Il Parco
Non era né troppo vicino alla strada principale, né troppo fuori mano, cosicché non c’era davvero nessuno che non potesse raggiungerlo in tutta tranquillità e con relativa facilità. Per questo dicevano il vero quelli che affermavano che chi sosteneva di non esserci mai stato mentiva. Certo, poteva anche darsi che ci fosse stato senza però ricordarsene, probabilmente non era stata un’esperienza degna di particolare nota per un bambino, e magari i genitori non avevano particolare piacere nel sapere il proprio figlio a giocare in quel parco. Tuttavia almeno una volta aveva attraversato il cancello del Parco, se ne poteva essere sicuri. Niente e nessuno nel quartiere poteva prescindere da quel luogo.
È però necessario precisare che quanto detto valeva solo per
gli abitanti del quartiere.
Se infatti si fosse interrogato riguardo l’esistenza
del Parco qualcuno che non capitava
spesso da quelle parti, con tutta probabilità quello avrebbe assunto
l’espressione di chi sente per la prima volta un toponimo. Avrebbe domandato di
cosa si stesse parlando, perché lui di quel parco proprio non aveva mai sentito
parlare. E ragionevolmente, perché raggiungere quel parco sarebbe stato
difficilissimo e piuttosto laborioso per chiunque non conoscesse la zona.
Secondo molti però, era strano che molta gente non ne avesse
mai neppure sentito citare il nome, difatti il
Parco costeggiava un tratto di un’importante via, molto trafficata. Non
si trattava, ovviamente, di un’autostrada. Gli
abitanti di quel quartiere non avrebbero mai e poi mai permesso la
devastazione della loro quiescente campagna, e un esempio ne era stata
l’imponente protesta che si era levata riguardo la costruzione di una linea
ferroviaria ad alta velocità che avrebbe dovuto attraversare proprio le loro amate
vie. In quell’occasione si erano creati veri e propri movimenti di protesta,
secondo alcuni si arrivò alla disobbedienza pacifica. Molta gente, sentendo
queste storie proprio non riusciva ad immaginarsi il fornaio o il lattaio – a
seconda delle versioni narrate- distesi sull’asfalto della strada principale,
coperti con cartelli recanti slogan di resistenza pacifica. C’era tuttavia chi
vi riusciva benissimo, e anzi, fomentava queste versioni con proprie brillanti
invenzioni. Ed ecco che apparivano dal nulla la protezione civile, la polizia
di stato, strane organizzazioni no global e animaliste che prendevano parte
alla protesta. Non sarebbe stato assolutamente esagerato affermare che secondo
quei racconti nelle strade del piccolo quartiere aveva avuto luogo una
battaglia campale di dimensioni ragguardevoli.
In ogni caso, la strada che affiancava e lambiva il parco
non era affatto un’autostrada.
A dire il vero, sembrava che fosse stata costruita in tempi
piuttosto antichi, pareva addirittura risalire al milleottocento, e a quanto
diceva chi se ne intendeva – chi se ne intendeva?- doveva costituire il primo
valico dell’Appennino veramente accessibile e praticabile. Nel racconto delle
origini della strada veniva anche nominata la ferrovia Leopolda, ma non è affatto
difficile comprendere come le informazioni in questo frangente fossero quanto
mai sommarie e confuse.
Tutto sommato, era una strada a tratti piuttosto sconnessa,
ma ancora molto praticata – anche perché l’unica- per raggiungere le immediate
vicinanze del quartiere, i graziosi paesini che guaivano sulle colline
limitrofe, e in ultima analisi anche lo stesso centro di Fiesole.
Per questo era abbastanza singolare che nessuno dei non
abitanti nel quartiere, passando per quella strada si fosse accorto dell’esistenza
di un parco. Un parco piuttosto frequentato anche, in ogni epoca. Continuavano
incessantemente a ripetere che era strano, a tratti inspiegabile.
Tuttavia, la cosa che più bruciava sulla pelle degli anziani
guardiani del parco era la cecità del comune della città quando si trattava di
gettare gli occhi sul quartiere e sul parco.
