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Autore: BlueWhatsername    14/09/2012    7 recensioni
"Quella canzone è più me di quanto lo sia io stessa." [cit.]
Oh sì, sono io. O meglio, in quella canzone ci sono io.
L'ho sempre sentito.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Billie J. Armstrong, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“… Read between the lines of
what's fucked up and everything's alright,
check my vital signs
to know I'm still alive and I walk alone…

 
 
 
21/09/2004
 
 
Corse giù per il vialetto della scuola senza guardarsi indietro.
Ansimava, spasmodica, senza aria nei polmoni.
Correva e non poteva fare altro.
Quando avvertì il cuore accelerare ancora di più il battito, capì di essere arrivata ad un punto di non ritorno.
Come tutte le volte, come sempre.
Il vialetto d’aiuole terminava in un punto appartato del boschetto che lambiva il cortile, non ci sarebbe voluto molto.
Non ci sarebbe voluto niente, a dir la verità.
Al di là, un pendio scosceso, direttamente sulla miniera della città.
Che poi, perché mai costruire una scuola in un punto così pieno di pericoli?
Addy lanciò i libri a terra, valicando quello strano punto di non ritorno, ignorando i clacson delle macchine sulla strada, le grida dei ragazzi, ignorando il suono insistente che le impediva di capire quanto male fosse.
Quanta rabbia.
Quanto dolore.
Quanta tragedia.
Quanto rumore.
Le gambe sicure lungo i pochi alberi che chiudevano quel punto del suo personale inferno.
Il limite sembrava estremamente bello e raggiungibile.
Sembrava eterno, sembrava la stesse interpellando.
Gli scoordinati battiti cardiaci la richiamarono alla realtà, spezzandole in due, tre, quattro, infinite parti il suo respiro già lieve ed insicuro.
Dove si trovava lei?
Lì, in quella realtà maledetta e tangibile o più in là, in quella zona di penombra che le offuscava i pensieri e non la faceva respirare.
Il cielo le cadde addosso come una coperta immacolata, rivestendola del suo azzurro limpido e tenue.
Del suo essere fastidio e premura, contro la sua figurina esile ed impotente.
Addy sospirò, muovendo i piedi lentamente, armonizzando quegli stupidi movimenti in una danza sempre più vicina all’inferno, senza purgatorio nel mezzo ad addolcire la caduta né paradiso che potesse attenderla in caso di ripensamenti.
Blu, il cielo, sovrastante lei e quel vuoto ammaliante, così pieno di macchine e rumore.
Vedeva chiaramente le vetture sfilare veloci, sfiorare con la polvere delle ruote quel selciato che ormai sembrava vicinissimo.
Sembrava reale.
Sembrava grigio e sporco come i suoi fili di pensiero.
Un singhiozzo, una lacrima, forse anche un gemito. Ma non servirono a farle cambiare idea.
Come sempre.
Era quella la strada.
Quella la pagina in cui le sue linee si congiungevano, il punto esatto in cui leggere cosa cazzo ci fosse di sbagliato perché tutto andasse a puttane così. Quello il momento di controllare se era ancora viva, se i suoi segni vitali funzionassero o servissero invece a mandare avanti qualcuno che non c’era.
Sospirò, e attese.
L’abisso, che Dio aveva reso in quel momento uno scosceso dirupo nascosto dagli alberi, aspettava una sentenza.
Come lei.
 
