Tutto questo nasce dall'esplosione ormonale conseguente al concerto dei Kasabian a Roma lo scorso ventiquattro febbraio, perché a quanto pare se non ho le ovaie in sollucchero non scrivo; poooooi c'entrano anche il video di Re-wired e di Fire (inseguimento folle + rapina = vogliamo fortemente che tu scriva un'AU in cui siamo dei criminali anche se nel genere “poliziesco” sei una schiappa, Mary – pretty please? Pretty please with a cherry on top?), la giacca piumata ed i capelli e la faccia di Sergio Pizzorno (brb dying of sexual frustration) ed il fatto che mi diverto così.
Detto ciò, i Kasabian sono una band terribilmente divertente che fa gran bella musica. Non mi appartengono, non li conosco di persona, mi istigano indirettamente a scrivere su di loro ma senza pagarmi. Il che è una fregatura, lo riconosco.
Conseguentemente, è tutto frutto della mia fantasia, tranne l'UST. Concedetemi l'UST, suvvia.
P.S.: se ve lo state chiedendo... No, non ce la faccio a chiamarlo Serge.
Mio
padre sosteneva
fermamente l'imprescindibilità della pena di morte come
punizione
per una quantità ridicolmente svariata di atti criminosi,
dall'omicidio allo stupro, dalla truffe telematiche di cartomanti ed
affini all'evasione fiscale – era un uomo risoluto e fiero,
con una
spiccata predilezione per il vino rosso e la non trascurabile
abitudine di amministrare la sua insindacabile giustizia paterna e
coniugale con mezzi che non lo rendevano dissimile da chi condannava
idealmente alla pena capitale.
Più di tutto, però,
era incredibilmente noioso e granitico e così banale, Dio.
A pensarci – e di
tempo per pensare ne avevo a iosa, in galera - tutta la storia della
piccola, disastrata famiglia Meighan era terribilmente noiosa e
banale, un caso di violenza domestica e di gioventù bruciata
da
Pubblicità Progresso.
L'unico elemento
interessante, quello che risollevava le sorti del mediocre polpettone
melodrammatico che era stata la mia vita nei suoi primi vent'anni,
non poteva purtroppo essere divulgato ma solo rievocato ad nauseam
durante i giorni grigi della detenzione, interrotti solo dall'ora
d'aria e dalle visite del mio avvocato – d'ufficio,
perché Tom
Meighan era uno squattrinato delinquentello di mezza tacca che aveva
tentato il colpaccio restando fregato. Nulla di più.
Mio padre, insomma,
aveva torto per molti versi – quasi tutti - compresa la sua
convinzione che la morte fosse peggio di tutto ciò.
Non l'aveva riconosciuto,
di primo acchito – i capelli tirati all'indietro con il gel,
sbarbato, in doppio petto grigio e cravatta regimental... Un
estraneo.
Prima che iniziasse a
parlare, Tom temette che Sergio avesse anche cambiato voce.
- Sei comunque una
gran testa di cazzo.
… e invece no. Il
timbro e i modi “gentili” erano sempre gli stessi.
- Buongiorno anche a te.
Saresti...?
Sergio lanciò una breve
occhiata all'ufficiale che controllava l'ingresso della sala visite,
poi sorrise – e fu palesemente molto difficile, per lui.
- Tuo cugino Evan Ashton
di Newton Abbott.
Tom annuì con fare
entusiastico, chiocciando: - Ciao, cugino! Stai bene senza barba.
Come va laggiù nel Devon?
- Ho parlato con uno di
loro. Può aiutarti.
- Sperando che non ci
aiuti come ci ha aiutato Karloff...
- Questo qui è più
attento. Fra qualche giorno potrai uscire di qui.
- Legalmente o in stile
Prison Break?
Stavolta la smorfia
forzatamente ilare non resse; Sergio aggrottò le
sopracciglia e
rispose: - Tom, hai rubato La Fée Verte... Ovviamente
non
esistono modi legali di farti uscire tanto in fretta. Dipendesse da
Sal'Aram verresti decapitato con una scimitarra durante l'ora d'aria,
figurati.
- Dio salvi la Regina,
allora, e la legge inglese.
- La Regina vuole vederti
marcire qui dentro, piuttosto che rovinare le relazioni diplomatiche
con lo sceicco.
