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Autore: Carax_Sophie_D    10/09/2012    1 recensioni
Esiste forse un luogo più romantico, travolgente ed elegante? La baguette, i croissant ancora caldi nelle mille pasticcerie, la “Vie en rose”, la tour effeil e Parigi.
Genere: Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Quanto tempo avrò passato a contemplare quel castello con mia sorella? Quel lussuoso "Château" come lo chiamano lì, in Francia. Esiste forse un luogo più romantico, travolgente ed elegante? La baguette, i croissant ancora caldi nelle mille pasticcerie, la “Vie en rose”, la tour effeil e Parigi. Ricordo che per buona parte della mia infanzia alla domanda “Cosa vuoi fare da grande?” io
 rispondevo tutta fiera “Voglio andare a vivere in Francia a leggere racconti tra le strade!”; dando quella risposta mi ritrovai spesso in castigo ed imparai troppo presto a tenere nel mio cuore questi pensieri. A quei tempi certe cose non si potevano dire, soprattutto a sei anni.
Tre o quattro volte l'anno io e mia sorella andavamo da mia zia che abitava in una piccola casetta a due piani, più la soffitta: la nostra camera. Nelle giornate di pioggia vista l’impossibilità di uscire, trascorrevo i pomeriggi a trovare i dettagli nel paesaggio che agli altri sfuggivano. La gente camminava veloce per non bagnarsi, vi erano pozzanghere ovunque in cui, quando tornava il sole, gli uccellini amavano giocare. Gli alberi erano spogli, l’estate era ormai finita ma alcuni bambini più grandi di me sembravano non accorgersene e giocavano noncuranti del temporale. Vedevo anche il negozio della signora Alizée. Devi sapere, gentile lettore, che la sua era la pasticceria più buona di tutta Saint Gérmain e non c’era persona che non vi fosse entrata. Alizée era una donna robusta con mani possenti ma con dei lineamenti del viso, più dolci dei suoi éclair e, a fare da contorno, aveva dei lunghi e morbidi capelli neri che però teneva raccolti. A me e a mia sorella regalava sempre dei biscotti a fine giornata e tutto diventava più bello. Quando mi stufavo di guardare fuori, ci sdraiavamo sul letto e, tenendoci per mano, con gli occhi chiusi, percorrevamo tutte le stanze del castello, diventavamo delle principesse ed era tutto nostro. Era bello sognare. La mattina invece amavo spiare l'alba, scostavo le tendine di pizzo e vedevo la città svegliarsi, cieli di edifici punteggiati da timidi alberi e poi eccolo, l'oggetto dei nostri sogni fanciulleschi.
Era composto da cinque parti, due torri ai lati seguite da altre due strutture che facevano da contorno alla facciata principale. Vedevo in totale trentun finestre. Quanto mi sarebbe piaciuto aprirle tutte assieme e tra le mille correnti d'aria immaginare di essere in cima al monte più alto. Sul davanti c’era un giardino incolto ma ricco di rose selvagge, di tutti i colori; se chiudevo gli occhi, nelle giornate ventose, potevo sentirne le fragranze. Infine, ai lati di questo prato, vi erano due stradine che si allungavano, unendosi, fino al portone d'entrata, alla cui sommità vi era uno strano stemma. Era un luogo completamente disabitato e spesso ci domandavamo se saremmo mai riuscite ad entrarci. Cosa avremmo trovato? Quante meraviglie può contenere un gioiello del genere?
Due bambine, di solito, non giravano da sole. Quel giorno avevamo convinto la zia a farci uscire dopo aver finito i compiti delle vacanze che ci avevano assegnato a scuola; saremmo dovute andare solo fino alla pasticceria di Alizée. Una volta arrivate però non ci furono né bignè né pagnotte in grado di distrarci dalla nostra meta e così proseguimmo, velocissime, col fiato che veniva meno e i cuori a mille. Arrivate alla recinzione che passava tutt’intorno al castello scoppiammo a ridere come non mai: non eravamo mai state più felici. Trovammo uno squarcio nella rete tanto grande da far passare i nostri piccoli corpi, ma non osammo mai avventurarci oltre; era come un luogo sacro e riponemmo il desiderio in un cassetto. Era stata la giornata più emozionante e fuori dal comune di tutta la mia infanzia ed ora ne è dolce il ricordo.
