Fanfic su artisti musicali > Jonas Brothers
Ricorda la storia  |      
Autore: Aine Walsh    10/09/2012    3 recensioni
Dapprima sentii solo un gran vociare, ma poi, a mano a mano che lo sconosciuto si avvicinava, riuscì a distinguere il suono delle parole e a capire chi fosse il ricercato.
«Beh, sembra proprio che il nostro tempo insieme sia già finito» dissi rivolta al mio nuovo amico a quattro zampe, accarezzandolo un’ultima volta prima di alzarmi e vederlo correre. Ebbi appena lo spazio di concludere la mia frase che un’altra voce rimpiazzò la mia.
«Elvis! – aveva esclamato – Quante volte ti ho detto che non devi scappare così, eh?».
Golden Retriever. Elvis. La voce del ragazzo che parlava.
Credetti di essere sul punto di svenire.
Genere: Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nick Jonas, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Bene! Se hai aperto qui allora dovrei essere riuscita a incuriosirti almeno un pochino, no? Beh, ne sono contenta :D
Prima di leggere, però, ci sono alcune cose che dovrei dirti...
La storia nasce come epilogo per una Fic che ho scritto tre anni fa e... Aspetta aspetta! Non chiudere, per favore!
Dicevo, e solo ora mi sono resa conto di dover scrivere un epilogo decente (o almeno, provarci).
La storia è abbastanza autonoma e può essere capita anche senza aver letto la long (che, tra l'altro, non ho mai postato su questo sito), ma ti basti sapere che:
1. La protagonista ha vissuto per un periodo a Los Angeles, dove era la vicina di casa dei Jonas. Ha avuto una relazione tutta "rose e fiori" con Nick, ma poi è dovuta tornare in Italia e, dopo svariati tentativi di tenere insieme la relazione, si sono lasciati.
2. Marco e Loredana sono i migliori amici della protagonista.
3. Il nome della protagonista corrisponde al mio, è vero, ma non prendete questa cosa come un atto bimbominkiesco: l'ho fatto perchè mi piace il nome e perchè non potevo di certo cambiare nome al personaggio principale (precisazione inutile che non vi interessava, ma che sentivo di dover fare).
E credo sia tutto :)
Buona lettura (sempre ammesso che ci riesci)!

Please Be Mine

 
Aprii gli occhi di scatto, senza avere più sonno, e rimasi distesa sul letto per qualche minuto osservando gli effetti che la luce solare che penetrava dalla finestra creava sul soffitto. Tutto intorno a me regnava il silenzio.
Erano già passate due settimane da quando avevo per la prima volta messo piede a New York, ma la vacanza era arrivata agli sgoccioli e il giorno dopo sarei dovuta ritornare a casa, cominciare l’Università e anche cercare un lavoro, magari.
Allungai il braccio, afferrai il cellulare per vedere che ora fosse e mi sorpresi leggendo sul display che fossero solo le sette meno un quarto e che, quindi, avevo dormito pochissime ore. Sospirai, maldicendo la mia insonnia cronica mentre mi tiravo su a sedere in mezzo al letto. Loredana, la mia migliore amica, stava ancora dormendo e Marco, il mio migliore amico, stava facendo altrettanto (non lo vedevo, dal momento che lui dormiva nel divano a letto della stanza accanto, ma riuscivo benissimo a sentirlo). Stavano insieme già da sette mesi ed io non sarei potuta essere più felice per loro. Nonostante ciò, durante tutto il tempo della vacanza, non ero riuscita a fare a meno di sentirmi il terzo incomodo della situazione, anche se la coppia tentava di convincermi del contrario. Più di una volta avevo cercato di lasciarli soli, ma i miei sforzi erano risultati sempre vani per via del loro continuo insistere e trascinarmi ovunque avessero intenzione di andare. Tuttavia, quella mattina l’occasione mi si presentò su un piatto d’argento e non ci pensai due volte a sgattaiolare fuori dalla camera senza neanche aver fatto colazione.
Alloggiavamo da qualche parte ad Harlem e non molto distante dall’albergo avevo adocchiato, nei giorni precedenti, uno Starbucks in cui non avevo ancora avuto il piacere d’entrare. Erano da poco passate le sette e mezza e la Grande Mela iniziava a svegliarsi e prepararsi per affrontare un’altra intensa giornata di lavoro; potevo già sentire in lontananza lo strombazzare di qualche auto ritardataria che sperava di non essere beccata dal capo.
