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Autore: Stregatta    13/09/2012    3 recensioni
Eravamo i Kasabian. Come Linda Kasabian, un'adepta della Famiglia di Charles Manson. Come “macellaio” in armeno. L'incubo senza volto delle autorità, delle banche, di chiunque possedesse qualcosa che ci facesse gola – “eroi neri” secondo i giornalisti più poetici, “maledetti farabutti figli di puttana” per qualsiasi membro delle forze dell'ordine e “rockstar del crimine”, appunto, secondo il resto della malavita locale che ci odiava con lo stesso trasporto con cui ci detestava la polizia.
Genere: Azione, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Tutto questo nasce dall'esplosione ormonale conseguente al concerto dei Kasabian a Roma lo scorso ventiquattro febbraio, perché a quanto pare se non ho le ovaie in sollucchero non scrivo; poooooi c'entrano anche il video di Re-wired e di Fire (inseguimento folle + rapina = vogliamo fortemente che tu scriva un'AU in cui siamo dei criminali anche se nel genere “poliziesco” sei una schiappa, Mary – pretty please? Pretty please with a cherry on top?), la giacca piumata ed i capelli e la faccia di Sergio Pizzorno (brb dying of sexual frustration) ed il fatto che mi diverto così.

Detto ciò, i Kasabian sono una band terribilmente divertente che fa gran bella musica. Non mi appartengono, non li conosco di persona, mi istigano indirettamente a scrivere su di loro ma senza pagarmi. Il che è una fregatura, lo riconosco.

Conseguentemente, è tutto frutto della mia fantasia, tranne l'UST. Concedetemi l'UST, suvvia.

P.S.: se ve lo state chiedendo... No, non ce la faccio a chiamarlo Serge.



Mio padre sosteneva fermamente l'imprescindibilità della pena di morte come punizione per una quantità ridicolmente svariata di atti criminosi, dall'omicidio allo stupro, dalla truffe telematiche di cartomanti ed affini all'evasione fiscale – era un uomo risoluto e fiero, con una spiccata predilezione per il vino rosso e la non trascurabile abitudine di amministrare la sua insindacabile giustizia paterna e coniugale con mezzi che non lo rendevano dissimile da chi condannava idealmente alla pena capitale.
Più di tutto, però, era incredibilmente noioso e granitico e così banale, Dio.
A pensarci – e di tempo per pensare ne avevo a iosa, in galera - tutta la storia della piccola, disastrata famiglia Meighan era terribilmente noiosa e banale, un caso di violenza domestica e di gioventù bruciata da Pubblicità Progresso.
L'unico elemento interessante, quello che risollevava le sorti del mediocre polpettone melodrammatico che era stata la mia vita nei suoi primi vent'anni, non poteva purtroppo essere divulgato ma solo rievocato ad nauseam durante i giorni grigi della detenzione, interrotti solo dall'ora d'aria e dalle visite del mio avvocato – d'ufficio, perché Tom Meighan era uno squattrinato delinquentello di mezza tacca che aveva tentato il colpaccio restando fregato. Nulla di più.
Mio padre, insomma, aveva torto per molti versi – quasi tutti - compresa la sua convinzione che la morte fosse peggio di tutto ciò.


