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Autore: Kourin    12/09/2012    4 recensioni
Misaki era riverso a terra. Quando Hikaru era corso verso di lui, le gambe si erano mosse senza bisogno del pensiero. Il braccio destro si era proteso in avanti per afferrarlo, come se all'interno del campo si fosse aperta una voragine che avrebbe potuto inghiottire per sempre la persona che aveva conosciuto come Taro Misaki.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Hikaru Matsuyama/Philip Callaghan, Taro Misaki/Tom
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Premessa

Quando al contest “Yaoi Captain Tsubasa” mi era toccata la coppia HikaruxTaro, avevo pensato di ambientare la storia in Golden 23, dato che è il momento in cui i due tornano ad interagire un pochetto dopo volumetti e volumetti di silenzio. Tuttavia ho lasciato perdere: sapevo che mi sarei complicata la vita e che, di conseguenza, mai sarei riuscita a consegnare la storia in tempo.

Però complicarsi la vita è bello, se lo si fa con calma!

Con i dovuti tempi di gestazione, riecco Matsu e Misaki in una storia che è complementare a “La stagione della lavanda” solo, appunto, nelle stagioni. Per il resto segue una cronologia differente ed è un po' più cupa.

 

Sempre con me

di Kourin

 

1. Pioggia

 

Misaki era riverso a terra. Quando Hikaru era corso verso di lui, le gambe si erano mosse senza bisogno del pensiero. Il braccio destro si era proteso in avanti per afferrarlo, come se all'interno del campo si fosse aperta una voragine che avrebbe potuto inghiottire per sempre la persona che aveva conosciuto come Taro Misaki.

Ma Misaki si era rialzato da solo. La sua tempia aveva subito una lacerazione, forse non profonda ma tale da suscitare impressione. Il sangue grondava sulla metà sinistra del viso, trasformando i lineamenti delicati in una spaventosa maschera rossa. Come se il guerriero in lui risvegliatosi fosse stato divorato dal demone che gli aveva concesso di sferrare il colpo decisivo all'avversario.

Il boato di entusiasmo della folla assiepata sugli spalti avrebbe dovuto fare da eco alla gioia per il gol segnato, invece non fece che intensificare in Hikaru la sensazione che la vita di un ragazzo, o un qualcos'altro che non era vita ma che egli considerava altrettanto essenziale stesse davvero per precipitare in un baratro.

Tutto questo stava accadendo nel cuore dello Stadio Nazionale Olimpico, il luogo dove ciascuno di loro aveva fantasticato almeno una volta nella vita di poter giocare. Si trovavano ad un passo dal cielo dopo aver scalato la cima di un'impervia montagna. Ma se il cielo avesse precluso il suo accesso, la vetta raggiunta dopo tanti sforzi non sarebbe diventata altro che l'orlo del precipizio.

Hikaru pose istintivamente la mano sulla spalla di Misaki. Sotto ai muscoli tesi poteva sentire il suo respiro. Era ancora lui, era il respiro del Taro Misaki che conosceva. Arrivò Misugi e poi il resto della squadra accorse tutt'intorno, la preoccupazione e l'esultanza sospesi in un limbo. Avevano pareggiato contro la Nigeria, ottenendo la conferma che loro ventitré e loro soli  erano i legittimi titolari della squadra che avrebbe inseguito il sogno dell'oro olimpico.

Fu Wakabayashi a rompere il silenzio, con la sicurezza che lo aveva sempre contraddistinto. Strinse il pugno ricoperto dal guanto. “I preliminari asiatici che ci porteranno alle Olimpiadi... li vinceremo con questi giocatori!” esclamò.

“Misaki, afferreremo la vittoria con le nostre mani,” confermò Hikaru. La fascia di capitano che gli cingeva il braccio era più stretta del solito, a conferma che stavolta non si sarebbe trattato di un passaggio transitorio.

“Vinceremo grazie alle nostre forze” affermò Jun Misugi.

“Sì, senza l'aiuto di Tsubasa e degli altri che sono all'estero, con le nostre mani e con le nostre forze...” continuò Taro Misaki.

“Vinceremo la qualificazione alle Olimpiadi!” acclamò all'unisono il resto della squadra, suggellando il patto.

Da un momento all'altro avevano guadagnato la fiducia dei tifosi. L'energia del pubblico, volubile ma dirompente, converse in uno scroscio di applausi che spazzò via all'istante l'atmosfera irreale creatasi dopo l'ultimo gol. Il dolore degli adduttori contratti si fece sentire nelle gambe di Hikaru, ora nuovamente consapevole di poggiare gli scarpini sul concreto suolo giapponese.

Lo staff medico iniziò subito ad occuparsi della ferita di Misaki. Gli controllarono le pupille, i riflessi, gli posero domande per capire se fosse vigile o meno. Inizialmente proposero di caricarlo su una barella, ma lui rifiutò fermamente. Era comprensibile che l'eroe del match volesse lasciare il terreno della battaglia reggendosi con le proprie forze. Anche quando Ishizaki si offrì di sorreggerlo, lui rifiutò.

