passo lento, poi correndo senza volersi più fermare.
Haruko corse lungo la strada che portava al pianale senza nemmeno essere prudente, non le importava. Pianse mentre correva e attraversava l’ennesima distesa di cadaveri. A quello di Maryam erano stati tranciati i seni.
Haruko corse ancora, corse fino a gettarsi in ciò che rimaneva della boscaglia che, se non era ancora in fiamme, era un ammasso di nero e fumo. Corse lontano, lontano da tutto quel sangue e tutto quel dolore e tutti quei volti che lei aveva imparato a conoscere, aveva imparato a chiamare per nome e a considerare amici. Corse lontano dalla sua vita che non sarebbe mai più stata la stessa.
Si fermò solo quando fu sicura di non sentirne nemmeno l’odore, anche se il lezzo di bruciato era sempre lì, marchiato nelle narici, o forse si fermò solo perché le gambe non ce la facevano più.
Haruko scivolò lungo il tronco di un albero senza riuscire nemmeno a piangere; non aveva forze, consumate tutte nelle lacrime e nella corsa. Adesso c’era solo la foresta attorno a lei, quella che non era avvampata e si presentava improvvisamente buia perché il sole era calato e la sera era arrivata a coprire la fine di quel giorno da dimenticare, di quel giorno in cui la speranza li aveva abbandonati. Di quel giorno senza Dee.
Si chiese cosa avrebbe dovuto fare, cosa ne sarebbe stato di lei. Poi una risatina le ricordò di non essere da sola.
Tra le sue braccia, Yuzo aveva smesso di piangere e ora, nonostante il buio, riusciva a scorgere i suoi occhietti che la cercavano e le manine che afferravano i lembi sporchi della copertina, tirandoli, giocando.
Guardando lui si rese conto che non avrebbe mai potuto portarlo a Ghoia. Ora che era tornata sotto il controllo di Van Saal, quest’ultimo avrebbe di sicuro notato la presenza di un bambino presso la casa del Naturalista e se non lui direttamente, di sicuro i suoi uomini più attenti. Lei sarebbe potuta passare inosservata, perché nessuno sapeva che la figlia minore di Goro Maruyama era nel villaggio dei briganti, quel giorno. Ma Yuzo? Quanto avrebbero impiegato a capire che era il figlio di Arya? Il figlio di Bashaar?
Forse… avrebbe dovuto rischiare… e fingere che fosse suo, ormai era in età da marito…

«Qualunque cosa accada, non permettere mai che Yuzo finisca nelle mani di Van Saal. Promettimelo, Haruko.»

Le lacrime tornarono a riempirle gli occhi e scivolarle sulle guance.
«Non sei al sicuro, qui con noi, piccolino.»
Yuzo le afferrò un dito e rise deliziato, puro e innocente. Ignaro di tutto quello che era accaduto e che sarebbe accaduto da quel momento in avanti. Ignaro della terribile scelta che lei aveva preso, sperando con tutta sé stessa che fosse anche la più giusta.
Asciugandosi gli occhi col dorso della mano, Haruko controllò il cibo per il piccolo che aveva nella sacca e fece mente locale. Mizukoshi era la città più vicina che non rientrava nelle competenze di Van Saal, ma di un altro Delegato Dogale.
Con movimenti lenti diede da mangiare a Yuzo e questi succhiò avidamente dal biberon. Accennò un sorriso intenerito, mentre il macigno ancora le pesava sul cuore. Aspettò che fosse sazio, poi lo adagiò tra le foglie e accese un piccolissimo fuoco, necessario solo a farle un po’ di luce. Cambiò il bambino e spense subito le braci. Tirando un profondo sospiro si caricò di nuovo la borsa, prese in braccio il nipote e tornò a incamminarsi. Anche al buio, conosceva fin troppo bene quelle zone, e inoltre non poteva permettersi di perdere tempo. Avrebbe riposato quando sarebbe stata sicura che Yuzo non correva più alcun pericolo. Era l’ultima promessa che aveva fatto a sua sorella e l’avrebbe mantenuta fino alla fine.