Non l'aveva riconosciuto, di primo acchito – i capelli tirati all'indietro con il gel, sbarbato, in doppio petto grigio e cravatta regimental... Un estraneo.
Prima che iniziasse a parlare, Tom temette che Sergio avesse anche cambiato voce.
- Sei comunque una gran testa di cazzo.
… e invece no. Il timbro e i modi “gentili” erano sempre gli stessi.
- Buongiorno anche a te. Saresti...?
Sergio lanciò una breve occhiata all'ufficiale che controllava l'ingresso della sala visite, poi sorrise – e fu palesemente molto difficile, per lui.
- Tuo cugino Evan Ashton di Newton Abbott.
Tom annuì con fare entusiastico, chiocciando: - Ciao, cugino! Stai bene senza barba. Come va laggiù nel Devon?
- Ho parlato con uno di loro. Può aiutarti.
- Sperando che non ci aiuti come ci ha aiutato Karloff...
- Questo qui è più attento. Fra qualche giorno potrai uscire di qui.
- Legalmente o in stile Prison Break?
Stavolta la smorfia forzatamente ilare non resse; Sergio aggrottò le sopracciglia e rispose: - Tom, hai rubato La Fée Verte... Ovviamente non esistono modi legali di farti uscire tanto in fretta. Dipendesse da Sal'Aram verresti decapitato con una scimitarra durante l'ora d'aria, figurati.
- Dio salvi la Regina, allora, e la legge inglese.
- La Regina vuole vederti marcire qui dentro, piuttosto che rovinare le relazioni diplomatiche con lo sceicco.
- Almeno non sanno chi sono, no?
- Sei nella merda lo stesso e lo sai.
La guardia carceraria li stava guardando da qualche secondo di troppo. Sergio si chinò a stringere affettuosamente il braccio di Tom, sussurrando: - Non posso dirti di più, per ora.
Prendendogli la mano e carezzandogliela, Tom chiese: - Ok... Allora, come butta? Chi è in testa al campionato di Formula 1? Cos'hai mangiato a colazione? Stai uscendo con qualcuna, al momento?
- Sono tuo cugino, non il tuo ragazzo. - gli ricordò Sergio, sfilando delicatamente la mano da quella dell'amico.
- Comunque... Alonso, mezza bagel vuota con caffé lungo senza zucchero, ascetismo estremo.
- Oh, piccolo... Te la passi proprio male senza il tuo Tommy, eh?
- … come diavolo fai a restare così cazzone anche qui dentro?
- Essere cazzoni è un dono innato.
Ed il brutto di possedere tale dono, ultimamente, era non avere più accanto qualcuno che sollevasse gli occhi al cielo dopo l'ennesima stronzata detta o commessa – e poi nessuno ci riusciva bene come il buon vecchio Sergio.
- Ti tirerò fuori di qui.
- Lo so.
Tom ridacchiò, quando vide l'amico distogliere lo sguardo per un attimo dal suo.
- Quanto sei italiano quando fai così...
- Sei una testa di cazzo.
- L'hai già detto.
Sergio superò il breve momento di impasse, domandando: - Come si sta qui dentro?
- Uhm... La mensa è meglio di quanto mi aspettassi, fanno un fish and chips da leccarsi i baffi. In cella sto da solo e sono mediano nella squadra di calcio dei Ladri. Domenica siamo contro i Truffatori, peccato che non ci sarai a vedermi giocare.
- Se tutto va bene non ci sarai, a giocare.
- Il che è quasi un peccato, sono la spina dorsale del team.
Di nuovo gli occhi che roteavano verso l'alto – oh, sì. Gli era proprio mancato da morire, quel gesto.


- L'orario delle visite è terminato! - annunciò la guardia.
- Grazie di essere venuto, cuginetto. Ci vediamo fuori.



