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Autore: BeautifulMessInside    08/09/2012    0 recensioni
"Eden Spencer rapinava banche. E non solo. O almeno è quello che faceva prima di essere presa. Oggi collabora con l'FBI. Ma c'è stato un tempo in cui Eden era solo una ragazzina di buona famiglia, figlia di una ricca imprenditrice dell'Upper West Side di Manhattan... Poi un giorno si era innamorata. Della persona sbagliata. Che era anche la persona giusta." Per tutti gli altri Eden è morta quel giorno. Oggi, quasi cinque anni dopo, è costretta a tornare allo scoperto per aiutare l'FBI ad arrestare quelli che una volta erano i suoi amici. Tra verità, bugie e segreti nascosti... In un continuo conflitto tra amore ed odio... Al confine tra la redenzione e la dannazione... Eden scoprirà che non è così semplice spezzare un patto stretto col proprio diavolo personale. - trama, wallpaper e spiegazioni nel capitolo -
Genere: Romantico, Drammatico, Azione | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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capitolo244

CAPITOLO 24

I DARE YOU… 

TO LET ME BE YOUR ONE AND ONLY

 

“Fammi vedere.”

Payne si avvicinò lentamente, Blake se ne stava a faccia bassa, seduta e silenziosa come al solito.

“Non preoccuparti.” Rispose cercando di evitare le mani dell’altra ragazza, ma Payne le sollevò il viso comunque, dando una nuova occhiata a quel labbro gonfio.

“Almeno la ferita non sanguina più.”

Sospirò sfiorando appena il taglio per non farle male. Blake sollevò le spalle

“Sparirà tra un paio di giorni.”

Non dava segni di cedimento, ma le mani le tremavano ancora. Non riusciva a sopportare di non aver potuto difendersi. Se gli agenti fossero stati solamente due li avrebbe fatti pentire.. Se solo McPhee fosse stato da solo.. Lo avrebbe fatto a pezzi.

 

-----

 

“Dimmi dov’è. Adesso.”

Blake non lo guardò nemmeno. Aveva fatto il naso all’odore stucchevole dei sigari e quasi riusciva ad ignorare il rumore cadenzato dei passi di McPhee intorno a lei.

Non si era ancora stufato di farle la stessa richiesta?

Non gli avrebbe risposto. Mai. Nemmeno per dirgli che non ne aveva idea.

Lui sospirò schiarendosi la voce. Passò i palmi sulla giacca, all’altezza del petto, poi rivolse un cenno al secondino sulla porta. Nemmeno trenta secondi e altri due agenti si unirono alla compagnia.

“Allora Signorina Miller…”

Una lunga pausa per pregustare la vittoria

“…Visto che con lei le buone maniere non funzionano, faremo a modo suo.”

Un solo passo per immobilizzarle le spalle con una stretta decisa. Di nuovo le sue mani addosso. Blake deglutì resistendo al primo istinto di mordere con tutte le forze una di quelle mani.

“Ti decidi a parlare?”

Le aveva sussurrato all’orecchio col tono di un amante indesiderato. Lei si era voltata trovandoselo a pochi centimetri di distanza. Il suo respiro di fumo e caffè dritto nelle narici. Non riuscì più a contenersi e d’istinto gli sputò dritto in viso, con tutto lo sdegno di cui era capace.

McPhee chiuse gli occhi in risposta, stringendo le labbra in una linea sottile mentre si puliva col dorso della mano. Ciò che avvenne dopo durò un secondo esatto.

Con le mani che le teneva addosso la spinse forte in avanti, facendole sbattere il viso con violenza contro il tavolo della sala. Il dolore che la colpì fu talmente forte che Blake credette in un attimo di aver perso tutti i denti. In bocca il sapore ferruginoso del sangue e le sue mani che non riuscivano in alcun modo a coprire tutti i punti che facevano male.

Tentò di alzarsi per ricambiare, ma gli altri agenti le furono addosso immediatamente, bloccandole le braccia in una presa sicura. Blake continuò a scalciare, ma dovette ben presto capire che non ne sarebbe uscita vincitrice.

McPhee le afferrò il viso dolorante e la costrinse a guardarlo dritto in viso

“Parla puttana!”

Blake stette zitta di nuovo, mentre anche la mano del comandante si imbrattava del suo sangue scuro. Era davvero arrivato al limite. La presa stretta alla mandibola non si allentò di un millimetro, intanto l’altro braccio si sollevò pronto a scagliare un colpo deciso su quel che restava del suo zigomo sinistro.

Blake chiuse gli occhi tendendo tutti i muscoli, ma quel pugno non arrivò.

“Comandante?”

L’agente in completo blu appena entrato rimase con un piede sulla soglia

“Ma che diavolo…?”

McPhee mollò la presa sbuffando come un toro in un’arena. Cercò di riprendere immediatamente il suo contegno.

“Andate. Riportatela in cella.”

Ordinò con sdegno e gli altri due la trascinarono via di peso come fosse un sacco di biancheria sporca.

 

-----

 

“Sei sicura di stare bene?”

“Sì Payne. Sto bene.”

Il tono duro, al limite dell’infastidito, convinse l’altra a cambiare discorso. Sospirò e si avvicinò alle sbarre poggiando la fronte sul metallo gelido.

