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Autore: AltheaM    12/09/2012    2 recensioni
Una leggenda celtica racconta che nel cuore dell'oceano sorga un'isola dove dimorano le anime dei morti, in una perenne primavera. Su di essa, uno solo calca le sue fruttifere terre recando il dono della vita...Colui che è destinato a tornare.
" Fin dove è pronto a spingersi il destino per te, Jim Hawkins? [...] E se Avalon non fosse solo una leggenda? Saresti pronto a seguirmi? "
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 4

699 Hela


Eos sciolse dolcemente la sua rosea chioma.
La osservò, in silenzio, disperdersi fluida nel cielo scuro, sospinta dal vento, mentre affondava distrattamente le lunghe dita nelle ciocche morbide, strappando via le ultime ombre che increspavano il firmamento e lasciando dietro di sé una scia di tenui ed eteree tinte. Era il preludio dell’aurora. Aspettava pazientemente, rivolgendo i candidi occhi all’orizzonte nel tentativo di scorgere il dorso luminoso del fratello incendiare il cielo, cacciandola via con il suo fulgore, troppo accecante per lei. Nell’attesa dipingeva viziosamente bianche striature di nuvole che sferzavano il mattino, alitando dalle suadenti labbra una delicata brezza che sapeva di primavera.
Lentamente i suoi capelli cominciarono a infiammarsi di vividi colori, stendendo sfumature indescrivibili.
In quella mattina di dolce candore, una ragazza se ne stava in silenzio a contemplare il mondo, dall’alto del suo davanzale, simile ad una principessa imprigionata che scruta l’orizzonte in cerca della propria salvezza.
Il vento caldo le sfiorò il viso, scostandole con una carezza i ricci fulvi indomabili che se ne stavano pigramente arruffati sulla fronte. Abbracciò malinconica una gamba, premendola con forza contro il petto, e lasciando che l’altra oscillasse senza vita, disegnando distratti cerchi rotti nel vuoto. I piedi nudi vennero solleticati dalla brezza mattutina.
Aveva il volto disteso, privo di quelle espressioni che avrebbero potuto tradire il nuvolo di pensieri che le ingombravano la mente; fissava determinata un punto imprecisato nel cielo, forse alla ricerca del primo balugino di sole. Di tanto in tanto si bagnava distrattamente le labbra turgide, rese secche dal lungo silenzio nel quale si era esiliata, trattenendo i sospiri che le si accalcavano, mesti, nel petto, sforzandosi di ricacciare indietro quella tristezza che le pesava gravosamente sulle spalle e sul cuore.
Una sensazione, quella, che la soffocava, la stringeva, simile al fastidioso abbraccio di una coperta che riscalda troppo, ma del quale, una volta privi, se ne sente subito il bisogno. Abbassò gli occhi. Delle volte quell’impressione di oppressione si presentava così vivida, così intensa, da renderla incapace di contrastarla. E in quel momento, con il mondo sfiorato dai rosei raggi dell’alba che lo rendevano incredibilmente nostalgico, si sentì sopraffatta.
La ragazza senza nome.
Ecco quello che era.
Nella brezza mattutina, con il cielo che s’incendiava di un turbinio di vivide tonalità calde, la solitudine della propria esistenza si presentò violenta, arricciando le sue labbra e pronta a spegnere con un soffio la meraviglia di quel mattino, lasciandole intorno solo il buio, il vuoto.
La ragazza senza nome, ripeté fra sé e sé, con un sussurro di voce.
Un appellativo scritto indelebile nella sua mente, un manifesto che sentiva di portare inciso sulla pelle e del quale si sarebbe volentieri sbarazzata. E ci aveva provato. Davvero. Ma quello si ripresentava ostinato in ogni suo pensiero o atto, lasciando che dilagasse in lei un inspiegabile impressione di inesistenza.
Socchiuse gli occhi, abbandonando la testa indietro, mentre osservava il sole sorgere pigramente spegnendo le ultime stelle tardive con il suo soffio di luce.
Gli occhi le bruciavano per il sonno di cui si era volutamente privata, mentre la bocca si riempiva dei sbadigli pigri che salivano grattandole la gola, spargendo un po’ di rumore in quel mutismo che oramai si era fatto insopportabile. Prese a respirare con calma, allontanando per l’ennesima volta tutta la tristezza che le si era accumulata nel cuore, lasciando che fosse la brezza del nuovo giorno a trasportarla via con sé, lontano, in quell’universo sconfinato del quale lei riusciva appena a scorgere un lembo dalla sua finestra.