Thick as Thieves


Tre mesi prima


Quell'omelette sembrava davvero invitante: spessa mezzo centimetro, ben cotta sui bordi ma più cremosa verso l'interno – e il ripieno di prosciutto cotto e formaggio fuso, poi...
Peccato che il suo legittimo proprietario avesse deciso inspiegabilmente di trascurarla in favore del Guardian.
Alla fine, Tom non seppe resistere: - La mangi?
Dall'altro capo del tavolo, Sergio lo fulminò con un'occhiata da sopra le pagine del quotidiano.
Era davvero un pessimo compagno di viaggio, in quel frangente: durante tutta la mattinata avevano scambiato sì e no venti parole, per lo più grugniti disapprovanti o insulti velati piuttosto male.
Certo, era comprensibile che una fuga rocambolesca con la polizia alle calcagna - senza il tempo di fare decentemente i bagagli e senza colazione, poi – non costituisse esattamente un toccasana per i nervi di chiunque, ma se c'era una cosa che la povera Nancy Meighan aveva insegnato a suo figlio prima di abbandonare il tetto coniugale più di dieci anni prima era che ogni cosa, anche se maledettamente brutta e merdosa, possedeva dei lati positivi.
Se lui e Sergio non fossero stati costretti alla fuga non sarebbero mai finiti in quel grazioso, piccolo autogrill dalle pareti ricoperte di legno chiaro che vendeva delle omelette extra-lusso ingiustamente snobbate dal suo amico. Fra l'altro gli avrebbe fatto bene mangiare un po', ultimamente sembrava sempre di più un manico di scopa con una nutria a pelo lungo infilzata ad un capo.
Ad ogni modo, Sergio gli passò il giornale e pronunciò la sua prima frase – una sequenza soggetto + verbo + complemento - della giornata: - Hanno stanato Karloff.
- Come pensavamo. - annuì Tom, posando coltello e forchetta sul tavolo per dare un'occhiata all'articolo in prima pagina.
Considerò, alzando le spalle: - Almeno non ha parlato di te... Di noi.
- Sanno comunque che c'è un complice.
- Ma Sergio Pizzorno è solo un nome esotico che nessuno associerà mai a quello di Tom Meighan.
- Serge Pizzorno.
- Sì, quello che è.
Il tono degli articoli dedicati alla loro impresa era interessante... Sottilmente ironico. Persino le parole spese dalla cara vecchia Lizzy II in merito suonavano vagamente derisorie.
Non interessava davvero a nessuno che uno stronzo di nababbo mediorientale avesse perso uno dei suoi prestigiosi gingillini, in fondo... Il prezzo del petrolio aveva superato i centodieci dollari al barile, quella settimana – uno a uno, palla al centro.
Tom chiuse il giornale, scivolando in avanti sulla sua sedia: - Non vedo l'ora di mettere mano all'Olivetti.
Certo, perché fra i pochi effetti personali che avevano portato via dal loft non poteva mancare l'Olivetti Studio 46 di sua madre – una monolitica macchina da scrivere color verde acqua che utilizzava da qualche tempo per la stesura delle sue mémoires e che Sergio odiava cordialmente per il rumore tremendo che facevano i suoi tasti quando venivano pigiati dalle dita per nulla delicate di Tom.
Chinandosi verso il compagno per non essere udito da orecchi indiscreti, Sergio bisbigliò: - Siamo in fuga con lo smeraldo più grande del mondo in tasca, uno sceicco, l'Interpol, la Regina e metà dell'opinione pubblica vogliono la nostra... La tua testa su un vassoio d'argento e tu...
- … e io muoio dalla voglia di scriverlo nelle mie memorie! Ti rendi conto? Si tratta dell'avventura più eccitante che abbiamo vissuto...
- L'ultima, poi. - gli ricordò Sergio, e la sua espressione finalmente si addolcì.
- … quante Olivetti ci potremmo permettere, in cambio de La Fée Verte? -
Un ulteriore progresso: stava sorridendo. Guardava oziosamente fuori dalle grandi porte a vetri dell'autogrill, perché probabilmente gli dava fastidio aver ceduto al buonumore di Tom e non poter recitare più la parte del grillo parlante, ma sorrideva.
- Per l'ultima volta, non si pronuncia “fii ver”. - lo corresse Tom, e Sergio gli fece il verso: - Sì, quello che è.
Estrasse il suo iPhone dalla giacca, armeggiando con il touchscreen per qualche secondo prima di annunciare: - Fra un paio d'ore dovremmo arrivare a Clubfoot.
- E saremo al sicuro. - sottolineò Tom.
Sergio sollevò le sopracciglia, commentando: - Il fatto che tu ti senta in dovere di dirlo parla da sé.
- Sei il peggior compagno di fuga possibile, lo sai? E comunque... La mangi tutta o no?