“Chissà dove hanno portato Tyler.”

Blake sbuffò

“Andiamo Payne, dove vuoi che sia? Chiuso in una cella, esattamente come noi.”

“E se gli avessero fatto del male?”

Lei scosse la testa

“Se avesse già parlato di certo non se la sarebbero presa con me.”

Payne arricciò le labbra rivolgendo lo sguardo alla compagna di prigione

“Vuoi sapere la verità? Nemmeno mi importa che l’FBI scopra tutto… Era ora che questa storia finisse.”

“Ma dici sul serio?!”

“Siamo dei criminali Blake. Questo ci spetta.”

Lei sorrise appena

“Sei un’ingenua Payne… Davis non ci lascerà mai marcire qui.”

“Cosa pensi che possa fare?”

“Non lo so ancora, ma conosco mio fratello. Ci tirerà fuori in un modo o nell’altro.”

Payne non rispose, riprese a guardare tra le sbarre. Non era sicura di quel che sarebbe successo, ma il pensiero che più le premeva è che forse non avrebbe rivisto Tyler.. Non prima di una ventina d’anni… E se poi fosse stato troppo tardi per loro?

La sua mente ottimista, frizzante e squillante anche dentro la galera, non respinse però un pensiero naif... Una volta uscita avrebbe di certo trovato un regista pronto ad ingaggiarla per interpretare un film sulla sua vita avventurosa… Anzi, meglio ancora, vent’anni sarebbero di certo bastati a Tyler per scriverci su un romanzo e poi da quello avrebbero tratto il copione per il suo film.

Blake la riportò alla realtà raggiungendola alla grata, guardò con la coda dell’occhio da un lato e dall’altro

“Davis ci tirerà fuori.”

 

-----

 

Sulla branda impolverata Tyler se ne stava a fissare il soffitto. Aveva sempre creduto che quelli del Federal Bureau of Investigation fossero raffinati e professionali. Aveva dovuto ricredersi.

Dopo l’ennesimo inutile interrogatorio era stato riportato in cella, solo e ricoperto dal silenzio.

Mentre la noia iniziava a chiudergli le palpebre sentì il fischio pesante della porta automatica e si tirò su. Un secondino in divisa nera avanzava lento trascinando con sé una specie di carrello. Quando fu vicino abbastanza riuscì a scorgere una pila di libri.

Però! Almeno pensano all’intrattenimento!

Il tizio arrivò da lui con l’aria scocciata di chi vorrebbe essere da tutt’altra parte.

“Vuoi qualcosa da leggere amico?”

Amico??

“Ehm…”

Tyler si sporse appena per intravedere qualche titolo

“…Dammi quello lì. Quello verde.”

Il secondino corrugò un sopracciglio

“Dostoevskij? Andiamo amico, non mi sembra il massimo per passare il tempo qui!”

Tyler lo guardò confuso, ma non aveva la minima voglia di mettersi a dibattere sulla piacevolezza di Delitto e Castigo.

“Ok, quello accanto allora.”

“Dan Brown? Non credi che sia un po’ troppo banale?”

Tyler lo guardò socchiudendo le palpebre. Avrebbe avuto voglia di rispondere, ma era davvero troppo sbigottito per farlo. Stava succedendo davvero? Consigli letterari da una guardia troppo socievole e con la divisa scolorita?  

Lo sconosciuto si chinò afferrando un volume nascosto tra gli altri

“Ecco amico. Questo è perfetto per te.”

Gli occhi di Tyler si spalancarono

“Danielle Steel?! Ma fai sul serio?”

L’altro riafferrò l’impugnatura del carrello cercando di nascondere un sorriso beffardo sotto il berretto

“Credimi amico. E’ proprio quello che ti serve!”

Tyler provò a protestare, ma il tizio si limitò a sparire nel nulla così come era arrivato. Sbuffò. Incredibile. Perfino l’ultimo sfigato nella scala sociale delle forze dell’ordine poteva prendersi gioco di lui.

Tirò quel libro che non avrebbe mai letto contro la parete, senza sprecarci nemmeno troppa forza. Dalle pagine sembrò che volasse qualcosa.

Fantastico.. Un libro inutile che cade anche a pezzi.

In un impeto di buona educazione si piegò per raccogliere la pagina, ma si accorse quasi immediatamente che aveva un colore diverso. Quello che aveva tra le mani era un pezzo di carta giallastra piegata in due. Lo sfregò tra le dita guardandosi istintivamente intorno e finalmente si decise ad aprirlo, pur consapevole che non avrebbe trovato altro che il numero di una prostituta o lo schizzo fatto da un condannato.

Però conosceva quella scrittura.

Stasera. State pronti.”

Tornò a guardarsi intorno, col terrore improvviso di essere spiato. Accartocciò immediatamente il foglietto e lo infilò in tasca, poi, pensando che non fosse abbastanza sicuro, se lo ficcò in un calzino.

Davis sta organizzando qualcosa.. Un piano per farci uscire… E dev’essersi fatta amica parecchia gente qui dentro.

Desiderò che quel secondino presuntuoso tornasse per spiegargli qualcosa in più, ma sapeva non sarebbe successo. Chissà se anche Payne e Blake avevano ricevuto un messaggio simile? O forse sarebbe toccato solamente a lui prepararsi psicologicamente per la fuga?