- Almeno non sanno chi
sono, no?
- Sei nella merda lo
stesso e lo sai.
La guardia carceraria li
stava guardando da qualche secondo di troppo. Sergio si
chinò a
stringere affettuosamente il braccio di Tom, sussurrando: - Non posso
dirti di più, per ora.
Prendendogli la mano e
carezzandogliela, Tom chiese: - Ok... Allora, come butta? Chi
è in
testa al campionato di Formula 1? Cos'hai mangiato a colazione? Stai
uscendo con qualcuna, al momento?
- Sono tuo cugino, non il
tuo ragazzo. - gli ricordò Sergio, sfilando delicatamente la
mano da
quella dell'amico.
- Comunque... Alonso,
mezza bagel vuota con caffé lungo senza zucchero, ascetismo
estremo.
- Oh, piccolo... Te la
passi proprio male senza il tuo Tommy, eh?
- … come diavolo fai a
restare così cazzone anche qui dentro?
- Essere cazzoni è un
dono innato.
Ed il brutto di possedere
tale dono, ultimamente, era non avere più accanto qualcuno
che
sollevasse gli occhi al cielo dopo l'ennesima stronzata detta o
commessa – e poi nessuno ci riusciva bene come il buon
vecchio
Sergio.
- Ti tirerò fuori di
qui.
- Lo so.
Tom ridacchiò, quando
vide l'amico distogliere lo sguardo per un attimo dal suo.
- Quanto sei italiano
quando fai così...
- Sei una testa di cazzo.
- L'hai già detto.
Sergio superò il breve
momento di impasse, domandando: - Come si sta qui dentro?
- Uhm... La mensa è
meglio di quanto mi aspettassi, fanno un fish and chips da leccarsi i
baffi. In cella sto da solo e sono mediano nella squadra di calcio
dei Ladri. Domenica siamo contro i Truffatori, peccato che non ci
sarai a vedermi giocare.
- Se tutto va bene non ci
sarai, a giocare.
- Il che è quasi un
peccato, sono la spina dorsale del team.
Di nuovo gli occhi che
roteavano verso l'alto – oh, sì. Gli era proprio
mancato da
morire, quel gesto.
- L'orario delle visite è
terminato! - annunciò la guardia.
- Grazie di essere
venuto, cuginetto. Ci vediamo fuori.
Thick as Thieves
Tre mesi prima
Quell'omelette
sembrava davvero invitante: spessa mezzo centimetro, ben cotta sui
bordi ma più cremosa verso l'interno – e il
ripieno di prosciutto
cotto e formaggio fuso, poi...
Peccato
che il suo legittimo proprietario avesse deciso inspiegabilmente di
trascurarla in favore del Guardian.
Alla
fine, Tom non seppe resistere: - La mangi?
Dall'altro
capo del tavolo, Sergio lo fulminò con un'occhiata da sopra
le
pagine del quotidiano.
Era
davvero un pessimo compagno di viaggio, in quel frangente: durante
tutta la mattinata avevano scambiato sì e no venti parole,
per lo
più grugniti disapprovanti o insulti velati piuttosto male.
Certo,
era comprensibile che una fuga rocambolesca con la polizia alle
calcagna - senza il tempo di fare decentemente i bagagli e senza
colazione, poi – non costituisse esattamente un toccasana per
i
nervi di chiunque, ma se c'era una cosa che la povera Nancy Meighan
aveva insegnato a suo figlio prima di abbandonare il tetto coniugale
più di dieci anni prima era che ogni cosa, anche se
maledettamente
brutta e merdosa, possedeva dei lati positivi.
Se
lui e Sergio non fossero stati costretti alla fuga non sarebbero mai
finiti in quel grazioso, piccolo autogrill dalle pareti ricoperte di
legno chiaro che vendeva delle omelette extra-lusso ingiustamente
snobbate dal suo amico. Fra l'altro gli avrebbe fatto bene mangiare
un po', ultimamente sembrava sempre di più un manico di
scopa con
una nutria a pelo lungo infilzata ad un capo.
Ad
ogni modo, Sergio gli passò il giornale e
pronunciò la sua prima
frase – una sequenza soggetto + verbo + complemento - della
giornata: - Hanno stanato Karloff.