Clubfoot è oggettivamente un posto di merda: un minuscolo villaggio abitato da qualche centinaio di povere anime, da anni noto solo per una stupefacente concentrazione locale di casi di equinismo – una malformazione congenita in cui il piede è piegato verso l'interno e il basso – forse dovuta a rapporti incestuosi all'interno della comunità o cose del genere. Per il resto è solo verdi colline, pecore, pastori litigiosi, allegre comari ottuagenarie e ortopedici e genetisti in pellegrinaggio scientifico.
Sergio ed io abbiamo affittato (ed in seguito comprato) una piccola fattoria sgangherata e perciò piuttosto economica da queste parti, dopo la rapina. Avevamo bisogno di silenzio, pace e discrezione – o così credevamo... Per quanto mi riguarda, ad esempio, non ho mai dormito bene alla fattoria: la troppa quiete ed il troppo, assoluto buio favorivano il parto di riflessioni che mi tenevano sveglio ogni notte, fin quando non arrivava l'alba. Rimanevo con le palpebre strizzate e le ginocchia strette contro la pancia per ore, la mente che scivolava di continuo in un dormiveglia che riecheggiava di spari ed urla, il senso di colpa, la paura del futuro – il mio futuro era più nero del buio che riempiva la stanza, più minaccioso di
loro che, ne ero sicuro, mi guardavano dai piedi del letto e che potevo tenere alla larga solo chiudendo gli occhi, serrando i denti e tirandomi la coperta sulla testa come un bambino terrorizzato.
La chiamano sindrome post-traumatica, credo. Purtroppo non potevo avvalermi di un aiuto psichiatrico, perché per un criminale a piede libero è un po' difficile andare da un terapista e spiegare le proprie ragioni senza ritrovarsi in galera due giorni più tardi.
Ho risolto il problema infilandomi nel letto di Sergio.
Ad essere sinceri, me l'ha proposto lui – di giorno ero irritabile, apatico ed avevo un paio di occhiaie che mi arrivavano fin sotto il mento, tenergli nascosto il problema stava diventando impossibile; mi fece confessare abbastanza facilmente, sarebbe un buon poliziotto se non fosse già un ottimo delinquente.
No, non ho cercato di allungare le mani in quel lungo periodo che mi ha visto come suo compagno di letto. Tutto sommato, ancora oggi mi rendo conto che non è tanto il suo corpo ad attrarmi – l'idea di
spogliarlo, invece, di essere l'unico a sapere cosa c'è sotto i vestiti e sotto quel malloppo di capelli che prima o poi lo ingoierà tutto intero senza neanche sputare le ossa... Oh, mi piace da matti.
Posso concedervi che tutto sia partito da lì. È un'ipotesi ragionevole, anche se forse non è del tutto esatta. Credo sia iniziato molto prima, personalmente.


La fattoria non sembrava aver risentito del peso degli anni trascorsi dall'ultima volta in cui era stata abitata: nell'aia, le erbacce erano meno alte di quanto Tom si aspettasse, nessuna finestra era rotta e non mancava alcuna tegola sul tetto scuro; i cardini della porta aveva bisogno di una generosa oliata, ma si trattava di un problema minimo.
- Casa dolce casa. - mormorò Tom, strusciando un piede sul pavimento dell'ingresso e lasciando una traccia scura contrastante la coltre grigiastra di polvere che lo ricopriva.
Sergio gli appioppò un borsone piuttosto pesante e gli ordinò: - Vai di sopra e sistema un po' la stanza da letto... Cambia le lenzuola e apri le finestre. Io controllo la caldaia e il contatore.
- Agli ordini, mammina. - lo motteggiò Tom, dando poi un'occhiata alle scale polverose.
Una sensazione di disagio, un'eco distorta e fievole di qualcosa a cui, grazie a Dio, ad un certo punto aveva imparato a non pensare, gli fece compagnia mentre saliva al primo piano.
Quando scese di nuovo ed andò in cucina, trovò un bollitore su un fornellino da campo e Sergio che infilava due bustine di tè in altrettante tazze vuote.
Tom sorrise: - Non c'è guaio che non possa essere risolto con un po' di tè, eh?
- Questo è poco ma sicuro. - rispose l'altro, versando l'acqua bollente nelle tazze.
Sergio tirò fuori da uno zaino un pacco di zollette di zucchero ed uno strofinaccio pulito, prendendo poi un paio di cucchiaini da un cassetto della credenza ed iniziando a pulirli.
- Niente latte? - domandò Tom,
- Adesso pretendi troppo, figliolo.
Sergio si sedette, allungando le gambe fino a trovare involontariamente i piedi di Tom sotto il tavolo; distese le braccia sul ripiano, lo sguardo assente puntato sulla tazza di tè.
Non cambiò espressione, quando mormorò: - C'è un'atmosfera...
- Surreale?
- Lo è un po' tutto. - considerò Sergio, alzando gli occhi su Tom.
Era un segnale, quello sguardo - il segnale che precedeva ogni discorso sgradevole e momento “topico” del loro rapporto; glissare sarebbe stato inutile e forse addirittura dannoso, a seconda dell'umore di Sergio, quindi Tom si armò di coraggio e pazienza e disse: - Tipo?
- Il grande colpo di fine carriera, tu che agisci da solo...
Il suo tono di voce infastidì Tom perché troppo gentile, troppo indulgente. Sfociava quasi nella condiscendenza o, peggio ancora, nella comprensione sincera.
- Perché non mi dici cosa c'è che non va senza girarci troppo attorno, mhm?
- Come al solito ti illudi che io sia più complicato di quanto sembri...
Tom si chinò in avanti, sorridendo a denti stretti.
- … sei tu quello delle sfumature. Tommy vede tutto in bianco e nero.
- Quindi?
- Quindi, semplicemente, mi sono rotto il cazzo di fare l'Arsenio Lupin del ventunesimo secolo e voglio smettere. Ne ho passate tante, e voglio solo stare tranquillo per il resto dei miei giorni.