Il cuore iniziò a battergli più forte e la noia di colpo era completamente sparita. Immaginava come avrebbe potuto fuggire ammanettato, tirarsi fuori dai mezzi blindati dell’FBI, evitare le pallottole… Con la gola asciutta tornò a sedersi sulla branda. Doveva essere pronto a tutto.

 

-----

 

Davis si infilò la maglietta nera e prese a fissare la pistola sul tavolo. Caricatore pieno. Mira precisa. Presa ferrea intorno al calcio. Non voleva uccidere nessuno.

Raggiunse Eden nell’altra stanza. Lei se ne stava in piedi, jeans, felpa e stivali scuri, ripassando la sua parte a mente. Non sarebbe stato troppo difficile, solo molto doloroso… Davis non aveva idea di cosa sarebbe successo dopo.

“Tutto ok?”

Chiese, mentre infilava l’arma nel retro dei pantaloni.

“Dov’è André?” Rispose lei.

“Sta controllando le cariche.”

 

Passo numero 1. Far esplodere le cariche posizionate ai lati della strada cinque secondi prima del passaggio dei blindati.  Derrill Bride, capo-operaio della società stradale 12, nonché giovane di grandi speranze ai tempi del MIT, prima che un certo Professor Douglas definisse le sue piccole manie “tratti di personalità devianti”, era stato ben felice di posizionarle dopo l’ultimo sopralluogo delle autorità. Lui e André erano rimasti in buoni rapporti, soprattutto dopo che il francese aveva fatto “misteriosamente” sparire un paio di incidenti di percorso dalla sua fedina penale.

Questo avrebbe fermato i mezzi nel bel mezzo della statale 40, ben poco trafficata a quell’ora tarda. Non che non fossero già pronti a bloccare qualsiasi avventore fosse capitato di lì nel momento meno adatto.

 

“Sei spaventata?”

Eden inspirò profondamente.

“Ce la posso fare, non preoccuparti.”

Afferrò il telefono e compose il numero tirando fuori tutta l’aria dai polmoni.

Un paio di squilli filarono via in un secondo, poi sentì la sua voce

“Eden? Sei tu?”

 

All’altro capo del telefono Dair era balzato in piedi con la cornetta stretta tra le dita. Intorno a lui l’intera squadra intercettazioni.

“Sì.”

“Dove sei?”

“Non posso dirtelo.”

“Che vuol dire? Perché mi stai chiamando?”

Eden mandò giù a fatica

“Mi dispiace Daniel, mi dispiace tanto..”

La voce quasi spezzata da improvvise lacrime

“Che succede? Che vuoi dire?”

“Non volevo che finisse così.”

Dair inspirò mentre lo sguardo del sostituto capo sembrava volesse incenerirlo

“Dove siete?”

Domandò di nuovo. Eden sembrò esitare.

“Non posso dirtelo.”

“Perché? Vuoi di nuovo aiutare Davis?”

Strinse il pugno inconsapevolmente mentre attendeva risposta

“No io… Ormai sono nei casini Dair, non posso più tornare indietro.”

Grant lo incalzò con un gesto della mano

“Puoi ancora tornare indietro, puoi ancora risolvere tutto quanto.”

“Per finire in prigione? No, non posso farlo.”

“Non finirai in prigione. Dimmi dov’è Miller e si risolverà tutto.”

Eden fece una lunga pausa, su di lei lo sguardo altrettanto attento di Davis

“Ho bisogno di sapere che avrò mia figlia.”

“Certo. Tornerà tutto a posto. Come avevamo pattuito dall’inizio.”

Un sospiro angosciato

“Posso fidarmi di te Daniel?”

Dair guardò l’agente Grant col viso contratto. Stava per dire una bugia bella e buona e non si sentiva sereno. L’altro lo colpì con un’occhiata severa

“Sì. Puoi fidarti di me.”

Eden esitò di nuovo. Anche la sua era una recita.

“Non so cosa voglia fare adesso, ma…”

“Avanti, dimmi tutto.”

“Ha un aereo pronto nel Jearsy. Per l’Europa.”

Disse velocemente, quasi corresse il rischio di ripensarci. Dair corrugò la fronte

“Quindi è qui vicino, nel New Jearsy?”

“Non farmi dire altro Dair. Vuole partire stanotte.”

“E gli altri?”

“Non lo so.”

“Sicura? Sicura che non voglia farli scappare in qualche modo?”

“Non lo so Dair. Davvero.”

“Ok.”

Grant gli fece cenno di chiudere agitandosi la mano davanti al viso

“Quindi è all’aeroporto che dobbiamo andare. Giusto, Eden?”

“Al circolo di Volo Pepperton.”

Rispose in un sussurro

“Bene. Spero tu sia sincera.”

Un lungo sospiro

“Voglio solo tornare a casa.”

“Ok Eden. Ti ci porterò allora.”

La conversazione si interruppe bruscamente.

Davis si avvicinò a sua moglie massaggiandole piano le spalle

“Bene. Abbiamo cominciato.”

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Nell’altra location invece regnava il tumulto. Dair si era lasciato cadere pesantemente sulla sedia da ufficio, mentre gli altri gli giravano intorno.