**
 
<< Sei a casa! >> Sua madre si sporse dalla porta della cucina, investendola del sapore corposo e intenso del tacchino << Ma dov’eri? Sei in ritardo… E non è da te, Adrienne. >>
Adrienne.
Adrienne.
Adrienne.
Lei odiava quel nome.
E odiava chi lo usava per rivolgersi a lei.
<< Ho… Avuto un contrattempo… >> borbottò in risposta, sedendosi a tavola.
<< Le mani. >> la ammonì sua madre, perentoria, costringendola ad andare al lavandino per sciacquarsi con ben poca voglia.
L’occhiataccia che ricevette fu più che esplicativa.
<< Che genere di contrattempo? >>
Cazzi miei, magari?
No, si limitò ad una semplice alzata di spalle, come sempre.
Non poteva certo dirglielo.
Non poteva certo confessare a sua madre che il suo unico contrattempo era vivere.
<< Come… Come va con Sam? >>
Addy addentò il coscio del tacchino, rischiando di strozzarsi.
Sam, chi?
Ah sì, giusto.
Il figlio dell’amica di sua madre.
Il bel ragazzo alto, biondo, bellissimo.
Il ragazzo che sua madre voleva che lei frequentasse.
Il ragazzo con cui voleva si fidanzasse.
Diamine, aveva tredici anni, non trenta. Perché lei arrivava a capire queste cose e sua madre, la donna che l’aveva messa al mondo, no?!
Ah, e come dimenticare.
Il ragazzo diciannovenne che l’aveva palpata in maniera indecente, quando li avevano lasciati da soli.
<< Ti ho già detto come la penso. >>
La madre la squadrò, intervallando la sua vastissima gamma di emozioni ad un arricciamento di labbra poco rassicurante.
<< Ma Andrienne… >>
<< Non chiamarmi in quel modo. >>
La donna sollevò un sopracciglio, confusa.
<< Come pretendi che ti chiami, allora? >>
Non chiamarmi, molto semplice.
<< Non mi piace il tuo comportamento. Cos’hai, si può sapere? A scuola i tuoi voti sono eccellenti, esci la domenica con le tue amiche, studi… Cosa… >>
Oh, ma certo.
La sua vita era sorprendentemente perfetta, vero?
Ottimo rendimento a scuola.
Il classico gruppetto di amiche oche e prive di un’intelligenza che potesse andare oltre il mettersi lo smalto senza sbavature eccessive.
Le sudate ore passate sui libri, l’unica cosa che la distraesse seriamente dal resto.
Tutto, niente, qualsiasi cosa.
Nemmeno lei lo sapeva, molto probabilmente.
Era più un urgenza, una sensazione devastante al centro del petto, sentirsi circondati da chiunque ma non avere nessuno.
Non sentire nessuno respirare la stessa aria.
Nessuno assaporare le stesse parole.
Nessuno vivere le stesse emozioni.
Nessuno.
<< Non ho nulla. >> rimbeccò Addy, aspra << E lasciami pranzare, per piacere! >>
<< Calmati signorinella! Non è questo il modo di rispondere a tua madre! >>
Sollevò gli occhi solo per poterla guardare fisso.
Ma ci faceva o ci era?
Non rispose, abbassando nuovamente gli occhi e continuando a mangiare.
Lei era così: parlava poco, ma quelle poche parole avevano così tanto senso da annientare tutto il resto.
<< Stasera vengono a cena Sam e sua madre. >>
Addy sorseggiò l’acqua, con indifferenza.
<< La cosa non mi riguarda! >>
<< Io credo di sì. Tu ti presenterai a casa alle sette e mezza, puntuale, e non mi farai fare brutta figura, sono stata chiara? >>
Nessuna risposta.
Nessun segnale che non fosse quello dello sguardo vacillante e vacuo, perso in chissà che pensieri.
In chissà che ricordi.
<< No. >> fu la sola cosa che uscì dalla bocca di Addy.
<< Prego? >> chiese sua madre, inarcando un sopracciglio << Senti, ragazzina, datti una calmata e comincia ad obbedirmi se non vuoi che ti metta in punizione! Hai tredici anni, dannazione, non cinque e farai come ti dico, chiaro?! >>
Addy si morse le labbra, per evitare di rispondere.
Era sempre stato un suo problema, quello.
Controllarsi e non gettare fuori tutto quello che pensava.
Come un fiume in piena, una voragine di fuoco distruttore.
Anche se, ultimamente, sembrava essere diventata un’esperta nel controllare le sue emozioni.
Chiuderle, relegarle, sigillarne nell’antro del suo stomaco per non consentire loro di scavalcare l’aria in circolo.
Un nodo la strinse al petto, serrandole la gola in una morsa velenosa e amara.
<< No. >> ripetè, convinta.
<< Cosa?! >> sua madre le si avvicinò, puntandole l’indice contro << Ascoltami bene, ok? Molto attentamente Adrienne… Io e Samantha ci conosciamo da una vita e tu devi essere gentile con suo figlio, ci siamo intese? >>
Certo, essere gentile con lui, come no.
Cioè, scoparci?
Aveva tredici anni, lui diciannove.
Lei era mora, lui biondo.
Lei amava i silenzi, lui parlava senza interruzione.
Lei era ghiaccio, lui era fuoco.
Lei non avrebbe mai accettato di vivere in quel modo, lui sembrava già rassegnato.
<< Che cazzo dici, mamma?! >> Addy si sollevò in piedi, battendo il piatto con il tacchino a terra e lanciando il bicchiere pieno d’acqua al muro << Io non mi metterò mai con quel cazzone solo perché tu vuoi quel lavoro che Samantha ti ha proposto, ok? Scopaci tu col capo, perché io con Sam non ci andrò a letto! >>
 << Adrienne! >> sbottò, scandalizzata << Ma che linguaggio usi?! Devo controllare le tue frequentazioni, ragazzina! Chi ti ha insegnato certi termini, chi… Adrienne, ma non capisci? Sam è un bravo ragazzo, non ti chiedo tanto, io… >>
<< NON CHIAMARMI IN QUEL MODO! >> esplose, tirando la tovaglia con tutte le forze che aveva e mandando all’aria l’intero pranzo.
Come poteva.
Come poteva farle una richiesta simile.
Aveva tredici fottutissimi anni.
Non voleva pensare a quello.
Voleva fare altro.
Voleva vivere.
Forse era la sua testa che lavorava troppo velocemente, o magari era la realtà attorno a lei ad essere assurda, ma le sembrava di non essere viva.
No, le sembrava di soffocare.
Circondata, placata, braccata.
Da sua madre, in primis.
E dal mondo, poi.
Senza interruzione, senza via di scampo, senza riserve né tregue.
<< Adrienne, io… >>
Eh no.
Voleva fare la puttana?
Bene. Poteva farlo senza problemi.
Ma lei no. Lei non si sarebbe mai abbassata ad una cosa simile.
Mai.
<< Vaffanculo! >>
L’ultima parola che le uscì di bocca prima che corresse in camera, sbattendo la porta.
Il cigolio dei cardini, o della sua anima, non c’era molto differenza.
 