“Già sveglia?”
Quella domanda, quella voce, la fecero trasalire, minacciando di farla cadere dal davanzale. Si aggrappò con forza al legno, quasi d’istinto, mentre in petto sentiva esplodere un tumulto di battiti. Si lasciò sfuggire un gridolino di sorpresa mentre tentava di recuperare stabilità, simile ad una maldestra e sgraziata equilibrista caduta in fallo. Ripresasi, ruotò curiosa lo sguardo sulla soglia della camera, alla ricerca delle labbra che avevano pronunciato quelle parole, intravedendo una sfumata sagoma nera che se ne stava oziosamente addossata sullo stipite, le braccia incrociate e la testa leggermente inclinata. Una smorfia di fastidio le incrinò i volto.
“Potrei farti la stessa domanda…”
Sussurrò con voce secca, accentata di noia, alzando rapidamente un sopracciglio e accennando un sorriso falso, quasi inutile.
Era troppo presto per prendersela con quel ragazzo sbruffone.
Gli diede le spalle senza pensarci, tornando ad ammirare la lenta ed inevitabile fuga dell’aurora che lasciava il posto al nuovo giorno, suo eterno inseguitore, sentendo la mente diradarsi tra quei pensieri tristi, quasi farsi vuota.
Udì i passi del giovane scricchiolare nella stanza, farsi sempre più vicini, ma i suoi occhi erano troppo pigri, troppo stanchi ed arrossati per rivolgergli anche un minimo di considerazione. Non aveva voglia di incrociare quello sguardo cristallino, non voleva vedere la sua bocca, il suo naso, le sue gote...Si sentiva stanca, spossata, e la sola vicinanza con Jim non faceva che amplificare quella sgradita sensazione.
“Posso sedermi?”
Domandò quello non appena le fu a pochi passi. Sentì il profumo della sua pelle invadergli le narici, la sua presenza farsi sempre più intensa, più palpabile.
“No.”
Rispose breve, senza voltarsi, sprofondando di più nella contemplazione del cielo mattutino e sforzandosi di rivolgere la sua attenzione alle nuove tinte con cui il sole lo pennellava. Lo sentì sorridere scocciato, scalpicciare con i piedi sul pavimento.
“Potresti mostrarmi un po’ di cortesia, dato che sono stato io a salvarti!”
Gli ribatté Jim, rimanendo immobile dietro di lei, una mano a mezz’aria che la puntava.
La ragazza si limitò ad alzare le spalle annoiata, immaginando il fastidio che gli infliggesse con quel gesto. Lo sentì sbuffare, agitarsi, trattenersi dal dire qualcosa. Chissà perché sorrise all’idea del suo viso imbronciato, della sua fronte corrucciata, dello stupore che sapeva avrebbe trovato nel suo sguardo, misto ad una lieve scintilla di rabbia. Sorriso che si affrettò a nascondere.
Poi, inaspettatamente, mentre era così presa dai suoi pensieri, anche lui si sedette sul davanzale, ad un’esagerata distanza da lei, fingendo di scrutare l’orizzonte irraggiungibile.
Cercò di ignorare la sua presenza, di riprendere il malinconico filo dei suoi pensieri, ma il suo odore, il suo respiro, così dolcemente irritanti ai suoi sensi, le impedivano di farlo. La sua mente si sgombrava, come il sole, dopo una tempesta, sgomita fra le nubi nell’intento di recuperare il suo splendente trono nel cielo. Lo guardò seccata, contraendo le labbra in maniera alquanto buffa.
“Cosa vuoi?”
Gli chiese scortese, rivolgendo ora il viso, gli occhi, il corpo contro di lui con un vivido accento di fastidio, sperando che avvertisse di non essere affatto desiderato. Jim si limitò a sorriderle. Ma non c’era dolcezza in quel sorriso, solo un manifesto tono di sfida.
“Ora non posso nemmeno sedermi sul mio davanzale?”
“Si da il caso che sia arrivata prima io sul tuo davanzale’.”