Mi fermai allo Starbucks e ordinai un frappuccino al caramello e una focaccina ai mirtilli da portare via, pensando che mi sarebbe mancato parecchio quel posto una volta tornata a casa. Misi la focaccina in borsa perché non avevo fame al momento, pagai ed uscii sorseggiando lentamente quella squisita bevanda.
La destinazione che mi ero prescelta per quel giorno era il Central Park. Ero già stata lì altre due volte durante il soggiorno, ma sempre di sfuggita e non avevo ancora avuto l’opportunità di fermarmi e contemplare il paesaggio; e poi, avevo un libro con me per qualsiasi evenienza.
Camminai e camminai, entrai al parco e continuai a camminare per un altro po’ fin quando non trovai un posto leggermente più appartato e mi sedetti con la schiena contro la corteccia di un albero. Il Central Park era meraviglioso: sarà stata quell’aria di prima mattina e la complessiva pace che vi si trovava, ma non reputai più possibile trovarmi in un luogo (e in un momento) più bello di quello. Respirai a pieni polmoni, osservai tutto ciò che mi circondava per parecchio tempo e, una volta che ebbi finito di fantasticare, mi immersi nella lettura del mio adorato Sherlock Holmes.
Non so esattamente quanto tempo passai così, ferma con lo sguardo fisso tra quelle pagine, ma so quando fui interrotta e costretta ad alzare gli occhi. Chiusi il libro e guardai incuriosita quella massa di pelo che si era accucciata tra le mie gambe distese: non ci volle affatto molto a capire che si trattava di un cane. Sorridendo per la stranezza di ritrovarsi un cane sconosciuto comodamente sdraiato addosso, mi avvicinai facendo attenzione a non farlo andare via e l’animale alzò il capo come per volermi guardare anche lui. Era un Golden Retriever e portava un collare che però non mi curai molto di leggere. Feci per accarezzargli il manto e lui mi lasciò fare. Lo osservai pensierosa, notando che fosse in perfette condizioni e due furono le opzioni che mi si presentarono davanti: poteva essersi smarrito oppure il suo padrone lo aveva volontariamente lasciato libero di scodinzolare dove volesse, per poi andare a riprenderlo dopo. Tuttavia, nessuna della due alternative era quella esatta e il “dopo” che avevo pensato nella seconda opzione arrivò in realtà molto prima del previsto.
Dapprima sentii solo un gran vociare, ma poi, a mano a mano che lo sconosciuto si avvicinava, riuscì a distinguere il suono delle parole e a capire chi fosse il ricercato.
«Beh, sembra proprio che il nostro tempo insieme sia già finito» dissi rivolta al mio nuovo amico a quattro zampe, accarezzandolo un’ultima volta prima di alzarmi e vederlo correre. Ebbi appena lo spazio di concludere la mia frase che un’altra voce rimpiazzò la mia.
«Elvis! – aveva esclamato – Quante volte ti ho detto che non devi scappare così, eh?».
Golden Retriever. Elvis. La voce del ragazzo che parlava.
Credetti di essere sul punto di svenire.
Erano passati due anni, due lunghi e non troppo facili anni, e poi… Mi sentivo in subbuglio, mi girava la testa e sentivo il sangue pulsarmi con violenza nelle tempie. Avrei preferito non trovarmi lì e per un attimo pensai di correre via e nascondermi in qualsiasi altro punto della città, ma no: le gambe mi impedivano la fuga ed io stessa sapevo di dover restare.
Era un po’ più alto e aveva tagliato di netto i capelli, ma il viso era sempre dolce e gentile come lo ricordavo e il suono della sua voce (che non sentivo da troppo tempo) mi diede i brividi.
Ero confusa e non sapevo decidermi su cosa fare, ma non potevo certo fingere di non averlo riconosciuto. Potevo salutarlo freddamente e andare subito via, evitando così un’altra ondata di depressione e torturando minimamente la mia triste e sfortunata esistenza, oppure potevo corrergli incontro, spiccare un salto e sperare che lui mi afferrasse al volo, anche se forse questa reazione era un po’ troppo esagerata; non molto lontana da ciò che avrei davvero voluto fare, ma troppo esagerata.
Non feci nessuna delle due cose.