-
Come pensavamo. - annuì Tom, posando coltello e forchetta
sul tavolo
per dare un'occhiata all'articolo in prima pagina.
Considerò,
alzando le spalle: - Almeno non ha parlato di te... Di noi.
-
Sanno comunque che c'è un complice.
- Ma
Sergio Pizzorno è solo un nome esotico che nessuno
associerà mai a quello di Tom Meighan.
-
Serge Pizzorno.
- Sì,
quello che è.
Il
tono degli articoli dedicati alla loro impresa era interessante...
Sottilmente ironico. Persino le parole spese dalla cara vecchia Lizzy
II in merito suonavano vagamente derisorie.
Non
interessava davvero a nessuno che uno stronzo di
nababbo
mediorientale avesse perso uno dei suoi prestigiosi gingillini, in
fondo... Il prezzo del petrolio aveva superato i centodieci dollari
al barile, quella settimana – uno a uno, palla al centro.
Tom
chiuse il giornale, scivolando in avanti sulla sua sedia: - Non vedo
l'ora di mettere mano all'Olivetti.
Certo,
perché fra i pochi effetti personali che avevano portato via
dal
loft non poteva mancare l'Olivetti Studio 46 di sua madre –
una
monolitica macchina da scrivere color verde acqua che utilizzava da
qualche tempo per la stesura delle sue mémoires
e che Sergio
odiava cordialmente per il rumore tremendo che facevano i suoi tasti
quando venivano pigiati dalle dita per nulla delicate di Tom.
Chinandosi
verso il compagno per non essere udito da orecchi indiscreti, Sergio
bisbigliò: - Siamo in fuga con lo smeraldo più
grande del mondo in
tasca, uno sceicco, l'Interpol, la Regina e metà
dell'opinione
pubblica vogliono la nostra... La tua testa su un
vassoio
d'argento e tu...
- …
e io muoio dalla voglia di scriverlo nelle mie memorie! Ti rendi
conto? Si tratta dell'avventura più eccitante che abbiamo
vissuto...
-
L'ultima, poi. - gli ricordò Sergio, e la sua espressione
finalmente
si addolcì.
- …
quante Olivetti ci potremmo permettere, in cambio de La Fée
Verte? -
Un
ulteriore progresso: stava sorridendo. Guardava oziosamente fuori
dalle grandi porte a vetri dell'autogrill, perché
probabilmente gli
dava fastidio aver ceduto al buonumore di Tom e non poter recitare
più la parte del grillo parlante, ma sorrideva.
- Per
l'ultima volta, non si pronuncia “fii ver”. - lo
corresse Tom, e
Sergio gli fece il verso: - Sì, quello che è.
Estrasse
il suo iPhone dalla giacca, armeggiando con il touchscreen per
qualche secondo prima di annunciare: - Fra un paio d'ore dovremmo
arrivare a Clubfoot.
- E
saremo al sicuro. - sottolineò Tom.
Sergio
sollevò le sopracciglia, commentando: - Il fatto che tu ti
senta in
dovere di dirlo parla da sé.
- Sei
il peggior compagno di fuga possibile, lo sai? E comunque... La mangi
tutta o no?
Clubfoot
è
oggettivamente un posto di merda: un minuscolo villaggio abitato da
qualche centinaio di povere anime, da anni noto solo per una
stupefacente concentrazione locale di casi di equinismo – una
malformazione congenita in cui il piede è piegato verso
l'interno e
il basso – forse dovuta a rapporti incestuosi all'interno
della
comunità o cose del genere. Per il resto è solo
verdi colline,
pecore, pastori litigiosi, allegre comari ottuagenarie e ortopedici e
genetisti in pellegrinaggio scientifico.
Sergio ed io abbiamo
affittato (ed in seguito comprato) una piccola fattoria sgangherata e
perciò piuttosto economica da queste parti, dopo la rapina.