Avevamo iniziato con una rapina – una volgare rapina a mano armata in una banca circondata dal nulla di una cittadina di provincia simile a tante altre.
Il ricordo di quella giornata, nella mia mente, è patinato da un velleitario chiarore aranciato – non successe al tramonto, erano scattate da poco le undici di mattina.
Arrivammo a bordo di un camioncino vecchiotto che faceva un gran casino ma era ancora piuttosto efficiente: io, Sergio, Deirdre ed un povero cristo amico di lei che quel giorno trovò la morte rannicchiato in un carrello da supermercato, il petto forato da un proiettile della polizia.
La stessa sorte era toccata a Deirdre, poco prima: Sergio la trovò al posto di guida, gli occhi chiusi come se stesse semplicemente riposandosi, le mani ancora aggrappate al volante.
Per noi altri ci fu appena il tempo di correre via, inseguiti dalle pallottole delle guardie. Gettammo via la refurtiva durante la fuga, ci fermammo solo per rispondere ai colpi delle forze dell'ordine e trovare rifugio io dietro un muro e Sergio dietro ad una catasta di cassette colme di bottiglie di latte – il retro di un supermercato.
L'amico di Deirdre sputava sangue, non poteva più fuggire né tantomeno sopravvivere.
Non persi un solo attimo della sua agonia: il tempo sembrava essersi fermato in quel vicolo, tra le pallottole che fendevano l'aria sibilando e si schiantavano contro le bottiglie del latte ed il muro che mi stava proteggendo. Il tipo rantolava parole incomprensibili, si aggrappava alla mia giacca senza vedermi, lo sguardo era già morto, vitreo.
Ricordo di non aver provato paura né rabbia. La mia era la gioia feroce, umana e vigliacca di essere ancora in grado di stare in piedi, di muovermi, di aiutare finalmente Sergio a tenere a bada quegli stronzi, resistere al rinculo che mi premeva il calcio del fucile contro il torace, dove il cuore faceva più casino degli spari e della marmitta del camioncino che ci aveva portati fino a lì.
In fondo chiunque aveva la morte addosso, ogni giorno... Stavo solo scegliendo di giocarci un po'.
Ne uscii con una ferita superficiale ad un braccio e la consapevolezza che l'unico lato positivo di quella giornata era stato salvarsi la pelle.
- Non potrà essere così tutte le volte. - mormorava ogni tanto Sergio nel medicarmi la ferita, a casa, e mi veniva da ridere perché era davvero il commento più stupido da farsi in quel caso.
- Pensavi sarebbe stata una passeggiata? Che lo sarà mai? - gli chiesi.
Sergio sollevò lo sguardo dal mio braccio, fissandomi senza proferire parola: poi continuò ad avvolgere la garza, cambiando argomento: - Hai visto il telegiornale... Il fazzoletto sulla bocca non è servito a un cazzo.
- Quindi cosa proponi?
- Di tagliarti i capelli, tanto per cominciare. Ci penso io.
Il riflesso che lo specchio mi restituì dieci minuti dopo mi piacque abbastanza: il braccio fasciato, i capelli che non si aprivano più a sipario sulla mia faccia ma cadevano corti ed irregolari sulla fronte, Sergio dietro di me che rimirava il suo operato con un sorrisetto compiaciuto.
- Che te ne pare? -
- Potevi fare l'hair-stylist delle star, invece del delinquente.
- Grazie, sono quindici sterline.
- Dovevano essere molte di più.
Pensai per l'ennesima volta a Deirdre, al suo amico di cui dieci anni più tardi avrei completamente dimenticato il nome e domandai: - Dici che Dedi ci starà odiando, in questo momento?
- Non può. - ribatté Sergio, e allora gracchiai una strana risatina.
- Perché è morta, vero?
- Perché eravamo suoi amici e sapeva perfettamente a cosa andava incontro. Non era la prima volta, non sarebbe stata l'ultima.
- E tu?
Mi grattai la ferita, che non bruciava più come all'inizio ma in quel momento prudeva da matti – come faccio a ricordare pure questo dettaglio, diamine, e invece il
suo nome è perso per sempre - e ripetei: - E tu? È la tua prima e unica volta, questa?
Sergio bloccò la mia mano: - Smettila.
- Dimmi se vuoi finirla qui.
- No, non voglio finirla qui... Ma dobbiamo cambiare rotta. Oggi abbiamo rischiato grosso e abbiamo perso Dedi. Non deve più succedere.