“Abbiamo il segnale signore!”

Trillò uno degli agenti dall’aria nerd posizionato agli schermi. Grant non trattenne una certa esultanza

“Bene! Dove sono?”

“Castle Hill signore. Un capannone vicino al fiume Hutchinson.”

Immediatamente la frenesia dell’ufficio sembrò crescere in maniera esponenziale. Grant si strofinò le mani nervosamente

“Bene. La ragazza non mentiva, sono qui vicino.”

Aggiunse un altro tizio con gli occhiali, ma il sostituto capo scosse la testa

“Non mi fido nemmeno un po’ di quella donna…”

Dair sollevò la testa con sorpresa

“…Dobbiamo controllare. Controlliamo immediatamente la pista di volo Pepperton e mandiamo una squadra nel Bronx.”

Iniziò ad armeggiare al telefono richiedendo due squadre. Dair gli si avvicinò

“Non credi a quello che mi ha detto?”

“Nemmeno un po’ tenente.”

Si rivolse poi ai topi di biblioteca telematici

“Iniziate a cercare! Qualsiasi movimento di denaro, qualsiasi mossa insolita nelle telecamere stradali, tutto!”

“Ma signore, avremmo bisogno di qualche coordinata per…”

“Cercate!”

---

André arricciò le labbra davanti allo schermo del pc

“Accidenti ragazzi..ci hanno beccato!”

Annunciò con tono sarcastico. Un puntino intermittente sul desktop indicava Caste Hill.

Davis arrivò a grandi passi poi si bloccò accanto a lui.

“Bene. Tutto come previsto.”

“Già.”

Concluse l’altro alzandosi da quella comoda posizione per infilare il giubbotto ed assicurarsi che la sua pistola avesse ancora la sicura inserita.

“Si comincia allora.”

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Tyler era stato prelevato in malo modo dalla sua cella. All’esterno era quasi freddo, ma quegli stronzi dell’FBI non avevano lasciato che si riprendesse la giacca. Lo avevano semplicemente ammanettato e buttato fuori. Doveva solo salire sul furgone e stare zitto. Dentro di sé la tensione e la voglia di sorridere aspettando la mossa di Davis.

Poco dopo la portiera si aprì di nuovo e sia Blake che Payne vennero spinte dentro. Gli occhi della bionda si illuminarono

“Tyler!”

Avrebbe voluto abbracciarlo, ma anche le sue mani erano strette nel metallo, senza contare lo sguardo torvo delle due guardie armate che si erano posizionate ai due lati di quello spazio angusto.

Lui rispose facendo l’occhiolino, ma non disse nulla per non infastidire gli agenti. Aveva bisogno della calma più assoluta per riuscire a fare ciò che sperava di poter fare.

Nel silenzio, mentre il mezzo si muoveva, Payne gli stava seduta davanti continuando a guardarlo. Accanto a lei Blake, visibilmente più agitata continuava a contrarre i muscoli, era sicura che qualcosa stesse per succedere.

Tyler cercò lo sguardo di Payne con più decisione, usando gli occhi per indicare anche Blake. La prima decise allora di attirare l’attenzione della sorella di Davis con un tocco minimo della mano, così delicato da essere impercettibile per le guardie.

Di nuovo Tyler mosse gli occhi, stavolta verso il basso ad indicare i suoi piedi. Payne aggrottò il sopracciglio per un attimo, ma capì ben presto di dover far attenzione ai suoi piccoli movimenti. Era come se Tyler si fosse messo a tamburellare con la punta del piede destro, una specie di movimento cadenzato anti-stress o almeno è ciò che avrebbero pensato gli altri.

In realtà era molto di più. Il Codice Morse è la base di ogni buon delinquente e per loro, nati negli anni ottanta, quando il massimo della tecnologia comunicativa era rappresentato dai Walkie Talkie, impararlo era stato un passo inevitabile.

Anche Blake strizzò appena gli occhi per non perdere nemmeno un battito. Intanto nella sua testa il messaggio prendeva lentamente forma

D – A – V – I –S – E – Q – U – I 

S – T – A – T – E – P – R – O – N – T – E

Balzò sul posto senza riuscire a controllarsi

Davis sta arrivando. Lo sapevo!

“Hey tu, vedi di stare buona!”

La ammonì una delle guardie.

Blake abbassò la testa e sorrise tra sé e sé.

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“Guardi questo signore.”

Grant si avvicinò nervosamente

“Che hai trovato?”

“E’ l’esterno di un negozio di liquori qui a Manhattan. Guardi qui.”

Indicò col dito sul monitor, mentre una figura incappucciata veniva fuori dall’esercizio con un sacchetto di carta tra le mani. Il volto basso per tutto il tempo, tranne che per un secondo, un piccolo secondo che l’agente immortalò sulla schermo

“Non potrebbe essere…”

Sembrò timoroso, ma Grant si sporse fin quasi a poggiare il naso sull’immagine

“Duval. Quel bastardo.”

“E’ un video di due giorni fa signore.”

“Quindi non sono nel Jearsy, bensì a pochi passi da qui.”

Di nuovo corse all’interfono

“Voglio che una squadra controlli tutti i contatti di Miller qui a Manhattan. Chiunque abbia avuto a che fare con lui… E mandate qualcuno direttamente al Liquor Store sulla ventesima.”