Mi avvicinai di qualche passo e lo chiamai, ma la mia voce uscì in un primo momento come sussurro e dovetti ripetermi: «Nick?».
Ora, io non so cosa gli sia passato per la testa in quel momento, forse stupore, rabbia o felicità, ma so solo che mi sentii il cuore esplodere nel petto quando pronunciò il mio nome venendomi incontro.
«Anna! – disse a gran voce – Dio, quanto tempo! Come stai? Che ci fai qua?». Parlò tutto d’un fiato e fu lì lì per abbracciarmi, ma quando se ne accorse ritirò rigidamente le braccia.
Non provai delusione, né potevo permettermela: quella situazione erano tanto imbarazzante quanto surreale per entrambi.
«Io sto bene, sono qui in vacanza. E tu?», gli passai la palla ben felice di poterlo fare.
«Mi sono trasferito a New York un po’ di tempo fa… Sai com’è, no? Bisogna cambiare aria ogni tanto…».
Silenzio. Bene, proprio bene.
Fine della conversazione, è stato bello vederti. Ciao.
Ci guardammo imbarazzati, sapendo dentro di noi che bisognava dire qualcosa, qualunque cosa, per spezzare quel terribile silenzio. Mi sarei accontentata di qualsiasi scusa, anche se stupida, non avrei replicato e me ne sarei andata dimostrando solamente la metà dei pensieri che mi affollavano la mente.
«Elvis si è scelto proprio una bella compagnia» disse sorridendo nervoso.
Ok, magari qualcosa di meno banale. Sforzati Jonas, so che ce la puoi fare.
Sorrisi di rimando, non meno tesa ma con un fondo di allegria ripensando ai vecchi tempi.
«Ehm… Cosa… Cosa stavi leggendo?».
Abbassai il capo e guardai il libro che tenevo in mano, quasi perché ne avessi dimenticato il titolo, l’autore e la trama. «Il segno dei quattro. Sherlock Holmes».
«Bello» commentò con fare poco convinto.
«L’hai letto?».
«No».
Risi a quella risposta, ma me ne pentii quasi subito per paura che lui potesse offendersi e, quando fui sul punto di smettere, la sua risata si unì alla mia. Tutta una serie di ricordi prese ad accalcarsi dentro la mia testa: la prima volta che ci incontrammo, la prima volta che ero riuscita a farlo ridere, la sua festa di compleanno… Scrollai la testa come a voler fare uscire quei pensieri.
Mi guardava ed era titubante.
Lo guardavo e non sapevo cos’altro fare.
«Ti va di sederci lì?» chiese indicando una panchina vicina.
Lo fissai, mi voltai nella direzione che mi aveva indicato e tornai a fissarlo. Voleva sembrare gentile o voleva davvero passare un po’ di tempo con me? Forse sperava che io gli rispondessi di no. E se invece sperava il contrario? Non riuscendo a capire cosa volesse lui in realtà (due anni di lontananza sono sempre due anni di lontananza), mi affidai a quello che volevo io: «Certo» risposi pregando che fosse la cosa giusta.
Ci sedemmo e lui legò Elvis in modo che non potesse scappare ancora; il cane mugolò un poco, ma poi si distese e si addormentò non dopo molto tempo.
«Da quanto sei qui?».
«Da due settimane».
«E quando riparti?».
L’Abbandono, Atto II.
«Domani».
«Ah».
Mi maledissi, domandomi il perché ogni volta fossi io quella che doveva piantarlo lì e partire, quella che dovesse farsi sopraffare dai dubbi, quella che dovesse lasciarlo e che poi dovesse stare ancora più male pensando che anche lui ne soffriva.
«E ti sei divertita?» continuò.
«Sì, tantissimo. Ma questo lo sapevo già da prima di arrivare».
«Andare a New York è sempre stato uno dei tuoi sogni. – ricordò – Ed era anche una delle cose che avevo in mente di fare se tu… Ehm… Come procede la tua vita in Italia?».
«Oh, bene. Tutto sommato bene, sì. Ho appena finito di liceo e da quest’autunno inizierò a frequentare l’Università».
«L’Università, wow!».
«E tu invece? I tuoi genitori come stanno? E i ragazzi?». Non sapevo più niente di loro. Avevo smesso di informarmi da quando io e Nick c’eravamo lasciati.