Avevamo
bisogno di silenzio, pace e discrezione – o così
credevamo... Per
quanto mi riguarda, ad esempio, non ho mai dormito bene alla
fattoria: la troppa quiete ed il troppo, assoluto buio favorivano il
parto di riflessioni che mi tenevano sveglio ogni notte, fin quando
non arrivava l'alba. Rimanevo con le palpebre strizzate e le
ginocchia strette contro la pancia per ore, la mente che scivolava di
continuo in un dormiveglia che riecheggiava di spari ed urla, il
senso di colpa, la paura del futuro – il mio futuro era
più nero
del buio che riempiva la stanza, più minaccioso di loro
che, ne ero sicuro, mi guardavano dai piedi del
letto e che
potevo tenere alla larga solo chiudendo gli occhi, serrando i denti e
tirandomi la coperta sulla testa come un bambino terrorizzato.
La chiamano sindrome
post-traumatica, credo. Purtroppo non potevo avvalermi di un aiuto
psichiatrico, perché per un criminale a piede libero
è un po'
difficile andare da un terapista e spiegare le proprie ragioni senza
ritrovarsi in galera due giorni più tardi.
Ho risolto il problema
infilandomi nel letto di Sergio.
Ad essere sinceri, me
l'ha proposto lui – di giorno ero irritabile, apatico ed
avevo un
paio di occhiaie che mi arrivavano fin sotto il mento, tenergli
nascosto il problema stava diventando impossibile; mi fece confessare
abbastanza facilmente, sarebbe un buon poliziotto se non fosse
già
un ottimo delinquente.
No, non ho cercato di
allungare le mani in quel lungo periodo che mi ha visto come suo
compagno di letto. Tutto sommato, ancora oggi mi rendo conto che non
è tanto il suo corpo ad attrarmi – l'idea di spogliarlo,
invece, di essere l'unico a sapere cosa c'è sotto i vestiti
e sotto
quel malloppo di capelli che prima o poi lo ingoierà tutto
intero
senza neanche sputare le ossa... Oh, mi piace da matti.
Posso concedervi che
tutto sia partito da lì. È
un'ipotesi ragionevole, anche se forse non è del tutto
esatta. Credo
sia iniziato molto prima, personalmente.
La
fattoria non sembrava aver risentito del peso degli anni trascorsi
dall'ultima volta in cui era stata abitata: nell'aia, le erbacce
erano meno alte di quanto Tom si aspettasse, nessuna finestra era
rotta e non mancava alcuna tegola sul tetto scuro; i cardini della
porta aveva bisogno di una generosa oliata, ma si trattava di un
problema minimo.
-
Casa dolce casa. - mormorò Tom, strusciando un piede sul
pavimento
dell'ingresso e lasciando una traccia scura contrastante la coltre
grigiastra di polvere che lo ricopriva.
Sergio
gli appioppò un borsone piuttosto pesante e gli
ordinò: - Vai di
sopra e sistema un po' la stanza da letto... Cambia le lenzuola e
apri le finestre. Io controllo la caldaia e il contatore.
-
Agli ordini, mammina. - lo motteggiò Tom, dando poi
un'occhiata alle
scale polverose.
Una
sensazione di disagio, un'eco distorta e fievole di qualcosa a cui,
grazie a Dio, ad un certo punto aveva imparato a non pensare, gli
fece compagnia mentre saliva al primo piano.
Quando
scese di nuovo ed andò in cucina, trovò un
bollitore su un
fornellino da campo e Sergio che infilava due bustine di tè
in
altrettante tazze vuote.
Tom
sorrise: - Non c'è guaio che non possa essere risolto con un
po' di
tè, eh?
-
Questo è poco ma sicuro. - rispose l'altro, versando l'acqua
bollente nelle tazze.
Sergio
tirò fuori da uno zaino un pacco di zollette di zucchero ed
uno
strofinaccio pulito, prendendo poi un paio di cucchiaini da un
cassetto della credenza ed iniziando a pulirli.
-
Niente latte? - domandò Tom,
-
Adesso pretendi troppo, figliolo.
Sergio
si sedette, allungando le gambe fino a trovare involontariamente i
piedi di Tom sotto il tavolo; distese le braccia sul ripiano, lo
sguardo assente puntato sulla tazza di tè.
Non
cambiò espressione, quando mormorò: -
C'è un'atmosfera...
-
Surreale?
-
Lo è un po' tutto. - considerò Sergio, alzando
gli occhi su Tom.