Parlare di finanziamenti per il mantenimento delle
attrezzature o semplicemente dell’erba, era qualcosa di semplicemente
impensabile, a volte causa di ilarità nei più acuti.
Tuttavia l’opinione pubblica del quartiere si era dovuta
ricredere quando un primo grande finanziamento fece capolino. Ma non suscitò la
gioia sperata. Infatti altro non era che la contropartita per il ripristino
dell’antica linea ferroviaria che tagliava originariamente a metà il parco.
C’è da dire che un tempo di trattava nel complesso di un
possedimento agricolo – da qui le tracce di vitigni tra i ciuffi d’erba-. Vi
era – e vi è ancora- la villa dei padroni situata in alto, nella posizione più
adatta per sovrastare i campi. Trecento metri di campi più in basso, rasente ai
confini ultimi del parco, vi era l’abitazione dei contadini che si occupavano
del parco.
Si trattava di una casa colonica costruita con mattoni
irregolari che le conferivano un indicibile fascino, accompagnato
inevitabilmente da un senso di stabilità precaria.
E infatti una volta la casa – ormai trasformata in una sorta di circolo ricreativo, noto
perlopiù con il nome di “casa dei vecchietti”- ebbe un crollo. Non ricordo
quale parte franò, ma so per certo che prima che iniziassero i lavori passarono
un paio d’anni. Fu probabilmente ai tempi del famoso finanziamento che poterono
essere avviati. Il risultato finale fu che la casa dei vecchietti cambiò
aspetto, colore e nome. Diventò un centro sociale per i ragazzi del quartiere.
Infatti fu nuovamente popolato dai vecchi. Questo perché nel particolarissimo
equilibrio rionale erano proprio i vecchi ad essere ragazzi. Ogni volta che
veniva proposta un’iniziativa per i ragazzi, ogni volta che veniva offerto uno
spazio, erano i vecchi che ne prendevano invariabilmente possesso. Per i
ragazzi c’era il centro, cosa volevano che fossero dieci minuti di autobus?
Io volevo che fossero tali, ma l’azienda che si occupava
della mobilità cittadina non la pensava come me.
In fondo nessuno si lamentò mai, però.
Tra vecchi, finanziamenti, gente che non conosceva il parco
e stranezze, gli anni passavano puntuali. Non si poteva neppure dire che il
tempo fosse crudele, a conti fatti non ci stava rubando nulla. Ogni anno si
prendeva ciò che gli spettava. E poteva essere un vecchio che moriva, un albero
che veniva stroncato dal vento… ma anche una generazione che non usciva
definitivamente dal cancello del Parco, per poi farvi ritorno dopo qualche
anno, per scherzo.
Difficile dire da chi fosse frequentato quel luogo, per
diverse ragioni.
La prima e più evidente, è il fatto che l’utenza fosse
invero variegata.
La seconda, è che negli anni la tipologia degli avventori
del parco andò modificandosi, rivoluzionando i precedenti canoni.
Credo che in ogni caso esistesse un equilibrio, un tempo.
Quando ci andavo anche io, ricordo che noi bambini sentivamo
tutti l’influenza dei mondiali di calcio che bussavano alla porta. Vidi
un’intera generazione di padri e figli dedicare le domeniche a partite
infurianti, vestendo per un attimo le vesti di calciatori esperti o di
allenatori che hanno visto i sette mari del pallone.
Fu proprio in quel parco che molti bambini si resero conto
di essere nella stessa classe, li potevi vedere scrutarsi con occhi increduli e
erompere in striduli “ Ehi, ma tu sei nella mia classe!”. Da lì iniziavano a
rendersi conto di come non fossero semplici nomi su un registro, iniziavano a
ottenere il controllo della propria volontà sociale, cominciavano a scegliere
con chi giocare, senza curarsi – sulle prime- di eventuali invidie e gelosie
che si potevano venire a creare.