Quella fu la fine della mia carriera di rapinatore e della lunga chioma liscia e curata di cui andavo tanto orgoglioso. In compenso, guadagnai un complice di cui potermi fidare ad occhi chiusi.
Ancora oggi ho me stesso, i soldi, una caterva di cicatrici emotive e lui. Si prende cura di me in quella sua maniera ruvida, da burbera mamma d'altri tempi. Una di quelle che si attengono al motto“i figli si accarezzano solo quando dormono”, per capirci, e allo stesso tempo ogni giorno rinunciano a qualcosa per te, per farti stare bene, per insegnarti una lezione – in definitiva, per crescerti.
Questo spiega molte cose - come puoi resistere al fascino di ciò che non hai mai avuto?


- Fino a qualche tempo fa eri un drogato di adrenalina ed era quello il tuo modo di godere. Se smetti cosa ti resta?
- I soldi. La mia bella faccia. Le donne. Posso imparare a godere di questo.
- Non ti basterà mai, ti conosco.
- Smetti di cercare di farmi cambiare idea...
- Ehi, è stata una tua decisione... Mica devo essere d'accordo per forza.
E Tom rise di cuore, a quel punto, provocando l'altro: - Puoi sempre lavorare con qualcun altro.
- Non posso, stronzo.
- Sono insostituibile, eh?
Sergio sbuffò anche lui una risata. - Neanche ti rispondo, guarda.


Eravamo i Kasabian. Come Linda Kasabian, un'adepta della Famiglia di Charles Manson. Come “macellaio” in armeno. L'incubo senza volto delle autorità, delle banche, di chiunque possedesse qualcosa che ci facesse gola – “eroi neri” secondo i giornalisti più poetici, “maledetti farabutti figli di puttana” per qualsiasi membro delle forze dell'ordine e “rockstar del crimine”, appunto, secondo il resto della malavita locale che ci odiava con lo stesso trasporto con cui ci detestava la polizia.
Un progetto interessante, il nostro, in maniera francamente inaspettata. Una volta sono entrato in una libreria per non so bene quale motivo – ok, non sono un fine intellettuale... Sono più un uomo d'azione, io – e ho trovato un saggio intitolato “La filosofia secondo i Kasabian” o qualcosa del genere. L'ho subito comprato e divorato in pochi giorni, ridendoci su moltissimo – conoscevo meno della metà dei filosofi citati, e le loro argomentazioni per me erano arabo puro.
Dico questo per... Be', per bullarmi un po', immagino. E lo so che non dovrei farmi grosso di una carriera fondata sul ladrocinio e via discorrendo ma... Perché no? Insomma, dimenticatevi per un attimo che sono un delinquente patentato e vedete la cosa per quello che è: una sottospecie di fenomeno culturale, un'icona pop... Ecco, io e Sergio siamo due icone pop. Non è forse più di quanto riuscirà ad ottenere la maggior parte di voi, nel corso della sua esistenza?