Lo rimbeccò stizzita, arricciando il naso, la voce calma che tratteneva un’esplosione di rabbia. Jim la guardò torvo. Possibile che avesse sempre da ribattere quella ragazza?
“Si da il caso che questa sia la mia locanda.”
Gli rispose alzando la voce e puntandosi un dito sul petto ad enfatizzare quanto da lui detto, assumendo la stessa posizione della giovane. Erano due gatti pronti ad azzuffarsi.
“E questa la mia camera!”
Continuò lei con tono più alto, per vincere quello di lui, avvicinando il volto con fare minaccioso. Jim sostenne il suo sguardo corrugando le sopracciglia e stringendo le labbra, molestato da quella indescrivibile cocciutaggine che rimbombava nel tono della ragazza.
“Non vedo scritto il tuo nome da nessuna parte!”
Aggiunse allora, polemico, imitandola.
La giovane si trovò a bocca aperta, per la prima volta incapace di ribattere. Di nuovo, il velo malinconico dei suoi pensieri tornò a gravarle addosso, mentre l’odioso appellativo di “ragazza senza nome” si riaffacciava nel suo animo. Si zittì, ritraendosi, stringendosi il petto in un abbraccio senza affetto, mentre gli occhi scivolavano nuovamente nel paesaggio che si snodava sotto i suoi piedi.
Jim si stupì del suo mutismo, dicendosi in un primo momento che forse ce l’aveva fatta, era riuscito a zittirla; ma non appena scorse quella scintillante goccia rigarle il viso si sentì privato di tutta la soddisfazione di cui era gonfio pochi attimi prima. La guardò senza sapere cosa fare.
“Che fai, piangi adesso?”
Chiese senza capire, la voce balbettante e scortese. La vide sbrigarsi a ricacciare indietro quelle lacrime silenziose, ravvivando la chioma fulva, dissimulando.
“Macché, è solo che…E’ solo che mi è andato qualcosa nell’occhio…”
Arrabattò lei, poco convincente, dandogli le spalle il più possibile.
Lo odiava. Odiava quello stupido ragazzo, il suo modo di fare, le sue parole…Perché era venuto lì? Era così infinitamente divertente ricordarle la tristezza che sembrava averle dato tregua per qualche attimo? Si chiese perché fosse stato proprio lui a trovarla. Sicuramente un energumeno avrebbe avuto più tatto e cervello di lui. Si stropicciò gli occhi con rabbia, sentendo il fastidio per quel ragazzo crescere a dismisura.
Jim la osservò in silenzio mentre si sforzava di evitarlo, di fargli capire quanto non lo volesse lì accanto a lei. E lui se ne sarebbe andato volentieri! Nulla gli premeva di più in quel momento che alzarsi e allontanarsi da quel piccolo congegno ad orologeria con i capelli rossi. Ma aveva fatto un pasticcio, lo sapeva, e sua madre non gliel’avrebbe perdonato se fosse uscito da quella stanza senza prima rimediare.
Si grattò la testa con imbarazzo, guardandosi le punte dei piedi alla ricerca di qualcosa da dire.
Era così complicata! A parlare con lei si sentiva sempre come s’un campo minato. Tendeva l’orecchio alla ricerca di quel “click” che avrebbe innescato l’esplosione. In quel momento sapeva di trovarsi s’una mina con tutto il corpo.
Sospirò pesantemente, prima di riprendere il controllo, e si appoggiò al legno duro della finestra, la fronte inarcata in una ruga di preoccupazione. Poi, senza che si sforzasse, qualcosa da dire lo trovò.
“Hela.”
Pronunciò nel silenzio, senza però preoccuparsi di vedere se lei lo stesse ascoltando.
La ragazza si voltò verso di lui, lo sguardo interrogativo.
“Come, scusa?”
“Volevi un nome…Eccotelo.”
Si sbrigò a dire lui, ricacciando indietro qualsiasi gentilezza. Lei aggrottò la fronte, cercando di capire se nelle sue parole ci fosse una qualche ironia. Jim si sentì oppresso da quel silenzio, troppo denso, troppo greve. Si schiarì la voce.
“699 Hela”
Precisò.
“Era il nome di un asteroide”
“Aste…Aste, cosa?”
Tentò lei di pronunciare, trovando infinitamente strana e quasi buffa quella parola. Jim rise senza volerlo.