Scosse la testa lasciando il bottone

“Stavolta non ci fregheranno… E’ già partito il trasferimento?”

“Affermativo signore. Sto seguendo il percorso del veicolo.”

“Bene.”

Dair si sollevò allora dalla sedia

“Se permette signore, io andrei a fare la mia parte.”

“Non sei ancora in servizio Dair.”

“Lo so. Ecco perché è inutile che stia qui.”

“E che vorresti fare?”

“Controllerò la bambina signore. Miller potrebbe mandare qualcuno anche lì.”

Grant sembrò rimuginarci su, ma alla fine cedette

“Va bene, ma vedi di stare molto attento a quello che fai.”

Dair improvvisò un saluto militare

“Signore.”

Si congedò con l’adrenalina già a mille.

Non appena fu fuori un altro ragazzotto robusto nella schiera degli informatici alzò la mano

“Signore. Ho rintracciato la carta clonata con cui Duval ha pagato…”

Qualche battuta sulla tastiera

“…E’ a nome di un certo Robert Mason, amministratore delegato della Seven Medicines. La carta preleva dal conto dell’azienda.”

Gli occhi di Grant si chiusero in due fessure mentre si calava nel pieno della concentrazione

“…Dall’estratto conto risulta un movimento di un milione di dollari, spostato ieri su un conto criptato in…”

L’agente riprese a battere, asciugandosi rapidamente il sudore della fronte col polsino della divisa

“…Praga signore. Repubblica ceca.”

L’altro sembrò incerto e colpito

“Nient’altro?”

“C’è un altro prelievo signore… Biglietti aerei.”

“Biglietti aerei?”

“Sì. Sette per l’esattezza.”

“Hanno comprato dei biglietti aerei?”

“Non loro. Sono a nome dell’azienda farmaceutica… Di alcuni impiegati… Gray, Lawson, Brenda Phillis… Forse i due eventi non sono…”

“Fesserie!”

Lo interruppe Grant

“Certo che sono loro! Quella donna ha tentato di fregarci di nuovo! Sono quasi sicuro che non ci sia nessun aereo a Caste Hill… Useranno la linea aerea nazionale, quello che mai ci aspetteremmo!”

Visibilmente contrariato, ed anche un po’ offeso, Grant rivolse l’ultima schiera di ordini

“Mandate immediatamente una squadra al JFK!”

Stavolta la voce all’altro capo gracchiò in risposta

“Signore.. Abbiamo già fatto uscire tre squadre e gli altri sono impegnati nel trasferimento..forse dovrebbe asp…”

Grant si impettì ed alzò la voce

“Mandi gli agenti rimasti all’aeroporto! Adesso!”

“Bene Signore.”

 

Passo numero 2. Sparpagliare gli agenti dell’FBI per la città. Con tutte le squadre impegnate in punti diversi di NY non sarebbe stato semplice per il grande vice-comandante McPhee richiamare immediatamente tutti gli agenti sulla statale 40. Avrebbero perso almeno cinque minuti, forse otto o dieci, di certo abbastanza perché quella fase del piano fosse conclusa.

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Davis aprì lo sportello del SUV con i vetri oscurati, gentilmente offerto dal “collega” Demon, pezzo grosso dello smercio locale di cocaina, poi stette sui suoi passi. Si voltò ancora una volta verso Eden

“Andrà tutto bene.”

Lei annuì stringendosi nelle braccia

“Potevo venire con voi.”

“No. Non voglio che tu venga coinvolta in altre sparatorie o roba del genere… E poi lo sai, ci servi altrove.”

Eden allora infilò la mano nella tasca dove teneva il cellulare che suo marito le aveva affidato.

“State attenti, ti prego.”

Lui trovò la forza di sorridere con sincerità.

“Te lo prometto.”

Poi si abbassò appena un po’ per lasciarle un bacio sulla fronte

“Ci vediamo dopo.”

Lei si alzò sulla punte e rispose a quel bacio pudico con un altro, ben più appassionato.

Lo strinse a sé cercando di restare sulle sue labbra il più a lungo possibile.

Davis riprese fiato

“Hey, ti ho detto che andrà tutto bene!”

Eden annuì di nuovo, rimanendo a fissare la grossa auto che si allontanava da lei.

Tirò fuori il telefono e compose il numero di Dair

“Pronto?”

“Sono io.”

“Tutto bene?”

“Sì…”

Sospirò

“…Sono appena partiti.”

“Ok.”

Seguì il silenzio per una manciata di secondi

“Siamo d’accordo?”

Riprese lui

“Sì. Ti aspetto lì.”

La conversazione si interruppe senza saluti di cortesia. Eden ripose il cellulare e si guardò intorno. Era arrivato il suo momento di muoversi.

Compito di Eden (secondo Davis). Convincere Dair della sua buona fede, recuperare Sophia ed aspettare nel punto prestabilito. Nulla di troppo difficile, almeno in apparenza.

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I due SUV sfrecciavano a grande velocità, in senso opposto, uno dietro ed uno verso il blindato della polizia. Secondo le ipotesi ci sarebbero state quattro auto di scorta, due davanti e due dietro. Le prime sarebbero state messe fuori uso dall’esplosione, alle altre avrebbero pensato loro.