«Papà e mamma stanno bene e anche i miei fratelli. Kevin è sempre in giro con Danielle, Joe è perennemente impegnato e Frankie cresce un giorno per due».
«Mi mancano» ammisi in sussurro, anche se la frase non era completa perché avrei tanto voluto dirgli che mi era mancato anche lui. Sfortunatamente però, non era possibile dire a parole quanto avessi sofferto della sua assenza. Cercai di non pensarci più, di inghiottire il magone che si stava formando alla gola e presi in mano la discussione prima che lui potesse aggiungere altro su quel fronte.
«E la carriera? Come va?».
«Bene. Cioè, mmm, ci siamo presi un periodo di pausa dalla band così che ognuno potesse fare ciò che si sentiva, ma adesso abbiamo un nuovo album in cantiere».
«Un nuovo album? Nick, è fantastico!» esclamai contenta.
«Sì, c’è voluto un po’ ma sta venendo fuori bene e… – mi guardò per un istante, ansioso – E mi chiedevo se avessi da fare oggi, perché potremmo andare in giro, fare quattro chiacchiere e magari pranzare insieme se ti va…» parlò tutto d’un fiato e per zittirlo dovetti poggiargli la mano sulle labbra.
Sorrisi, sorpresa e felice, mentre lo rassicuravo di avere tutta la giornata libera.
«Andiamo, allora» disse tutto raggiante mentre si alzava.
Camminammo a lungo, in giro per tutta Manhattan e solo quando la giornata fu sul finire sentii il peso di tutti quei passi percorsi. Non sapevo dove stavamo andando (e magari non lo sapeva neanche lui), ma mi lasciavo trascinare fiduciosamente, ascoltando con interesse tutto quello che voleva raccontarmi. Ben presto gran parte dell’imbarazzo ci abbandonò ed il modo in cui discorrevamo mi fece ricordare l’inizio della nostra conoscenza, quando non stavamo ancora insieme e non c’eravamo nemmeno lasciati.
Ci scambiammo qualche aneddoto vario, ridemmo e scherzammo un sacco e il tempo passò così in fretta che mi stupii parecchio quando mi accorsi che era già arrivata l’ora del tramonto. Lo scenario sembrava quello di un film: una zona appartata e tranquilla, un bel prato verde ben curato, le luci di New York poco distante da noi che iniziavano ad accendersi.
Tirai un sospiro e mi sdraiai sull’erba. «Era da tanto che non mi fermavo a guardare un tramonto».
«Vita frenetica?».
«Oh, non immagini quanto! Tra la scuola e il cercare di ricostruire la mia vita sociale non hai idea di quanto abbia faticato!».
«Sei venuta da sola qui?» domandò.
«No, sono con Loredana e Marco. Te li ricordi?».
«Certo che sì, la rossa incasinata e il moro che le correva dietro. – rise – Come stanno?».
«Alla grande, finalmente hanno capito di dover stare insieme. Ti dirò, da quando fanno coppia fissa mi stressano meno» ammisi divertita.
Nick non parlò per un po’, ma non appena si decise a farlo mi spiazzò tantissimo e avrei preferito dire qualcos’altro prima della sua domanda.
«E tu hai visto qualcuno in questi due anni?».
Lo guardai istupidita e confusa, pregando che si rendesse conto di quello che mi aveva chiesto e che si rimangiasse quelle parole.
Ora sì che stavamo entrando nella parte imbarazzante del discorso.
«A dire il vero sì, ma… Niente di che. Non si è mai arrivati a nulla. E tu?» risposi impacciata. Se le cose tra noi fossero andate in modo diverso, magari non mi sarei vergognata tanto di quello che avevo appena finito di dire. Ma avevo sempre con me quel piccolo rimorso che mi consumava il cervello e l’anima e pronunciare quelle poche parole fu pesante come trascinare un grosso masso su per una lunga salita.
«Beh, non proprio. Cioè sì, ho avuto una storia però…».
«Con Delta, lo so. – quella era l’unica notizia avuta di lui in quei due anni, arrivata a me totalmente per caso – E’ una bella donna».
«Sì ma… Con lei era diverso. Lei era diversa. Diversa da te».
Una piccola parte del mio cervello mi disse che la situazione stava diventando parecchio scomoda.
«Il mondo è bello perché è vario» sorrisi convincente sperando di portare il discorso da un’altra parte.