“Sai quei corpuscoli celesti che collidono tra di loro…?”
La frase gli rimase in gola quando notò il suo sopracciglio sollevato, chiaro sintomo di una nuova polemica in arrivo. Click. Pensò fra sé e sé.
“Quindi mi stai dicendo che sarei un asteirote!”
“No, non sto dicendo che sei un ‘asteirote’, o ‘asteroide’, dato che è così che si dice…”
La beffeggiò lui, notandola contrarre le labbra. Era a ruota libera. Il pensiero di rimediare al pasticcio che aveva combinato veniva ora, nella sua mente, scavalcato da un’irresistibile desiderio di infastidirla.
“Sto solo dicendo che continui a collidere contro di me, o meglio, contro qualsiasi cosa ti si avvicini. Come un asteroide.”
Aggiunse, notando l’espressione seria che lei si sforzava di mantenere.
“E poi…”
Continuò, tentando di farsi scudo da quegli occhi paglierini che se ne stavano fissi su di lui, quasi fossero quelli di un predatore.
“Quell’asteroide in particolare è perfetto per te.”
“E potrei sapere il motivo, sempre che non ti sia di peso dirmelo.”
Pronunciò monosillabica lei, rimanendo statuaria, immobile nella posizione che aveva assunto.
“Pare porti il nome di un’antica divinità…”
“Ah si, ma non mi dire.”
Rispose sarcastica, risolvendosi di scostare gli occhi da lui, muovendoli da una parte all’altra del paesaggio, senza una meta precisa. L’unica cosa che la premeva era evitare i suoi occhi, convinta che forse, non dandogli confidenza, avrebbe smesso di parlare. Jim se ne accorse.
“Già…Sembra che Hela fosse un’orrenda gigantessa, la regina del regno dei morti.”
Le sussurrò divertito, avvicinandosi il più possibile al suo orecchio. La vide irrigidirsi.
“Ma tu guarda, chi l’avrebbe mai detto che oltre ad un’innata capacità di infastidire la gente, tu possedessi anche il dono di conoscere storie che non interessano a nessuno.”
L’aveva colta sul vivo. Era irritata, agitata come uno sciame di vespe. Jim sentì una risata smuovergli il petto, ma tentò di dissimularla con un colpo di tosse.
“Se hai finito di borbottare a proposito di asteriodi e nomi…io avrei di meglio da fare che starmene qui a sentirti parlare.”
Gli sibilò a denti stretti, sperando che il ragazzo, nonostante la sua ignoranza, cogliesse il manifesto invito di andarsene e la lasciasse sola. Jim indugiò un pochino, ancora divertito, prima di alzarsi e muovere qualche passo verso l’uscio della stanza.
La ragazza si sentì sollevata di vederlo andarsene, dicendosi che ora sarebbe potuta tornare ai suoi pensieri, finalmente libera dalle sue chiacchiere e dai suoi insulti.
Ma quando Jim si trovò a pochi passi dalla porta, parve avere un ripensamento. Senza preavviso, si voltò nuovamente verso la ragazza.
Lei lo avvertì. Il cigolio dei suoi piedi sul legno le si era di nuovo fatto vicino. Lentamente, Jim avvicinò le labbra alla sua faccia, allarmandola. Passò un attimo che parve infinito, in cui il suo respiro caldo, profumato, le solleticò dolce la guancia. Sgranò gli occhi.
“E’ a-s-t-e-r-o-i-d-e…”
Cominciò a sillabarle. La magia di quel momento si frantumò. Lei, presa da un impeto di rabbia ed esasperazione, si voltò di scatto, facendolo trasalire. Il ragazzo esplose in una risatina leggera, mentre si allontanava rapido da lei, richiudendosi la porta dietro le spalle.
Rimase per qualche attimo immobile, gli occhi fissi sul legno che li divideva.
“Che idiota.”
Bisbigliò.
 
L’aria era intrisa di un odore acre e pungente.
Ad ogni respiro, essa penetrava violentemente nelle narici, incendiandole, e affondava silenziosa ma rapida fin nella gola, regalando la spiacevole sensazione di poter assaggiare, divorare gli sbuffi di fumo che continuavano a sorgere dalle macerie, una foresta di spiriti in risveglio.