Ci tornammo ancora qualche volta, poi però Annie, mia sorella, si ammalò e non potevo disturbarla, mi dicevano, né tantomeno andare al castello da sola. Iniziò così la mia lunga e appassionata relazione con il signor Mondo della lettura; infatti ero diventata improvvisamente sola, si preoccupavano tutti e solo di Annie. Il perché di tutta questa grande agitazione, per quanto insistessi, nessuno me lo diceva. Passavo le mie giornate nella libreria dietro casa, prendevo un libro e mi nascondevo, poi, arrivata l'ora di andare, lo rimettevo al suo posto con una piccola orecchietta: è un hobby costoso la lettura. I libri divennero il mio cibo e la mia acqua. Le nostre vacanze dalla zia non erano ancora finite ma purtroppo dovemmo tornare a Poissy perché la malattia di mia sorella lentamente peggiorava e mia madre voleva portarla dal nostro medico, il signor Hervé: un omaccione grasso, pelato, sempre sudato e, a mio parere pure poco simpatico. Il genere di persona che ti fa la puntura al due anziché al tre.
Fatte le poche valigie tornammo a casa col primo treno ma non era la solita casa allegra e colorata. Aleggiava sempre nell’aria un denso senso di preoccupazione, sconforto e disperazione, i miei genitori inoltre passavano il loro tempo o nella stanza di Annie oppure nella loro camera, parlando per ore finché non udivo i singhiozzi strozzati di mia madre. Me li immaginavo seduti sul letto, i grandi occhi neri di lei fissati nel mare degli occhi di lui. Le mani intrecciate, il cuore a piccoli pezzi e la consapevolezza reciproca di un’imminente sventura. Questa mia immagine di loro mi sveglia ancora oggi nel cuore della notte.
La mia solitudine quindi, da quando ero tornata, non cambiò d’una virgola e i libri mi rimasero fedeli. Visitai cosi un`infinità di luoghi al confine del mondo, imparai ogni sfumatura della gioia e del dolore ma, per quanto mi appassionavo, si annidava comunque in me una triste malinconia: gli anni passarono e a Saint Gérmain non tornammo più.
Ogni tanto andavo a trovare mia sorella quando mi era permesso, ma diventava sempre più pallida, i fiori delle sue guancie appassivano, alla fine non mi parlava nemmeno più, così le prendevo le mani e le raccontavo storie. Mentre parlavo i suoi occhi si muovevano veloci e brillavano, pareva entrare letteralmente nei miei racconti e, una volta che avevo finito, mi rivolgeva il più bel sorriso con gli occhi.
“Tra qualche giorno non potrai più raccontarmi storie Sophie.” disse un giorno con un filo di voce ed io risposi un po’ offesa: “E perché no? Ti sei forse stufata della mia voce?”.
“No, anzi, vorrei che questo pomeriggio non finisse più. Ma sai, il Signore mi vuole al suo fianco e dovrò partire per un lungo viaggio.”
“E quando tornerai? Non starai mica via per sempre?”
“Un giorno ci rivedremo però, nel frattempo, non ti scordar di me.” L’ultima parola si ruppe come un grissino e lacrime copiose le rigarono il viso, l’abbracciai con tutta la mia forza e le dissi
“Non voglio vederti partire.” Le dissi asciugandole il dolce volto, le accarezzai poi il naso perfetto e le dissi
“Non ti lascerò andar via, non lo permetterò.”
Fu la nostra ultima conversazione, nonostante la cercassi sempre in giro, non la rividi più.
Sono passati quindici anni e, per quanto tempo sia trascorso, non ho mai dimenticato quel magico posto e così, eccomi qui al castello. Come la bambina che ero sono entrata dall'unica porta che, non con poco sforzo, sono riuscita ad aprire. “Ci sono” mi dico, “Ce l`ho fatta” e mano nella mano con lo spirito di mia sorella inizio la perlustrazione dal vivo del castello, glie lo dovevo, questa esperienza è per lei.