«Sei cambiata» commentò piantando i suoi bei occhi castani nei miei di poco più scuri.
«No, sono sempre la stessa. Fidati».
Mi sollevai e tornai a fissare il panorama, lasciando che tra noi si intromettesse un lungo silenzio. Non sapevo cosa fare o dire e, nel bene o nel male, lasciai che fosse lui a parlare di qualcosa.
E lo fece.
Anche se a proprio vantaggio, forse.
«Abbiamo sbagliato, io e te. A lasciarci, dico. O, perlomeno, a farlo in quel modo».
Il ricordo di quella chiamata, di quelle parole, dei dubbi e della tristezza mi fece venire i brividi.
«Probabilmente hai ragione, ma credo fosse necessario. Una cosa è certa: se non ci fossimo lasciati, ti avrei impedito di tagliarti i capelli».
«Oh, ma davvero?» rise.
«Assolutamente sì. Mi mancano i tuoi riccioli, non so più cosa farne delle mie dita».
«Potresti sempre intrecciarle alle mie».
Alzai gli occhi al cielo. «Vedo che il romanticismo è rimasto tale e quale a come lo ricordavo, eh Jonas?».
«Pare di sì, anche se credo che in parte sei tu a farmi questo effetto».
Nuovamente silenzio. E fu di nuovo lui a riprendere parola, visto che io mi sentivo come sottoposta alla lobotomia.
«Mi sei mancata, Anna. E mi manchi anche adesso» sussurrò stringendomi la mano.
«Anche tu mi manchi, Jerry. – confessai mentre appoggiavo il capo tra la sua spalla e l’incavo del suo collo – Certo che la vita è strana. Ora che finalmente l’avevo ripresa in mano ed ero riuscita a ricordare molto meno di quanto non facessi all’inizio ci ha fatti incontrare di nuovo».
Per quanto necessaria, non vedevo proprio l’ora di abbandonare quella conversazione e passare ad altro.  E ne ebbi subito l’opportunità.
«Oh cavolo!» esclamai a gran voce leggendo il nome sul display del cellulare.
«Che c’è?» domandò Nick, preoccupato.
«Loredana» dissi, e dal tono che usai si capì che mi aspettavo il peggio del peggio del peggio.
Il Jonas scoppiò a ridere mentre io mi alzavo e mi avvicinavo all’auto.
«Lore…».
«Dove diavolo sei finita, eh?! Dove ti sei cacciata?! Sai quanto grande è New York?! Sai quanti malintenzionati ci potrebbero essere a ogni angolo di strada?! E’ tutto il giorno che non abbiamo tue notizie! Hai idea di come ci siamo sentiti?! Marco stava andando alla polizia!».
Addirittura la polizia, che esagerazione.
O forse no.
Lasciai che mi urlasse contro e, quando ebbe finito, mi chiese infuriata: «Allora, non hai niente da dire?».
Le avrei tanto voluto rispondere che avrei parlato solo in presenza del mio avvocato, ma non lo feci perché sapevo cosa avrei potuto scatenare. Mi veniva anche da ridere, ma riuscii a trattenermi. Sapere che lei era su tutte le furie per una situazione che poi l’avrebbe rallegrata immensamente, mi divertiva.
Decisi di non ricordarle del biglietto e di andare dritto al sodo perché, effettivamente, aveva i suoi buoni motivi per stare in pensiero per me.
«Ho… Incontrato una persona e…».
«Una persona? Chi è, un maniaco, un ladro, un assassino, chi è?! Ti rendi conto che non puoi andare in giro con il primo capita?!».
Stava ricominciando il suo monologo, ma la bloccai subito.
«E’ un cantante. E, più precisamente, è un ex».
Silenzio dall’altra parte del telefono. Sospirai, sapendo di aver avuto l’effetto sperato.
«Lore, senti, mi dispiace per essere sparita nel nulla, avrei dovuto avvertirvi. – aggiunsi approfittando del suo silenzio – Però sto bene e…».
«Devi venire subito. Sai che ti fa male restare con lui. E poi dobbiamo anche fare le valigie» disse freddamente prima di riagganciare.
Mi sbagliavo a credere che sarebbe stata contenta di ciò che mi era successo.
Io però lo ero.