André seguiva il percorso del nemico su un tablet, pronto a fare un cenno qualora fosse il momento. Accanto a lui, stretto in un giaccone nero quasi quanto la sua pelle, Quentin Pratt. Ladro anche lui, doveva a Davis parecchi favori, ma con questo soltanto avrebbe estinto il suo debito. Stringeva tra la mani il detonatore delle cariche.

Quel cenno arrivò piuttosto presto. Quentin spinse deciso con il pollice, mentre l’autista si arrestò di colpo facendo fischiare i freni. Il botto deciso del tritolo li fece vibrare, quasi sollevare dall’asfalto.

Davanti alle loro facce una grossa nuvola scura ed il rumore della ferraglia accartocciata.

André lasciò da parte la tecnologia ed afferrò un grosso fucile prima di scendere dall’auto e prendere a correre verso il fumo. Quentin lo seguì, mentre l’autista del SUV rimase in attesa.

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Il furgone che trasportava Tyler e gli altri sterzò all’improvviso, quasi perdendo il controllo. Il rumore fu assordante per un secondo e Payne perse l’equilibrio rischiando di rotolarsi in quello spazio angusto.

Immediatamente si rimise sull’attenti insieme agli altri. Una delle guardie era caduta battendo la testa. Non poteva andare meglio, perché l’altro si era subito prodigato in suo aiuto.

“Che cavolo succede qui?!”

Dal rumore degli sportelli era chiaro che i conducenti erano scesi, così Tyler ne approfittò per mettere fuori uso anche l’altro agente di guardia. Sollevando le braccia gli prese la gola nella morsa delle manette, col metallo premuto sulla trachea il tizio non poteva urlare, tantomeno respirare. Blake si mosse pronta a colpirlo con un calcio ben assestato qualora si fosse rifiutato di svenire, ma non servì. Ben presto l’agente crollò di peso vicino all’altro, già messo ko da una gradita commozione celebrale.

Si mossero tutti e tre verso il portellone, ma non c’era verso di aprirlo. Potevano solo aspettare.

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 Davis, che era nell’auto davanti, scese correndo verso la nuvola di polvere. Le due auto di scorta erano saltate ai lati della strada e avrebbe potuto, con un po’ di fortuna, raggiungere direttamente il furgone.

Dall’altro lato André e Quentin avevano di fronte le due macchine ancora intere. Dentro una delle due McPhee si agitava senza tregua.

“Chiama rinforzi idiota!”

Si rivolse all’agente alla guida che, tremolante, afferrò la radio

“Abbiamo un’imboscata. Mandate rinforzi al chilometro 37!”

Il vice-comandante si guardò dietro, dal parabrezza poteva scorgere due grosse figure armate. Afferrò a sua volta la pistola e sporgendosi dal finestrino decise di sparare senza indugi.

Al fuoco rispose fuoco, André puntò subito alle ruote della vettura e poi al motore, sperando che prendesse fuoco e non rappresentasse più un problema.  Schivare le pallottole fu la cosa più impegnativa, ma erano preparati, indossavano giubbotti antiproiettile ed erano pronti a darsela a gambe non appena la loro missione da due minuti circa fosse conclusa.

Obiettivo: tenere impegnati McPhee e compagni.

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“Abbiamo un’imboscata. Mandate rinforzi al chilometro 37!”

Urlava la voce metallica dalla radio, senza che nessuno potesse sentirla.

Dair, prima di uscire dalla centrale, aveva deciso di fare una piccola deviazione. Di certo gli sarebbe valsa la carriera, ma che cavolo, in quella confusione nessuno ci avrebbe fatto caso.

Gli era bastato passare davanti alla stazione di smistamento delle chiamate, attendere la pausa caffè dell’insignificante agente Oliver e spingere un paio di pulsanti. Tutte le comunicazioni deviate direttamente nell’ufficio di McPhee ai piani alti.. Lì, dove non c’era nessuno che potesse raccoglierle.

---  

Davis raggiunse ben presto lo sportello del furgone e con l’aiuto di un altro esponente della piccola malavita newyorkese, Giovanni Lopez, esperto in furti d’auto e portavalori, riuscì ad aprirlo.

Gli occhi di Blake si illuminarono letteralmente quando suo fratello apparve

“Sapevo che ci avresti tirati fuori!”

“Andiamo!”

Rispose lui e insieme corsero come il vento verso il SUV in attesa. Dopo un viaggio di un paio di chilometri appena nella campagna circostante, un altro mezzo li attendeva. Li avrebbe portati dritti all’aereo privato in attesa di decollo. Prima destinazione Messico.

Stesso identico discorso per André, scampato ai colpi maldestri degli agenti.

McPhee scese dall’auto in principio di incendio. Una lunga serie di imprecazioni uscì dalle sue labbra contratte in una smorfia. Avrebbe voluto scalciare come un bambino deluso, ma doveva correre, inseguire quei maledetti e sparare. Solo questo avrebbe potuto salvargli la brillante carriera ormai.

---

Eden raggiunse lo stabile che Dair le aveva indicato. In uno di quegli appartamenti c’era sua figlia. Finalmente.