Immaginati lettore, lo stupore nei miei occhi quando mi sono accorta che la realtà andava ben oltre ai miei sogni. Credevo di non trovare nulla a parte una grandissima quantità di polvere. Mi sbagliavo. A quanto pareva, nessuno oltre a me era entrato li dall`ultima volta che fu chiuso. 
Ho trovato nel corso degli anni una moltitudine di leggende su questo luogo, ma quella a cui ho dato più credito è la seguente: tanti anni fa era un ricco ed affollato palazzo, servi a bizzeffe e quasi ogni sera vi eran feste, magnifiche carrozze e vestiti, gioielli, scandali e passioni. Il padrone di casa, un certo Eleuthère, non si sa bene il perché, divenne pazzo, sentiva improbabili presenze, urlava nella notte cose incomprensibili e non volle più toccar cibo. Divenne col passare delle settimane un essere vagante per il castello che a vederlo era veramente ripugnante. Naturalmente la voce della sua inanità mentale si sparse a macchia d`olio e presto in quelle mura si trovarono solo Eleuthère e qualche fedele domestico. Il resto della storia non si sa, quello che posso dirti è che un mattino non lo trovarono più nella sua stanza, e, convinti tutti che fosse scappato in preda alla follia, fecero le valigie in gran fretta finché il cancello del castello non si chiuse per l`ultima volta.
E' mercoledì mattina del 1945. Aprendo la porta del castello, un lieve venticello mi porta un odore di chiuso, di vecchio, simile al profumo delle pagine dei libri antichi. Faccio qualche passo spinta da non so bene quale forza e, arrivata al centro della stanza, mi blocco. Mai, e dico mai, nella mia vita, ho provato un sentimento del genere ma, caro lettore, per farti capire meglio la mia esultanza, ti descrivo la stanza in cui mi trovo. 
E’ un salone, probabilmente quello in cui si davan feste. Ci sono due immensi lampadari di cristallo, sedie e sofà sui lati. E il tutto è illuminato da due grandi porta finestre drappeggiate da intense tende rosse. Vi è anche un grande specchio, rotto, e un tavolino pieno di calici; il soffitto.. è qualcosa d'indescrivibile. Sui contorni è dipinto d'oro, intravedo dei fiori e degli uccelli, al centro invece, vi è un enorme disegno con una moltitudine di persone ed angeli, sembra quasi la scena dell'incoronazione d'un re. 
Non riesco a staccar gli occhi da quelle figure, sono come una bambina che vede per la prima volta i fuochi d'artificio, incantata e trasognata.
Abbassando lo sguardo dopo non meno di cinque minuti, i miei occhi si posano su una maestosa porta di legno intagliato. Vi era una data sopra, 1617. La apro e il paradiso in terra si staglia ai miei occhi: la biblioteca del castello. 
Pareti altissime a perdita d'occhio, tre specchi che danno ancora più profondità alla stanza, tavoli, sedie, un camino annerito dalla fuliggine e lampadari grandi quanto, o forse di più, quelli del salone. Su ogni parete ci sono almeno un migliaio di libri. Scorro quelli dell'ultima fila con la punta delle dita e ritorno indietro nel tempo, ritorno alle mie giornate in libreria, alla malattia di Annie. Fa paura scrivere il nome di ciò che me l'ha portata via. Ma perché fuggire dalla realtà? Era malata di cancro e io non ne sapevo niente, stava morendo sotto i miei occhi ingenui ma non hanno ritenuto che io dovessi saperlo. 
Improvvisamente inizia a girarmi la testa, mi siedo e trovo davanti a me un libro aperto, gli do' un'occhiata ma è scritto in una lingua a me sconosciuta. Ci sono varie fotografie e, non capendo a cosa si riferiscono, mi segno il titolo su di un pezzo di carta. Di che lingua si trattava? E sopratutto, come mai è l'unico volume fuori posto? Sta arrivando il pomeriggio e dovendo fare un bel tratto di strada prima di arrivare a casa decido che per il momento la mia esplorazione è terminata e, attenta a non essere vista, esco e mi avvio alla stazione. Molte domande mi riempono la mente, aveva fatto uno strano effetto su di me l'ultima stanza. Sebbene non so esattamente di che cosa si tratti, sento che c'è qualcosa, ma, ne ero certa, avrei trovato le risposte a tutti i miei dubbi.
  
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