Anche se sapevo già che avrei pensato a quell’incontro per almeno due o tre mesi, anche se avrei rimpianto ogni singolo istante di quella giornata, anche se probabilmente sarei tornata a vivere nel buio per un po’.
Sapevo a cosa sarei andata incontro, a non riuscivo a capire se ne valesse davvero la pena o no.
Una parte di me urlava di sì, che dovevo vivere quella giornata intensamente senza avere ripensamenti e ricordandola solo con un sorriso; l’altra parte, invece, mi implorava di scappare via, di tornare indietro prima che fosse troppo tardi, prima che quell’incontro potesse avvelenarmi e fare avere una ricaduta.
Crescendo, avevo creduto di essere più forte, ma forse mi ero soltanto sbagliata.
«Hey, tutto bene?» mi chiese avvicinandosi.
«Sì, è tutto a posto, solo che…».
Ero felice e volevo stare con Nick, ma non volevo tornare a soffrire per lui.
«E’ solo che devo tornare in albergo, perché si è fatto tardi e abbiamo anche un impegno per stasera».
La seconda parte, quella egoista, aveva avuto la meglio.
«Oh, d’accordo, non c’è problema. Ti accompagno» disse con tono indifferente. Tuttavia, per quanto riuscisse a controllare la sua voce, non riusciva a fare altrettanto con gli occhi e mi sentii terribilmente triste e colpevole nel vederlo deluso.
«Non ce n’è bisogno, posso prendere un taxi» obbiettai, ma mi aveva già aperto la portiera.
Durante il tragitto ascoltammo tanta musica, canticchiammo e commentammo le scelte musicali dello speaker alla radio, anche se era chiaro che avevamo la mente altrove.
Quando ero più piccola mi riusciva difficile mentire, ma poi mi ci sono abituata e credo che anche per lui sia stato così.
Ci nascondevamo per paura di ammettere quello che sentivamo di dover dire, per paura delle conseguenze, convinti del fatto che i rimorsi sarebbero presto andati via e che avremmo superato tutto perché, se lo fai la prima volta, sei in grado di farlo anche la seconda.
In fin dei conti, era vero: siamo solo attori su un palcoscenico.
«Eccoci a destinazione» proclamò con finta allegria.
Bene, questa sì che era una cosa davvero imbarazzante.
Come avrei dovuto salutarlo? Cosa avrei dovuto dirgli?
«Già, sarà meglio che vada. – dissi guardando fuori dal finestrino – Buona fortuna per tutto. E, Nick, non dimenticare di andare a prendere Elvis!» aggiunsi chiudendo la portiera.
Sul serio l’avevo detto? Veramente avevo salutato una persona che non avrei mai più rivisto in vita mia (mi sarei ben guardata dal farlo) così? Fosse stato un estraneo, sarebbe andato anche bene; peccato solo che Nicholas non fosse uno sconosciuto qualunque.
Buona fortuna per tutto. E, Nick, non dimenticare di andare a prendere Elvis!, mi venne improvvisamente voglia di sbattermi ripetutamente la testa contro un muro.
Mi sarebbe tanto piaciuto schiacciare il tasto Stop, pensare a qualcosa di più carino e decente da dire e poi premere Replay. A volte mi domando perché la vita non possa essere semplice come usare un mp3.
Ero sul punto di spingere la porta a vetri dell’ingresso, ma fui richiamata e, girandomi, vidi che mi aveva già affiancata.
Ringraziai il Cielo che almeno uno di noi due fosse in grado di fare degli addii decenti.
Sorrideva e le sue guance erano di un rosso pallido. «Stavo pensando… Ehm.. C’è qualche remota possibilità di vederci domani, prima che tu parta?».
Peccato che non mi riuscisse a vedere dentro in quel momento, perché scommetto che sarebbe scoppiato a ridere e la sua risata mi serviva proprio. Mi ricordava di essere stata un po’ meno stronza, ecco.
Il cuore cominciò martellarmi veloce nel petto, lo stomaco faceva le capriole e gli angoli della bocca si aprirono per mostrare un altro sorriso.
Stavolta gli avrei risposto di sì. Lui voleva vedermi, era chiaro che ci teneva, ed io pensavo che magari avremmo potuto riscrivere la parte che riguardava i saluti finali.
C’era solo un piccolo dettaglio che avevo dimenticato e che non poteva, purtroppo, essere trascurato. E il mio sorriso si spense all’improvviso, così come si era acceso.