- Vuoi un figlio?
- Cos...?
- Hai conosciuto una donna, non so...
- Non sono cambiato per ammmore, Pizzorno, per chi cazzo mi prendi?
- Sto cercando di arrivarci... Si tratta di un bel rompicapo.
- E invece no, è solo una decisione che non ti sta bene e siccome sei contorto, testardo e fastidioso devi per forza cavillare! Che ti prende? Perché non puoi accettarlo?

- Perché Tommy non ha pensato a cosa vuole Sergio, e a Sergio adesso girano le palle.
- Credevo fossi d'accordo, all'inizio...
- Ti stavo assecondando... Credevo fosse un capriccio, una roba passeggera.
- Un cap- porca puttana, Pizzorno, e poi sarei io a fare girare le palle a te...?
- Se ti comporti da moccioso ti tratto da moccioso, fine.
- Ah, quindi mi comporto da moccioso?
- Più o meno da quando ti conosco, sì.
- La sai una cosa? Quando mi ritirerò alle Barbados con la mia parte e mi farò succhiare le dita dei piedi da meravigliose aborigene ventenni...
- … non so da dove cominciare a commentare questa frase...
- … questo non mi mancherà affatto. La tua... Attitudine da madre apprensiva che pensa che il figlio non sappia campare al di fuori delle sue gonne, la tua arroganza, la tua... Cazzo, avevo già mio padre che mi credeva un fallito, se avessi voluto...
- Tom, che cazzo...
- Prima ci separiamo e meglio è.
- Lo spettacolo si è concluso? Posso applaudire? Dovresti fare del teatro, davvero.
Sergio assottigliò gli occhi, e mormorò: - Parliamo di come sto io, ora... Se non ti dispiace.
Tom emise un sospiro, alzando il mento quasi in segno di sfida: - Ti ascolto.
- Prima di tutto, fammi il favore di non mettermi in bocca cose che non penso né penserò mai... Se tuo padre ti giudicava un fallito sono cazzi suoi, non miei.
Sorrise, incredulo: - Ti aspettavi davvero che reagissi bene nei confronti di questa decisione che è solo tua? Sono abituato a fidarmi ciecamente di te perché è l'unico modo possibile per sopravvivere nelle nostre condizioni e l'ho accettato tanto tempo fa... E tu non vuoi dirmi perché intendi smettere, come se la cosa riguardasse solo te.
- Ma riguarda solo me.
- Ci sto dentro quanto te, razza di imbecille.
- E questo non ti pesa mai? Se fossi tu a desiderare una vita diversa, cosa faresti? Ti sacrificheresti per me e rinunceresti ad altro?
- Vedi che non capisci? Voglio solo sapere perché, Tom! Mi devi solo questo!
- Perché è giusto così, perché... Basta, Sergio! Basta con questa cosa, basta dipendere l'uno dall'altro, basta rischiare la pelle!
- E l'hai deciso da un giorno all'altro?
- Ovviamente no... Ci penso da un po'.
Sergio abbassò gli occhi su un punto oltre il ripiano del tavolo.
- Non sono abituato all'idea di prendere strade diverse... Tutto quello che abbiamo fatto fino ad oggi è stato sostenerci e credere nelle stesse cose.
- Lo so.
- Devi darmi un po' di tempo. - sussurrò Sergio, lasciando andare poi un tremulo sbuffo come per calmarsi.
Sottovoce, quasi a non volerlo disturbare, Tom chiese: - Che vuol dire?
- Devo riflettere un po' anch'io su quello che farò, e dove, e con chi.
- Non dobbiamo... - cominciò ad argomentare Tom, esitante.
- … non vuol dire che non ci vedremo più, dai. Potremmo reinvestire i nostri soldi in qualcosa... Qualcosa di pulito.
- Insieme? -
- Perché no? Sarebbe bello.
Sergio non disse nulla, per un po'; alzò la testa, ad un certo punto, e domandò: - Meighan, cosa sono io per te?
- Prego?
- Sono un socio, un amico, un complice?
- Naturalmente sei tutte queste cose insieme, Sergio, che diavolo...?
- Non puoi organizzare tutto in modo da farlo ruotare attorno a te.
- Sergio...
- Sei un paraculo, un manipolatore del cazzo... Ma stavolta non funzionerà. Se i Kasabian sono finiti, sono finiti davvero. Niente soluzioni alternative da impormi, niente scappatoie. Questa è l'ultima volta che ti aiuterò.
La sedia traballò e minacciò di cadere a terra quando Sergio si alzò bruscamente e uscì dalla stanza, sotto lo sguardo basito di Tom.