Col cuore in gola, in mancanza di notizie riguardo Davis e gli altri, si infilò guardinga nella porta del garage. Il corridoio scuro, con l’odore di gas di scarico, la portò fino alle scale. Salendo un gradino alla volta coprì la distanza tra lei ed il terzo piano.

Al di là della porta per le scale di servizio c’era un agente in piedi. Indossava abiti borghesi, ma sapeva di per certo che si trattava di uno della polizia.  Attese da lì l’arrivo di Dair.

Pochi minuti o forse mezz’ora, un’ora dopo, il rumore di passi la fece ben sperare. Assistette alla scena sbirciando dal vetro. Quattro chiacchiere e l’agente con i jeans se n’era andato. Dair si schiarì la gola ed Eden colse il segnale per uscire.

Gli fu vicino in un attimo, abbracciandolo nel modo più istintivo. Lui rispose senza stringerla troppo, non voleva fare l’abitudine a qualcosa che forse non avrebbe mai avuto. Ormai sapeva di non poterci contare troppo. Anche se la teneva tra le braccia poteva sparire in un solo istante, questa era Eden Spencer.

“Mi dispiace.”

Disse lei spingendosi contro il colletto della camicia azzurra. Profumava di pulito.

“Anche a me.”

Rispose scostandosi dalla presa. Non era saggio restare lì sul pianerottolo.

La porta si aprì dopo tre giri della chiave nella serratura. Dair entrò per primo, si guardò intorno e scorse la figura della tata in cucina.

“Signora Kennedy?”

Quella si voltò di scatto. Presa dal fischio del bollitore non aveva nemmeno sentito la porta aprirsi.

“Agente Dair. La aspettavo più tardi.”

“Lo so, ma abbiamo avuto qualche problema in centrale.”

“Problema?”

“Già. I nostri ricercati sono riusciti a fuggire e sono quasi certo che siano diretti qui per prendere la bambina.”

La tata sobbalzò facendosi seria

“Qui?”

“Già. Altri agenti arriveranno immediatamente. Intanto le consiglio di andare subito via se non vuole incappare in una sparatoria o cose così…”

“Spa.. Sparatoria?”

“Sono criminali piuttosto pericolosi. Io sono venuto a prendere la bambina, la porto via immediatamente.”

La signora Kennedy si dimenticò completamente del bollitore e dell’earl grey che stava preparando

“Dovrei andare quindi?”

“Vada pure.”

Senza bisogno di ripeterlo ancora, la tata, che non era affatto felice dall’inizio di essere incappata in quell’incarico, afferrò borsa e cappotto.

“Mi saluti la piccola.”

Un breve saluto e sparì. Il rumore delle sue ciabatte veloce per le scale.

Dair tirò un sospiro di sollievo

“Vieni.”

Eden venne fuori dal suo nascondiglio e guardò intorno a sé in quell’appartamento sconosciuto, ben diverso dal suo a Chicago.

“Dov’è?”

Chiese impaziente e Dair le indicò una porta poco più là.

Seduta all’indiana su un divanetto a quadri, la piccola Sophia teneva gli occhi puntati sulla tv. Simba e i suoi amici cantavano Hakuna Matata.

Le si strinse il cuore. Dopotutto forse, stava facendo la cosa giusta.

“Tesoro mio.”

La bambina si voltò piano e spalancò la bocca in un sorriso

“Mammaaaaa!”

Le corse incontro saltandole al petto.

“Mamma sei tornata!”

Eden la strinse più forte che poté

“Sì amore… E non ti lascio più, stavolta non ti lascio più.”

Dair irruppe in quella scena perfetta

“Dobbiamo andare.”

---

Tutto era andato secondo il piano. Almeno fino a quel momento.

Davis cercò di chiamare Eden ancora una volta, ma come per le altre 27 chiamate, nessuno rispose. Iniziava ad essere preoccupato. Forse Dair non era stato così ingenuo da cadere in un nuovo tranello, forse non avrebbe permesso ad Eden di andarsene con sua figlia.

Eppure conosceva le doti di sua moglie, con o senza il consenso del poliziotto sarebbe riuscita a prendere Sophia. Non era un compito troppo difficile per lei. Doveva solo farsi dire dove fosse, prenderla e chiamare l’altro scagnozzo di Pratt. Quest’ultimo le avrebbe caricate sulla sua anonima berlina e portate a destinazione, pronte per volare in Messico.

“Ancora niente?”

Chiese Payne. Anche lei era ormai preoccupata.

Poco più in là André e Blake parlavano per conto loro. Lui era arrabbiato, vistosamente. Quel bastardo di McPhee l’aveva picchiata e lui si stava pentendo di non averlo ucciso con un colpo in fronte. Lei era tesa, voleva solo andarsene e in tutta onestà le importava ben poco che Eden li raggiungesse. Tantomeno sua figlia. Con tutto il rispetto per Davis era solo colpa loro che si erano ridotti in quel modo.

L’ennesima chiamata a vuoto.

Davis compose un altro numero.

“Eden ti ha chiamato?”

Il tizio arruolato come autista risposte con un certo timore. Con Davis Miller era sempre meglio non scherzare.

“In realtà sì. Sono dietro Central Park, mi ha mandato qui venti minuti fa, ma ancora non la vedo.”