Era
un segnale, quello sguardo - il segnale che precedeva ogni discorso
sgradevole e momento “topico” del loro rapporto;
glissare sarebbe
stato inutile e forse addirittura dannoso, a seconda dell'umore di
Sergio, quindi Tom si armò di coraggio e pazienza e disse: -
Tipo?
-
Il grande colpo di fine carriera, tu che agisci da solo...
Il
suo tono di voce infastidì Tom perché troppo
gentile, troppo
indulgente. Sfociava quasi nella condiscendenza o, peggio ancora,
nella comprensione sincera.
-
Perché non mi dici cosa c'è che non va senza
girarci troppo
attorno, mhm?
-
Come al solito ti illudi che io sia più complicato di quanto
sembri...
Tom
si chinò in avanti, sorridendo a denti stretti.
-
… sei tu quello delle sfumature. Tommy vede tutto in bianco
e nero.
-
Quindi?
-
Quindi, semplicemente, mi sono rotto il cazzo di fare l'Arsenio Lupin
del ventunesimo secolo e voglio smettere. Ne ho passate tante, e
voglio solo stare tranquillo per il resto dei miei giorni.
Avevamo
iniziato con una rapina – una volgare rapina a mano armata in
una
banca circondata dal nulla di una cittadina di provincia simile a
tante altre.
Il
ricordo di quella giornata, nella mia mente, è patinato da
un
velleitario chiarore aranciato – non successe al tramonto,
erano
scattate da poco le undici di mattina.
Arrivammo
a bordo di un camioncino vecchiotto che faceva un gran casino ma era
ancora piuttosto efficiente: io, Sergio, Deirdre ed un povero cristo
amico di lei che quel giorno trovò la morte rannicchiato in
un
carrello da supermercato, il petto forato da un proiettile della
polizia.
La
stessa sorte era toccata a Deirdre, poco prima: Sergio la
trovò al
posto di guida, gli occhi chiusi come se stesse semplicemente
riposandosi, le mani ancora aggrappate al volante.
Per
noi altri ci fu appena il tempo di correre via, inseguiti dalle
pallottole delle guardie. Gettammo via la refurtiva durante la fuga,
ci fermammo solo per rispondere ai colpi delle forze dell'ordine e
trovare rifugio io dietro un muro e Sergio dietro ad una catasta di
cassette colme di bottiglie di latte – il retro di un
supermercato.
L'amico
di Deirdre sputava sangue, non poteva più fuggire
né tantomeno
sopravvivere.
Non
persi un solo attimo della sua agonia: il tempo sembrava essersi
fermato in quel vicolo, tra le pallottole che fendevano l'aria
sibilando e si schiantavano contro le bottiglie del latte ed il muro
che mi stava proteggendo. Il tipo rantolava parole incomprensibili,
si aggrappava alla mia giacca senza vedermi, lo sguardo era
già
morto, vitreo.
Ricordo
di non aver provato paura né rabbia. La mia era la gioia
feroce,
umana e vigliacca di essere ancora in grado di stare in piedi, di
muovermi, di aiutare finalmente Sergio a tenere a bada quegli
stronzi, resistere al rinculo che mi premeva il calcio del fucile
contro il torace, dove il cuore faceva più casino degli
spari e
della marmitta del camioncino che ci aveva portati fino a lì.
In
fondo chiunque aveva la morte addosso, ogni giorno... Stavo solo
scegliendo di giocarci un po'.
Ne
uscii con una ferita superficiale ad un braccio e la consapevolezza
che l'unico lato positivo di quella giornata era stato salvarsi la
pelle.
-
Non potrà essere così tutte le volte. - mormorava
ogni tanto Sergio
nel medicarmi la ferita, a casa, e mi veniva da ridere
perché era
davvero il commento più stupido da farsi in quel caso.
-
Pensavi sarebbe stata una passeggiata? Che lo sarà mai? -
gli
chiesi.
Sergio
sollevò lo sguardo dal mio braccio, fissandomi senza
proferire
parola: poi continuò ad avvolgere la garza, cambiando
argomento: -
Hai visto il telegiornale... Il fazzoletto sulla bocca non è
servito
a un cazzo.
-
Quindi cosa proponi?
-
Di tagliarti i capelli, tanto per cominciare. Ci penso io.