Il medico spiegò ai ragazzi di Shizuoka che avrebbero medicato velocemente il loro amico in infermeria e che poi lo avrebbero trasferito all'ospedale per una serie di accertamenti: benché la ferita fosse superficiale, la botta che aveva preso non era certo uno scherzo e si rendevano necessari degli esami approfonditi.

“Io verrò con voi,” affermò Hikaru intromettendosi nel gruppetto.

Misaki lo guardò fugacemente mentre un assistente tentava di rimuovere un po' del sangue che si stava incrostando intorno al suo occhio. Era uno sguardo determinato e stranito allo stesso tempo, come se aspettasse da un momento a l'altro il fischio d'inizio di un immaginario tempo supplementare. Anche gli altri guardarono il capitano con una certa sorpresa, ma nessuno mise in discussione la sua decisione. Misugi invece gli diede una leggera pacca sulla spalla e annuì. Hikaru ricambiò con un sorriso e insieme andarono a salutare i tifosi.

Dopo una doccia veloce si sistemò alla meno peggio e corse subito in cerca del signor Nakamura, il massaggiatore, che lo informò che Misaki sarebbe stato trasportato con un'ambulanza e che sarebbe stato quindi accompagnato soltanto dal medico. Hikaru ringraziò ancor prima che potesse terminare il discorso, si diresse di corsa verso l'uscita, scansò cameraman e giornalisti ma quando finalmente il piazzale antistante lo stadio si aprì davanti ai suoi occhi poté solo scorgere in lontananza le luci dell'ambulanza che si immetteva sulla strada principale. Hikaru sospirò, lasciò cadere in terra il borsone che portava in spalla e alzò gli occhi al cielo. Stava per piovere. La luce violenta dei fari che avevano illuminato a giorno l'arena avevano permesso ad imponenti nubi scure di addensarsi di soppiatto l'una sull'altra fino a formare una cappa compatta: non avrebbero lasciato scampo a chi  si fosse lasciato sorprendere sprovvisto di ombrello. Gli spettatori della partita, dimentichi dell'atmosfera festosa che li aveva contagiati, si stavano affrettando a rientrare per non venire sorpresi dal temporale incombente.

A Hikaru però non importava molto della pioggia, forse perché i suoi capelli, spessi e folti, erano ancora fradici. Si sorprese quando un'improvvisa folata di vento caldo riuscì a scompigliarli, donando alle guance una sensazione simile a quella di una carezza e porgendo alle orecchie un fruscio di chiome di alberi. Nonostante il vociare della gente e il viavai di mezzi, lo poteva percepire come un suono nitido.

“Matsuyama, quanto tempo.” Una voce che sembrava un eco dei suoi pensieri lo raggiunse. Hikaru si voltò. Il padre di Misaki gli stava venendo incontro dal vicino viale. Il tempo non aveva cambiato per niente quell'uomo robusto e tranquillo, con mani da contadino e il talento d'artista: la sola cosa insolita era di poterlo guardare negli occhi senza dover alzare il naso all'insù.

“Signor Misaki!” Esclamò Hikaru.“Sarà passata una decina d'anni! Se ben ricordo l'ultima volta ci  siamo visti al campionato delle elementari...”

“E' così,” confermò l'uomo. “Ne avete fatta di strada tu e Taro!”

“Ho fatto del mio meglio...” si schermì Hikaru.

“Quando vi guardavo giocare da piccoli mai avrei pensato che vi avrei rivisto l'uno al fianco dell'altro qui a Kasumigaoka.”

L'uno al fianco dell'altro? Non era questa la sensazione che aveva provato. Hikaru aveva sempre inseguito Misaki, ma non era mai riuscito a stare davvero al suo fianco. Non era un concetto semplice da spiegare, così mandò subito avanti la conversazione: “Sta andando all'ospedale?”

“Sì, naturalmente.”

“Ecco... in realtà ci sto andando anche io,” disse un po' imbarazzato.

“Lo immaginavo” disse Ichiro Misaki, mentre i fari di un taxi che stava sopraggiungendo gli illuminavano il sorriso calmo. “Possiamo andarci insieme, se vuoi. Forza, sali.”

Hikaru ringraziò, sistemò il borsone nel bagagliaio e salì sul taxi. L'interno della vettura era  piacevolmente fresco, forse fin troppo per Hikaru che era abituato a vivere senza l'aria condizionata. Come porte automatiche si chiusero, un ticchettio crescente di pesanti gocce iniziò a riecheggiare nell'abitacolo.

“Siete saliti giusto in tempo!” esclamò il tassista.

Poi un violento acquazzone si abbatté sullo stadio.

 

Giocavo a calcio con Matsuyama, ma per rincorrerci siamo andati molto lontano. Lui voleva convincermi ad entrare in squadra. Io dicevo di no perché non so quando mi trasferisco di nuovo. Il cielo era nero e si sentivano anche i tuoni: stava per scoppiare un brutto temporale. Allora siamo tornati indietro di corsa. Io che difendevo ancora il pallone sono scivolato e mi sono sbucciato un ginocchio. Poi però mi sono rialzato.

Matsuyama ha detto: “Sanguina, fermati.”