Un campanello di allarme si accese. Chiuse la chiamata senza aggiungere altro. Si rivolse agli altri

“Andate.”

“Cosa?”

“Andate ho detto. L’aereo è già pronto. Io vi raggiungerò più tardi. Con Eden.”

Concluse sottolineando il nome di sua moglie. Qualcosa non quadrava, il Davis sospettoso e cattivo si stava rianimando.

“Più tardi? E come?”

Incalzò Blake

“Non preoccuparti. Andate. Adesso.”

Un cenno ad André perché prendesse le sue veci. Al francese non interessava interferire nelle sue decisioni, pertanto sarebbe salito su quell’aereo senza fiatare.

Payne gli si avvicinò

“Sei sicuro?”

Davis annuì senza sbloccare di un millimetro la faccia seria.

La bionda compagna si avvicinò per abbracciarlo. Erano così rari i momenti d’affetto nella loro “banda” che per un attimo Davis trasalì.

“Grazie.”

Disse lei sinceramente, ma non riuscì a strappargli un sorriso.

Si avviarono verso l’aereo mentre lui rimase lì, in piedi davanti all’auto, il cellulare in mano e un tremendo mix di paura e sospetto nello stomaco.

Poco dopo il suo telefono squillò, il nome di Eden si mise a lampeggiare come per incanto.

“Dove sei? Perché diavolo hai mandato l’autista a Central Park?!”

Non voleva esserlo, ma era arrabbiato.

Eden prese aria, ma la sua voce rimase calma e coincisa

“Vieni a questo indirizzo. Solo tu.”

“Cosa?! Ma che dici? Ti hanno presa? E’ forse questo? Eden?!”

Lei rimase impassibile, almeno all’apparenza. Dentro era come se un gruppo di cani famelici le stesse divorando anima e budella.

“Ti prego. Warrington Street 1244… Ti prego.”

La linea cadde e lui pensò per un attimo di aver sognato, ma la scritta “Chiamata terminata” era effettivamente lì.

Warrington Street… Non gli diceva niente, assolutamente niente.  Ne dedusse che dovevano averla presa. Dair o i federali erano riusciti a fermarla ed ora attendevano solo lui per l’atto finale di quella commedia.

Cazzo. Imprecò. Non era giusto, tutto era andato secondo i piani, tutto! Quello era il suo finale e nessuno gliel’avrebbe rovinato. Nessuno.

Strinse la sua pistola per cercare sicurezza e salì in macchina. Avrebbe fatto quello che doveva fare. Quel giorno la sua famiglia sarebbe tornata tutta insieme, a qualsiasi prezzo.

---

“Ecco.”

Dair le porse una cartellina, lasciandola scivolare sul legno della scrivania con delicatezza.

Lei si morse il labbro scorrendo la prima pagina con gli occhi. Dovette distogliere lo sguardo per non piangere.

“Mi dispiace.”

Aggiunse lui. Era sincero, ma forse non fino in fondo.

Eden annuì pensando a sua figlia. Era stata la cosa migliore lasciarla a Grace piuttosto che portarla lì. Non sarebbe riuscita a farlo con lei presente.

Forse non sarebbe riuscita a farlo nemmeno così.

Guardò Dair con la coda dell’occhio. Non stava esultando, non sembrava nemmeno felice e probabilmente davvero non lo era. Daniel Dair è un uomo troppo onesto per godere di una misera ,triste, ingiusta vittoria come questa.

Strinse i pugni.

“Non so se ce la faccio.”

Dair la raggiunse e la strinse di nuovo, stavolta con decisione.

Prendendole il viso tra le mani la guardò serio

“E’ l’unica cosa che puoi fare. Ed è la cosa più giusta per tutti.”

“Ne sei sicuro?”

Lui si ficcò dritto nelle iridi scure di Eden

“So che lo ami. So che forse non smetterai mai di amarlo… E so che non amerai me come ami lui…”

Eden lasciò sfuggire un sospiro d’angoscia

“…Non è per me che ti ho chiesto di farlo, lo sai vero?”

Lei annuì in silenzio.

Per quanto bene gli volesse non lo avrebbe mai fatto per lui. E non lo avrebbe mai fatto nemmeno per liberare sé stessa.

Era solo per Davis che era pronta a rinunciare.

Per la sua libertà, la sua redenzione, tutto quello che cercava da anni. Certo, gli sarebbe mancato un pezzo o due, ma col tempo anche quel dolore sarebbe passato.

Ed il vecchio Davis Miller non sarebbe stato che un ricordo.

Scoppiò a piangere senza riuscire a frenarsi in tempo. Lacrime e singhiozzi nella speranza che sfogarsi prima l’avrebbe resa coraggiosa abbastanza da andare fino in fondo.

Dair la strinse di nuovo.

Forse non avrebbe mai posseduto il suo cuore per intero, ma avrebbe fatto di tutto per conquistarne più spazio possibile.

L’avrebbe resa felice.

Eden non avrebbe rimpianto Davis.

 

Lo scatto metallico della sicura li riportò alla realtà.

Gli arti rigidi, lo sguardo torvo e l’arma puntata contro il poliziotto.

“Giù le mani da mia moglie!”

 

 

 

 

 

 

 

  

 

   

  
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