Il
riflesso che lo specchio mi restituì dieci minuti dopo mi
piacque
abbastanza: il braccio fasciato, i capelli che non si aprivano
più a
sipario sulla mia faccia ma cadevano corti ed irregolari sulla fronte,
Sergio dietro di me che rimirava il suo operato con un
sorrisetto compiaciuto.
-
Che te ne pare? -
-
Potevi fare l'hair-stylist delle star, invece del delinquente.
-
Grazie, sono quindici sterline.
-
Dovevano essere molte di più.
Pensai
per l'ennesima volta a Deirdre, al suo amico di cui dieci anni
più
tardi avrei completamente dimenticato il nome e domandai: - Dici che
Dedi ci starà odiando, in questo momento?
-
Non può. - ribatté Sergio, e allora gracchiai una
strana risatina.
-
Perché è morta, vero?
-
Perché eravamo suoi amici e sapeva perfettamente a cosa
andava
incontro. Non era la prima volta, non sarebbe stata l'ultima.
-
E tu?
Mi
grattai la ferita, che non bruciava più come all'inizio ma
in quel
momento prudeva da matti – come faccio a ricordare pure
questo
dettaglio, diamine, e invece il suo
nome è perso per sempre - e ripetei: - E tu? È
la tua prima e unica volta, questa?
Sergio
bloccò la mia mano: - Smettila.
-
Dimmi se vuoi finirla qui.
-
No, non voglio finirla qui... Ma dobbiamo cambiare rotta. Oggi
abbiamo rischiato grosso e abbiamo perso Dedi. Non deve più
succedere.
Quella
fu la fine della mia carriera di rapinatore e della lunga chioma
liscia e curata di cui andavo tanto orgoglioso. In compenso,
guadagnai un complice di cui potermi fidare ad occhi chiusi.
Ancora
oggi ho me stesso, i soldi, una caterva di cicatrici emotive e lui.
Si prende cura di me in quella sua maniera ruvida, da burbera mamma
d'altri tempi. Una di quelle che si attengono al motto“i
figli si
accarezzano solo quando dormono”, per capirci, e allo stesso
tempo
ogni giorno rinunciano a qualcosa per te, per farti stare bene, per
insegnarti una lezione – in definitiva, per crescerti.
Questo
spiega molte cose - come puoi resistere al fascino di ciò
che non
hai mai avuto?
-
Fino a qualche tempo fa eri un drogato di adrenalina ed era quello il
tuo modo di godere. Se smetti cosa ti resta?
-
I soldi. La mia bella faccia. Le donne. Posso imparare a godere di
questo.
-
Non ti basterà mai, ti conosco.
-
Smetti di cercare di farmi cambiare idea...
-
Ehi, è stata una tua decisione... Mica devo essere d'accordo
per
forza.
E
Tom rise di cuore, a quel punto, provocando l'altro: - Puoi sempre
lavorare con qualcun altro.
-
Non posso, stronzo.
-
Sono insostituibile, eh?
Sergio
sbuffò anche lui una risata. - Neanche ti rispondo, guarda.
Eravamo
i Kasabian. Come Linda Kasabian, un'adepta della Famiglia di Charles
Manson. Come “macellaio” in armeno. L'incubo senza
volto delle
autorità, delle banche, di chiunque possedesse qualcosa che
ci
facesse gola – “eroi neri” secondo i
giornalisti più poetici,
“maledetti farabutti figli di puttana” per
qualsiasi membro delle
forze dell'ordine e “rockstar del crimine”,
appunto, secondo il
resto della malavita locale che ci odiava con lo stesso trasporto con
cui ci detestava la polizia.
Un
progetto interessante, il nostro, in maniera francamente inaspettata.
Una volta sono entrato in una libreria per non so bene quale motivo
–
ok, non sono un fine intellettuale... Sono più un uomo
d'azione, io
– e ho trovato un saggio intitolato “La filosofia
secondo i
Kasabian” o qualcosa del genere. L'ho subito comprato e
divorato in
pochi giorni, ridendoci su moltissimo – conoscevo meno della
metà
dei filosofi citati, e le loro argomentazioni per me erano arabo
puro.