«Mi piacerebbe, davvero, non immagini quanto… Ma partiremo con il volo delle sette e mezza e dovrò essere all’aeroporto almeno un’ora prima per l’imbarco e tutto il resto» ammisi con una punta di tristezza.
Avevo smesso di credere nel destino da qualche tempo, ma non riuscii a fare a meno di pensare che, se esisteva, faceva di tutto per esserci sfavorevole.
«Ah, ho capito. Va bene, vorrà dire che… – mi tese la mano, gentilmente – Mi ha fatto piacere rivederti. Fa’ buon viaggio»
«Grazie, anche a me ha fatto piacere» affermai scacciando indietro quell’unica lacrima che si era formata.
E poi mi tirò a sé e mi abbracciò, ridendo piano.
Non fu un abbraccio spettacolare, come quelli a cui i film ci abituano, ma fu necessario per salutarci con un minimo di dignità e bello, facendoci capire che, nonostante tutto, non ci sarebbe stato rancore.
Mi sciolsi dalla stretta, sorrisi e sparii dietro la porta a vetri senza girarmi e senza dire più una parola.
Una volta entrata in camera, Loredana mi tempestò di domande, e anche Marco era curioso di sapere i dettagli, ma risposi brevemente promettendo di raccontare tutto il giorno dopo perché ero esausta per via della lunga giornata passata sotto il sole e non vedevo l’ora di andare a dormire.
Fosse stato per la mia migliore amica, nemmeno lei si sarebbe mossa da quella camera, ma fortunatamente il suo ragazzo capì il forte bisogno che avevo di restare da sola per riflettere e riuscì a convincerla per fare un ultimo giro.
«Se per caso dovessi sentire la voglia di scappare da qui, chiamaci e non lasciare altri bigliettini, va bene?» ridacchiò il moro prima di chiudere la porta.
Risi, mio malgrado, di quella battuta e tornai alle prese con le valigie, cercando di fare entrare tutto evitando un’esplosione. Terminai per l’ora di cena, ma non avevo né fame, né voglia di scendere al ristorante dell’hotel, così mi accontentai di una barretta di cioccolato che era dentro il frigobar e, dopo aver fatto una doccia, mi buttai a letto.
Avevo molto su cui riflettere e la mia mente viaggiava a mille, ma la stanchezza ebbe la meglio e crollai presto in un sonno profondo senza sogni.
 
Sono sicura che la sera prima, durante la loro uscita, Marco e Loredana avevano parlato di me e di Nick perché, quando, seduti in attesa di essere chiamati per l’imbarco, finii di raccontare dell’incontro, lei rimase in silenzio ed evitò di guardarmi in faccia.
Avrebbe voluto dirmi che avevo fatto male a passare la giornata con lui, ma non riusciva a trovare le parole e non voleva discutere. Era solo preoccupata per me e lo capivo. A nessuna ragazza piacerebbe vedere la propria migliore amica deprimersi di nuovo dopo che era riuscita finalmente a superare tutto, no?
Restammo in silenzio per un po’, e non solo perché non sapevamo cosa dire, ma anche perché era giunto il momento di realizzare che la vacanza era finita e che dovevamo tornare a casa e affrontare la nostra nuova vita da matricole.
Mi dispiaceva lasciare New York, mi ci sentivo legata. In un certo senso, sentivo che quello era il posto dovrei avrei dovuto essere, dove la mia perenne ansia di libertà e la mia voglia di fare qualcosa di grande (qualunque essa fosse) potevano finalmente essere appagate.  Scossi la testa dandomi dell’idiota: a volte reprimere i miei sogni ad occhi aperti era impossibile.
E poi c’era Nicholas.
Quando lo pensavo, la mia mente diventava bianca: non c’era un inizio, né una fine. C’erano il tutto e il niente, strano, ma vero.
Decisi di non pensarci ancora e così mi alzai. «Vi va un ultimo frappuccino?» domandai.
«Per me sì, sai come lo voglio» rispose prontamente Loredana.
«Anche per me, scegli tu. Sbrigati, però, che fra poco ci chiamano!».
«Agli ordini!» esclamai mentre mi allontanavo.