Quel Parco vide quella generazione gioire e piangere di
fronte ai trionfi e alle disfatte della nazionale italiana, un centinaio di
bambini si sentì totalmente dipendente da un goal, come se la vittoria del
campionato del mondo rappresentasse l’unico modo per raggiungere la salvezza.
Ma come potevamo essere biasimati? Non eravamo forse di fronte al primo grande
obbiettivo della nostra vita? Non era forse un modo come un altro per iniziare
a mostrare le nostre mire? Forse sognavamo e basta, ma sono convinto che ci
abbia fatto bene.
Se foste andati a chiedere ad uno qualunque di noi cosa
avesse voluto fare da grande, vi sareste resi conto che i modelli eroici dei
bambini stavano cambiando. Volevamo tutti diventare calciatori.
E oggi la stessa idea di deprime.
Ricordo che quella generazione non si preoccupava
assolutamente degli alberi e dell’erba, non ci chiedevamo quale tipo di albero fosse
quello sulla destra, e quale quello dritto davanti a noi. Se aveva un altro
albero vicino abbastanza da poter costituire una porta da calcio, allora andava
benissimo e tentavamo ad ogni costo di difenderlo. Sono sicuro che molti ancora
si ricordano di quelle corse folli alla conquista dell’albero più adatto, che
si trovava poco prima della zona dedicata ai cani.
Molti di noi avevano una paura pazzesca di quella zona,
poiché all’epoca non era separata dalla nostra tramite la ferrovia, bensì era
direttamente contigua, comunicante.
Nessuno si sarebbe mai sognato di andare a recuperare un
pallone finito tra le grinfie dei cani e dei loro padroni. Ridendo e
scherzando, qualcuno talvolta finì per essere morso da uno di quegli animali.
Il Parco era anche molto gettonato per lo svolgimento delle
feste di compleanno, specialmente nel periodo estivo. Questa preferenza era
dovuta al fatto che proprio in quel periodo dell’anno ci si poteva schizzare
tranquillamente senza rischiare di esporsi troppo al freddo.
Il tutto avveniva sotto gli occhi furibondi dei vecchietti,
i guardiani. Ce n’erano un paio che tuttavia ci incutevano davvero paura,
soprattutto a causa delle innumerabili leggende che giravano sul loro conto.
Non ne ricordo neanche una.
Si dice che i luoghi cambiano, e che le persone finiscano
per non sentirsi a loro agio neppure a casa propria.
Ce ne andammo. Un bel giorno fu l’ultimo pomeriggio che
passammo giocando a pallone nel giardino. Non ci pensai sul momento, mi
sembrava di non averne più il tempo. Ci
sembrava di non averne più il tempo.
Ma non ci tornammo.
Ma vidi tanti ragazzini entrarci per la prima volta, in età
sempre più avanzata.
L’ultima volta che ci andai ci vidi solamente ragazzini
delle scuole medie. Piccoli, molto piccoli, tanto che se non mi avessero detto
altrimenti, avrei pensato fossero stati bambini delle scuole elementari.
Mi ricordai improvvisamente delle feste di fine anno delle
elementari, che avevano spesso celebrato proprio lì. Ricordai l’eccitazione,
che da allora abbino inconsapevolmente con i tramonti estivi, per l’appunto
visibili nell’ora in cui la festa era solita iniziare. Il riso freddo, ognuno
che portava qualcosa da mangiare o da bere. Ma in fondo noi non mangiavamo
affatto, dopo un paio di patatine ce ne andavamo a giocare a pallone, mentre le
mamme ci urlavano di prendere le felpe. Credo che solo gli alberi le
sentissero.
Adesso per fare le porte da calcio usano bidoni della
spazzatura.
Ma non credo che i luoghi siano davvero cambiati.
Segno che in fondo, qualche volta, siamo stati noi che –
lasciato qualcosa di nostro- ci siamo lentamente evoluti.
E sbaglia chi rinnega quei giorni, sbaglia di grosso.
Se non avessimo imparato a correre più veloci che potevamo
alla conquista di quell’albero, non so se saremmo dove siamo adesso.
Ma come sempre, queste sono precisazioni che ci piace dare
alla storia di ogni cosa.