Dico
questo per... Be', per bullarmi un po', immagino. E lo so che non
dovrei farmi grosso di una carriera fondata sul ladrocinio e via
discorrendo ma... Perché no? Insomma, dimenticatevi per un
attimo
che sono un delinquente patentato e vedete la cosa per quello che
è:
una sottospecie di fenomeno culturale, un'icona pop... Ecco, io e
Sergio siamo due icone pop. Non è forse più di
quanto riuscirà ad
ottenere la maggior parte di voi, nel corso della sua esistenza?
-
Vuoi un figlio?
-
Cos...?
-
Hai conosciuto una donna, non so...
-
Non sono cambiato per ammmore, Pizzorno, per chi
cazzo mi
prendi?
-
Sto cercando di arrivarci... Si tratta di un bel rompicapo.
-
E invece no, è solo una decisione che non ti sta bene e
siccome sei
contorto, testardo e fastidioso devi per forza cavillare! Che ti
prende? Perché non puoi accettarlo?
-
Perché Tommy non ha pensato a cosa vuole Sergio, e a Sergio
adesso
girano le palle.
-
Credevo fossi d'accordo, all'inizio...
-
Ti stavo assecondando... Credevo fosse un capriccio, una roba
passeggera.
-
Un cap- porca puttana, Pizzorno, e poi sarei io a
fare girare
le palle a te...?
-
Se ti comporti da moccioso ti tratto da moccioso, fine.
-
Ah, quindi mi comporto da moccioso?
-
Più o meno da quando ti conosco, sì.
-
La sai una cosa? Quando mi ritirerò alle Barbados con la mia
parte e
mi farò succhiare le dita dei piedi da meravigliose
aborigene
ventenni...
-
… non so da dove cominciare a commentare questa frase...
-
… questo non mi mancherà
affatto. La tua... Attitudine da
madre apprensiva che pensa che il figlio non sappia campare al di
fuori delle sue gonne, la tua arroganza, la tua... Cazzo, avevo
già
mio padre che mi credeva un fallito, se avessi voluto...
-
Tom, che cazzo...
-
Prima ci separiamo e meglio è.
-
Lo spettacolo si è concluso? Posso applaudire? Dovresti fare
del
teatro, davvero.
Sergio
assottigliò gli occhi, e mormorò: - Parliamo di
come sto io, ora...
Se non ti dispiace.
Tom
emise un sospiro, alzando il mento quasi in segno di sfida: - Ti
ascolto.
-
Prima di tutto, fammi il favore di non mettermi in bocca cose che non
penso né penserò mai... Se tuo padre ti giudicava
un fallito sono
cazzi suoi, non miei.
Sorrise,
incredulo: - Ti aspettavi davvero che reagissi bene nei confronti di
questa decisione che è solo tua? Sono abituato a fidarmi
ciecamente
di te perché è l'unico modo possibile per
sopravvivere nelle nostre
condizioni e l'ho accettato tanto tempo fa... E tu non vuoi dirmi
perché intendi smettere, come se la cosa riguardasse solo te.
-
Ma riguarda solo me.
-
Ci sto dentro quanto te, razza di imbecille.
-
E questo non ti pesa mai? Se fossi tu a desiderare una vita diversa,
cosa faresti? Ti sacrificheresti per me e rinunceresti ad altro?
-
Vedi che non capisci? Voglio solo sapere perché,
Tom! Mi devi
solo questo!
-
Perché è giusto così,
perché... Basta, Sergio! Basta con questa
cosa, basta dipendere l'uno dall'altro, basta rischiare la pelle!
-
E l'hai deciso da un giorno all'altro?
-
Ovviamente no... Ci penso da un po'.
Sergio
abbassò gli occhi su un punto oltre il ripiano del tavolo.
-
Non sono abituato all'idea di prendere strade diverse... Tutto quello
che abbiamo fatto fino ad oggi è stato sostenerci e credere
nelle
stesse cose.
-
Lo so.
-
Devi darmi un po' di tempo. - sussurrò Sergio, lasciando
andare poi
un tremulo sbuffo come per calmarsi.
Sottovoce,
quasi a non volerlo disturbare, Tom chiese: - Che vuol dire?
-
Devo riflettere un po' anch'io su quello che farò, e dove, e
con
chi.
-
Non dobbiamo... - cominciò ad argomentare Tom, esitante.
-
… non vuol dire che non ci vedremo più, dai.
Potremmo reinvestire
i nostri soldi in qualcosa... Qualcosa di pulito.