Lo Starbucks era al piano superiore, ma io, persa in quell’enorme struttura, non vedevo né le scale mobili, né gli ascensori, e non sapevo proprio come arrivarci. Gironzolavo a casaccio e, quando sentii chiamare il mio volo dagli altoparlanti, abbandonai ogni speranza di arrivare a destinazione e mi voltai per raggiungere i miei amici. Li vedevo già, erano in piedi e stavano afferrando i pochi bagagli a mano che avevamo.
E poi, inaspettatamente, mi ritrovai per terra, seduta sul pavimento e con  il fondoschiena dolorante.
«Oh, ma che cazz…?» feci in Italiano.
«Dio, scusami! Stavo cercando una persona e…», silenzio.
«E direi che l’hai trovata. Sempre ammesso che stessi cercando me» completai afferrando la sua mano e tirandomi su. Con la coda dell’occhio vidi Loredana e Marco fissarci, stupefatti, trattenendo il fiato.
«Sì, cercavo te» ammise, e mi sarei aspettata che fosse imbarazzato come lo era una volta, ma invece no; sembrava solo molto agguerrito e convinto di ciò che faceva o stava per fare.
Il mio cervello prese a farsi un’idea di quello che poteva succedere, ma mi trattenni perché divagare non era certo la cosa migliore da fare al momento.
«Sarò breve perché non voglio farti perdere l’aereo. Ti ho pensata tutta la notte, non immagini nemmeno quanto, e mi sono sorpreso a ricordare i tempi andati e ad accorgermi che… Mi manchi. Mi mancavi tanto e mi manchi ancora e mi mancherai sempre perché, nonostante tutto, nonostante i due anni passati, nonostante ci fossimo completamente persi, io provo ancora qualcosa per te. Non hai idea di quanto abbia rimpianto il non aver fatto niente mentre tu dicevi di volermi lasciare, il non aver preso il primo aereo per starti vicino, il non aver lottato perché ero troppo occupato a capire cosa avrei dovuto fare per soffrire di meno. E ho sbagliato. Ho sbagliato perché ho sofferto più di quanto non avessi creduto. E magari ti sembrerò pazzo, qui, ora, mentre te lo sto per chiedere, anche se è cambiato tutto troppo radicalmente; ma ti ho già perso una volta standomene con le mani in mano, e non voglio restare a guardare anche la seconda. Non devi compiacermi, non ti urlerò contro e non ti obbligherò a fare niente, ma ho bisogno di una risposta perché sento che potrei impazzare davvero stavolta. – fece una breve pausa – Vuoi venire a vivere con me?».
Vuoi venire a vivere con me, e il mondo si era fermato.
Non c’era più il rumore, non c’era più la gravità, non c’erano più Marco e Loredana e non c’era più Nick.
C’era solo un gran silenzio.
E c’ero io.
Io che, forse la prima volta, capivo di dover fare quello che sentivo di fare, anche se avrei vissuto lontano da casa, anche se mi sarebbero mancati la mia famiglia e i miei amici, anche se non sarei andata all’Università e non avevo idea di cosa avrei fatto nel mio futuro.
Era la mia chiamata e non potevo, e non volevo, rifiutare.
Mi sentivo libera da ogni legame, da ogni impedimento e da ogni aspettativa.
Mi sentivo libera di scegliere.
E scelsi ciò che volevo, ciò che avevo desiderato per due lunghi anni, sapendo di essere sulla strada giusta.
Mi avvicinai e gli sfiorai le labbra con le mie.
«Tutta la vita, Jonas».

So please, Love me do!

Se sei arrivata fin qui, beh, ti meriti i miei complimenti e tutta la mia stima perchè, oltre a essere incredibilmente lunga, questa storia è anche inverosimilmente pallosa e scritta male, ti pare?
Comunque sia, credevo fosse giusto rendere giustizia a questa coppia, che è stata la prima di cui abbia mai scritto (quattro anni fa, cavolo... O.O).
Beh, non penso ci sia altro da aggiungere... Ti ho già detto abbastanza nelle note all'inizio xD
Ti ringrazio veramente tanto per aver letto, ripeto che la storia non è proprio un gran colpo di genio, ma ci tenevo a scriverla e a pubblicarla :)
Alla prossima! :D

A.

P.S.: Ma solo a me capita di essere abbandonata dall'editor? D:
  
Leggi le 3 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > Jonas Brothers / Vai alla pagina dell'autore: Aine Walsh