Lui non sembra affatto il tipo di uomo che è in realtà. Cioè, sì, sembra ed in effetti è ombroso e un po' timido, ti studia e ti giudica in una sola occhiata... Ma è più di questo. Io so tutto di lui e lui sa tutto di me – quasi tutto... Non sa che lo amo. Non c'è neanche bisogno che lo sappia, ad essere sinceri. Insomma, fin quando dureranno i Kasabian lui sarà consapevolmente e serenamente mio.
Forse è anche per questo che voglio smettere.

adesso sì che non potrà farmi da correttore di bozze.

Dieci minuti più tardi, l'ululato di una sirena squarciò la placida quiete del pomeriggio di Clubfoot.
Una carovana di auto della polizia imboccò una stradina privata che portava ad una certa fattoria fuori dal villaggio.
Dalla finestra della camera da letto si aveva una visuale perfetta della scena.
- Magari non sono qui per noi. - commentò Tom, sorridendo in una sorta di tic nervoso.
Un attimo dopo era corso giù al seguito del complice, La Fée Verte e le chiavi dell'auto in mano.
- Prendo la macchina.
- Prendi...?
- Tu ti nasconderai nella nicchia, io li distrarrò facendomi inseguire.
- No!
Sergio lo prese per un braccio prima che scendesse l'ultimo gradino: - Tom, no.
Stupito, Tom spiegò brevemente: -È solo la procedura di emergenza. Uno dei due deve restare fuori per far eventualmente evadere l'altro e io sono già compromesso, perciò...
Nonostante i loro furti fossero sempre stati complessi ed ambiziosi nella progettazione, non si trovavano a fronteggiare un'emergenza simile da molto tempo, dai tempi della loro prima rapina – forse Sergio sembrava così spaventato per quel motivo, come se i suoi mille presagi nefasti fossero diventati realtà e tutto fosse inutile... La fuga, nascondersi...
Era finita, questo temeva.
A torto.
Tom credette fermamente in quanto stava dicendo: - Mi tirerai fuori, tranquillo.
Senza neanche dargli il tempo di finire la frase, Sergio lo tirò a sé e lo baciò.
Due inafferrabili criminali in procinto di essere catturati persero secondi preziosi a scambiarsi un bacio – ma poteva essere un addio, ed in quell'istante era tutto ciò che contava.
- Ti ricordi dov'è la nicchia?
- Certo... E adesso vai.

Persino quando l'inseguimento finì con il suo arresto, Tom Meighan ripensò a quanto era successo alla fattoria... Sorridendo, anche con le manette ai polsi.



Tre mesi (e qualche giorno) dopo




- … così, ti ritrovi di nuovo a farmi da parrucchiere.
- Dici che dovrei tentare la carriera?
- Stai scherzando? Dove lo trovo un altro complice se mi molli?
Sergio smise di tagliare i capelli di Tom, restando con le forbici a mezz'aria ed incontrando gli occhi del complice attraverso lo specchio; quest'ultimo rise, dicendo: - … lo so, sono un pazzo.

- Errore, il pazzo sono io. - replicò Sergio, scuotendo il capo e riprendendo il lavoro appena interrotto.

   
 
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