-
Insieme? -
-
Perché no? Sarebbe bello.
Sergio
non disse nulla, per un po'; alzò la testa, ad un certo
punto, e
domandò: - Meighan, cosa sono io per te?
-
Prego?
-
Sono un socio, un amico, un complice?
- Naturalmente sei tutte queste cose insieme, Sergio, che diavolo...?
-
Non puoi organizzare tutto in modo da farlo ruotare attorno a te.
-
Sergio...
-
Sei un paraculo, un manipolatore del cazzo... Ma stavolta non
funzionerà. Se i Kasabian sono finiti, sono finiti davvero.
Niente
soluzioni alternative da impormi, niente scappatoie. Questa
è
l'ultima volta che ti aiuterò.
La
sedia traballò e minacciò di cadere a terra
quando Sergio si alzò
bruscamente e uscì dalla stanza, sotto lo sguardo basito di
Tom.
Lui
non sembra affatto il tipo di uomo che è in
realtà. Cioè, sì,
sembra ed in effetti è ombroso e un po' timido, ti studia e
ti
giudica in una sola occhiata... Ma è più di
questo. Io so tutto di
lui e lui sa tutto di me – quasi tutto... Non sa che lo amo.
Non
c'è neanche bisogno che lo sappia, ad essere sinceri.
Insomma, fin
quando dureranno i Kasabian lui sarà consapevolmente e
serenamente
mio.
Forse
è anche per questo che voglio smettere.
… adesso sì che non potrà farmi da correttore di bozze.
Dieci
minuti più tardi, l'ululato di una sirena
squarciò la placida
quiete del pomeriggio di Clubfoot.
Una
carovana di auto della polizia imboccò una stradina privata
che
portava ad una certa fattoria fuori dal villaggio.
Dalla
finestra della camera da letto si aveva una visuale perfetta della
scena.
-
Magari non sono qui per noi. - commentò Tom, sorridendo in
una sorta
di tic nervoso.
Un
attimo dopo era corso giù al seguito del complice, La
Fée Verte e
le chiavi dell'auto in mano.
-
Prendo la macchina.
-
Prendi...?
-
Tu ti nasconderai nella nicchia, io li distrarrò facendomi
inseguire.
-
No!
Sergio
lo prese per un braccio prima che scendesse l'ultimo gradino: - Tom,
no.
Stupito,
Tom spiegò brevemente: -È
solo la procedura di emergenza. Uno dei due deve restare fuori per
far eventualmente evadere l'altro e io sono già compromesso,
perciò...
Nonostante
i loro furti fossero sempre stati complessi ed ambiziosi nella
progettazione, non si trovavano a fronteggiare un'emergenza
simile da molto tempo, dai tempi della loro prima rapina – forse Sergio sembrava così spaventato per
quel motivo,
come se i suoi mille presagi nefasti fossero diventati
realtà e
tutto fosse inutile... La fuga, nascondersi...
Era
finita, questo temeva.
A
torto.
Tom
credette fermamente in quanto stava dicendo: - Mi tirerai fuori,
tranquillo.
Senza
neanche dargli il tempo di finire la frase, Sergio lo tirò a
sé e
lo baciò.
Due
inafferrabili criminali in procinto di essere catturati persero
secondi preziosi a scambiarsi un bacio – ma poteva essere un
addio,
ed in quell'istante era tutto ciò che contava.
-
Ti ricordi dov'è la nicchia?
-
Certo... E adesso vai.
Persino quando l'inseguimento finì con il suo arresto, Tom Meighan ripensò a quanto era successo alla fattoria... Sorridendo, anche con le manette ai polsi.
Tre mesi (e qualche giorno) dopo
-
… così, ti ritrovi di nuovo a farmi da
parrucchiere.
-
Dici che dovrei tentare la carriera?
-
Stai scherzando? Dove lo trovo un altro complice se mi molli?
Sergio
smise di tagliare i capelli di Tom, restando con le forbici a
mezz'aria ed incontrando gli occhi del complice attraverso lo
specchio; quest'ultimo rise, dicendo: - … lo so, sono un
pazzo.
- Errore, il pazzo sono io. - replicò Sergio, scuotendo il
capo e
riprendendo il lavoro appena interrotto.