Io ho risposto: “Non è niente.”

Matsuyama ha ripetuto: “Sanguina,” e proprio in quel momento ha iniziato a piovere. Erano gocce molto grosse e fredde e ci siamo inzuppati subito.

Ho detto: “Hai visto? Dovevamo correre!”

Matsuyama però non mi ha risposto. Si è inginocchiato davanti a me e ha detto:“Ti porto in braccio.” Il pallone invece lo ha tenuto a terra perché nel calcio solo il portiere può toccarlo con le mani.

Mi ha accompagnato verso il bosco perché lì c'è una scorciatoia. C'erano molti fulmini, uno è caduto in un prato vicino. Poi è arrivato il tuono fortissimo. Matsuyama ha detto:“E' Raiju che arriva, dobbiamo sbrigarci.”

Raiju è la bestia del fulmine. Dicono che va in giro quando ci sono i fulmini e che il tuono è il suo verso. Ho chiesto: “Lo hai mai visto?”

“No, ma sono sicuro che esiste. Ho visto i segni dei suoi artigli.”

“Hai paura di lui?”

“No, ma bisogna starci attenti. Come tutte le bestie. A te fa paura?”

“No.”

“Lo dicevo io che hai coraggio! Sei proprio uno dei nostri!”

Un altro tuono fortissimo ci fa quasi diventare sordi. Forse era Raiju che ci aveva sentito, non gli piace che non si abbia paura di lui!  Ci siamo riparati sotto una casetta di Jizo. Sono sceso dalla schiena di Matsuyama. In terra c'era molto fango.

Jizo è di pietra e sorride sempre a tutti. In una mano tiene il bastone, nell'altra una gemma. Ieri era vestito con un mantello rosso e non era tutto zuppo come noi. Gli abbiamo chiesto il permesso di ripararci sotto la sua casa. Jizo non ha detto niente allora lo abbiamo ringraziato e siamo rimasti ad aspettare. Faceva freddo e ci è venuta la pelle d'oca. Matsuyama mi ha legato un fazzoletto intorno al ginocchio perché con la pioggia il sangue non si asciugava.

Ad un certo punto ho sentito la voce del papà che mi chiamava. E' venuto a cercarmi e mi ha portato l'ombrello. Ha subito guardato il mio ginocchio.

Matsuyama ha detto: “Non lo sgridi, è colpa mia se siamo andati così lontano.”

Il papà gli ha risposto: “Non volevo mica sgridarlo!”

Matsuyama allora ha fatto una faccia buffa e io e il papà siamo scoppiati a ridere.

Il papà ha detto: “E' solo un graffio, ma andiamo subito a casa a medicarlo prima che faccia infezione.” Poi ci ha dato il suo impermeabile e ha detto: “Copritevi tutti e due.”

Abbiamo guardato se intorno c'era Raiju (non c'era proprio) e poi abbiamo camminato per la strada che passa per il bosco. Un po' per volta ha smesso di piovere. C'erano solo le gocce grosse che cadevano dagli alberi e qualche volta ci siamo passati sotto apposta. Matsuyama rideva con me. Vicino a lui ho smesso di avere freddo. Gli ho detto: “Entrerò in squadra.”

Non gli ho detto però che voglio diventare più forte di lui. Prima Matsuyama è riuscito a portarmi via il pallone. Nessun bambino della mia età lo aveva mai fatto.

Lui mi ha stretto forte la mano. Io ho stretto forte la sua.

 

Hikaru telefonò a Yoshiko dicendole che non sarebbe rientrato a Sapporo né in serata né l'indomani.

“E' difficile da spiegare, ma voglio seguire la situazione di Misaki, sono preoccupato per lui.”

“Sempre il solito. Finirà per odiarti.”

“Dici davvero? Sto esagerando?”

“No, sei fatto così. Sinceramente non ho voglia di cambiarti, sarebbe un'impresa disperata.”

 

 


*** *** ***


Note varie

Furano esiste, si trova proprio nell'esatto centro dell'isola di Hokkaido e nome, in kanji ovvero ideogrammi, si scrive così: 富良野. In Captain Tsubasa però il nome “Furano” è scritto in hiragana ovvero nell'alfabeto sillabico semplificato ovvero così: ふらの. Questo, per un lettore giapponese, significa che “Furano” della finzione non è necessariamente “Furano” reale. Forte di questo particolare, mi permetto di descrivere la cittadina usando la fantasia.

Jizo è una “divinità buddista” (più propriamente un “bodhisattva”) protettrice dei defunti, dei bambini e dei viaggiatori. Le sue statue si trovano spesso per le strade del Giappone. Ignoro se si trovino anche in giro per Hokkaido ma io ce le ho messe lo stesso (e la scena in cui compare è una citazione di “Il mio vicino Totoro” con Raiju al posto di Totoro perché sono una fangirl e amo Hyuga!) XD

Segnalo anche che sia per le vicende di Matsu e Misaki sia per le descrizioni non faccio riferimento agli anime ma al manga, rigorosamente ambientato all'inizio degli anni ottanta.

 

 

 

  
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