In condizioni normali e con un cavallo, Mizukoshi distava meno di un giorno da Ghoia, ma siccome lei era fisicamente stremata, moralmente devastata e a piedi impiegò due giorni interi di cammino, senza fermarsi a dormire se non per un paio di ore. Ore che erano state costellate da incubi, flash violenti di immagini orribili e sangue. Aveva preferito restare sveglia piuttosto che rivivere quell’orrore.
Era giunta a Mizukoshi che il tramonto stava ormai calando, ma si era mantenuta sempre fuori dalla vista altrui. Con l’esperienza legata alla presenza di Van Saal e dei suoi uomini, Haruko aveva imparato come passare inosservata e Mizukoshi non era molto grande, vi erano numerose stradine strette e più nascoste perfette per muoversi nel centro abitato senza farsi vedere.
Trovò il posto che stava cercando e rimase appostata tra la boscaglia che separava l’orfanotrofio dalla foresta fitta in attesa del momento adatto.
L’oscurità arrivò con una lentezza dissacrante, quasi volesse beffarla e non arrivare affatto. Haruko attese che le luci venissero spente prima di muoversi. Furtiva, abbandonò il sottobosco e si avvicinò alla struttura circondata da una bella staccionata, verniciata di fresco. Arrivò davanti al cancelletto basso e lo aprì, ma non entrò subito. Prima abbassò lo sguardo su Yuzo che ora dormiva tranquillo.
«Noi non ci dimenticheremo mai di te. Sii felice.» Gli baciò la fronte e poi attraversò il vialetto che portava all’ingresso. Adagio appoggiò il fagottino proprio davanti la porta. Dalla sacca estrasse un foglietto di carta trovato abbandonato tra le strade di Mizukoshi quello stesso giorno. Mentre attendeva, vi aveva scarabocchiato il nome di Yuzo e la sua data di nascita, sfruttando l’inchiostro naturale di alcune bacche che crescevano lì intorno. Appoggiò il biglietto sul piccolo e arretrò d’un passo.
Si morse il labbro inferiore per trattenere un singhiozzo, mentre le lacrime erano tornate ancora, beffarde.
«Ti prego… non odiarmi per questo…»
Senza pensarci oltre diede una serie di colpi secchi che rimbombarono nel silenzio della notte e poi corse via, appostandosi dietro a un cespuglio rigoglioso da cui poter osservare senza essere vista.
Haruko sentì i vagiti di Yuzo, svegliato dai rumori, e si morse di nuovo il labbro, più forte, per impedirsi di correre da lui. L’attimo dopo una luce brillò da una delle finestre. Qualcuno doveva aver acceso una lampada e stava muovendosi per andare alla porta.
Udì i chiavistelli aprirsi e poi una figura comparire sulla soglia. Una donna.
«Oh, Cielo!» la sentì squittire. «Heidi! Heidiiiii!» La sconosciuta cadde in ginocchio, portandosi una mano al viso. Poggiò la lanterna al suolo e subito prese Yuzo tra le braccia, assieme al biglietto.
Da dentro la casa si sentì del trambusto e poi una voce più robusta, ma sempre di donna, che tuonò: «Wilhelmina! Vuoi svegliare tutti i bambini e anche il vicinato?! Che diavolo hai da urlare?!»
«Uno scompenso!» replicò la prima. «Corri, presto! Guarda cosa hanno lasciato le Dee davanti la nostra porta!»
«Le Dee?!» La seconda donna si affacciò. «Ossantissime Divine!»
«Non è un amore?»
Heidi si portò una mano alla fronte. «In nome del cielo, ma chi può averlo lasciato qui?!»
«Forse la madre non poteva occuparsene… è così piccolino.»
«Ossanto cielo. Santo, santo cielo.» Per quanto ad avere uno scompenso fosse stata l’altra, Hiedi sembrava più agitata. «Dovremo trovargli un nome…»
«Yuzo.» Wilhelmina mostrò alla donna il foglio scarabocchiato e Haruko sentì il cuore batterle più forte. «Si chiama Yuzo.»
Heidi sospirò ancora e fece cenno a Wilhelmina di rientrare poiché il freddo autunnale seguitava a farsi più insidioso con l’andare dei giorni.
In un attimo, la porta venne richiusa alle loro spalle.
Solo allora, con la certezza di aver mantenuto la promessa e di sapere Yuzo finalmente al sicuro, lontano da Van Saal, Haruko si concesse di piangere senza più alcun freno.
«Addio.»
La sua figura tornò a essere ombra nell’oscurità della foresta.

 

GlobusDiem ex Dei

 


[1], [2]: sono frasi che compaiono rispettivamente nel Capitolo 12: I Briganti di Ghoia (parte VI) e Capitolo 12: I Briganti di Ghoia (parte II) attraverso i ricordi dello stesso Van Saal e di Haruko.

[3]’UPIR: creature del folklore nominate nel Capitolo 13: Febbre bassa, di natura vampirica.


Curiosità: avete presente le lame attaccate alla treccia di Laqua? Ecco, quelle mi sono state ispirate dal film "Banlieu 13 - Ultimatum". Le teneva una tizia ed erano così trash che non potevo non utilizzarle anche io XD TROLOL E comunque, "Banlieu 13" è adorabile in tutta la sua trashezza, che non potete perdervelo. :333. (video della famosa treccia: *clicca qui*).


 

Nota Finale: si conclude così – come voi già sapevate, avendo letto la storia principale – la leggenda dei Briganti di Ghoia. Questo è stato sicuramente il ‘Fragment’ più lungo dell’intera raccolta, ma non poteva essere altrimenti. Come detto nel capitolo precedente: le battaglie, quando devono essere sviluppate su carta, perdono l’immediatezza filmica della scena. E diventano lunghe uno sproloquio XD.
Il prossimo aggiornamento sarà l’ultimo tutto dedicato ai genitori di Mamoru. XD Devo dire che questi frammenti non avranno affatto una chiusura allegra. XDDD Non ci avevo fatto caso, me ne sono accorta solo adesso!!!
La storia dei Briganti di Ghoia avrebbe meritato di essere raccontata a parte, in una fic molto più lunga e articolata ma… non ho il tempo per dedicarmi a lei e la mia ispirazione è concentrata prima sul portare a termine progetti che ritengo essere più importanti per me. :3

Ah! Per chi se lo chiedesse: il latinomaccheronico di "Diem ex Dei" non ha alcun senso XD, sono parole messe un po' a cazzo, declinate male, che vorrebbero avere un loro significato ma che, ahimé, non ne hanno alcuno. A meno che non proviate a tradurlo maccheronicamente, si intende! XD. Mi piaceva la canzone e l'ho usata perché era 'epica' e ricreava l'atmosfera perfetta per questo capitolo. :3

Termino col ringraziarvi per continuare a seguire questa saga e vi rimando al prossimo e ultimo aggiornamento di “Elementia: Fragments”. :3

   
 
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