Di quando in quando un fiocco di cenere sospinto dal vento faceva irruzione in quella scena desolata e distrutta, testimone della furia del fuoco che aveva imperversato fino a pochi attimi prima, aggiungendosi al tappeto cinereo che schiacciava ogni cosa sotto il suo peso inconsistente.
Era denso il silenzio che sovrastava quel luogo, mortale, un mesto canto innalzato a quel mausoleo di rovine e di braci.
Il crepitare delle fiamme era oramai solo un lontano ricordo, giaceva spento sotto un cumulo di polvere calda, quasi fosse la sua tomba.
Nel funereo mutismo di quel luogo cancellato, qualcuno incedeva con passo rabbioso, irrispettoso, calpestando i ricordi che si sfumavano nelle folate di vento, e lasciando dietro di sé un’irregolare scia di orme.
“Voglio che la troviate!”
Gracchiò con voce astiosa, voltandosi di scatto verso una frotta scoordinata di sagome nere, sgraziate, orribili che ricalcavano i suoi passi, tenendosi ad una distanza debita per evitare che la furia di quell’essere li investisse. Il respiro pesante dell’enorme mostro, vestito di un’ampia cappa scura che a stento ricopriva la figura tozza, rantolava a fatica dalle fauci aperte, digrignanti, riempiendo quel luogo con la sua inquietante cadenza.
“Voglio che la troviate e che la riportiate qui, da me.”
Sentenziò a denti stretti e con voce più alta, puntando drammaticamente un dito a terra, come a voler indicare un punto in particolare. La mascella, sospesa, ondeggiava nel vuoto ad ogni rantolo, dandogli un’espressione ancora più deforme e minacciosa. La torma di ombre al suo seguito rimase immobile, impietrita di fronte a quella richiesta, riempiendosi di un bisbiglio ronzante, sempre più forte. L’essere rimase in silenzio a guardarle mentre si agitavano, parlottavano, pur mantenendo gli occhi fissi su di lui. Ruggì.
“Ora!”
La sua voce, roca ma possente, esplose nell’aria con una tale violenza che il tempo sembrò fermarsi, così come anche il cadere lento e leggero dei fiocchi di cenere. Il tramestio si zittì quasi immediatamente.
“La voglio viva.”
Aggiunse tagliente, puntando contro quelle ombre un dito tozzo, a malapena riconoscibile grazie ad un’unghia che cresceva, spezzata, incrostata di un lordo sozzume nero. Lo sguardo del mostro passava in rassegna i volti di quei poveri disgraziati che aveva davanti, accalcati gli uni sugli altri, stretti quasi a volersi far coraggio insieme, perché da soli si era persi. Provò un’improvvisa pena, una compassione per quelle anime tremanti, sentendosi, in tutta la sua possente stazza, un carnefice pronto ad agire. L’idea avrebbe, forse, dovuto stuzzicarlo, renderlo tronfio del potere che aveva su di loro, ma non sortì alcun effetto.
Nell’attimo muto che seguì a quell’ordine sbraitato, così repertorio e minaccioso, si avvertì un agitare di passi che procedeva spedito, forse troppo, verso di lui. Non c’era esitazione, né timore in quello scalpiccio, solo una maledetta fretta che portava i piedi ad impastarsi gli uni negli altri, inciampando.
Il rumore si avvicinava, facendosi più forte, più percepibile, tanto da costringere l’essere a ruotare con calma inquieta la testa verso il suo fianco sinistro, mentre strizzava gli occhi alla ricerca della sagoma che, da un momento all’altro, sarebbe saltata fuori dagli effluvi di fumo. Digrignò i denti, schiudendo le labbra ebbre e sottili.
“L’abbiamo trovato.”
Fu quella frase ad annunciare l’arrivo di un uomo smilzo, dall’andatura ciondolante, intaccata da uno zoppicare evidente. Il mostro rimase immobile a guardare il volto scarno del giovane, tamburellato da eruzioni cutanee di un intenso e malsano colore rossastro, gli occhi porcini che parevano bottoni mal cuciti s’una faccia smunta, quasi alla ricerca di un segno che rendesse plausibili, convincenti quelle parole.
Finalmente le labbra dell’essere si rilassarono in un orrendo sogghigno.
“Portatemelo.”

  
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