**
 
Tornò a respirare dopo un’interminabile apnea di pianti e singhiozzi.
Era così che continuava, tanto.
Ogni giorno, ogni fottutissimo giorno della sua esistenza, perso tra lamenti e pagine da studiare.
Aveva letto, da qualche parte, che la vita degli adolescenti era così: imprevedibile, difficile e dolorosa.
Ebbene, con lei Dio doveva essere stato proprio generoso, sotto questo punto di vista.
Se proprio doveva vivere, non voleva farlo in quel modo.
Non voleva proprio.
Era troppo complesso, troppo contorto, troppo duro da sopportare.
Eppure lei aveva un carattere forte, le dicevano tutti.
Lei era Adrienne, lei non si lasciava scoraggiare, lei ce la faceva sempre.
Lei era quella che incoraggiava e sosteneva, che ascoltava, che sorrideva.
Lei era la Adrienne intelligente e sicura di sé, che mostrava sempre di aver ragione, che non demordeva quando qualcuno la infastidiva oppure faceva commenti poco carini su di lei.
Sul suo corpo, su quello che era, sul suo non essere perfetta in tutto.
Sui suoi capelli ricci e aggrovigliati, più simili ad una massa di rovi che non ai boccoli di cioccolato che aveva visto sulla testa di qualche modella da copertina.
Sui suoi occhi, costantemente indagatori, costantemente arcigni ed attenti.
Sulle sue labbra, piene e rosse, e raramente docili ed aperte a lasciar parlare i coglioni.
Che poi, di coglioni in giro, ce n’erano fin troppi.
Chiuse il libro, sbattendo con forza la copertina, premendo il palmo della mano tanto da sentire prurito sulla pelle.
Lo specchio.
Con la coda dell’occhio intercettò la sua immagine riflessa e represse all’instante un brivido.
Non si piaceva.
Non le piaceva il suo corpo.
Non le piacevano le sue espressioni.
Non le piaceva nulla, teoricamente, di se stessa, se non il carattere.
Quel suo caratterino astioso ed impertinente. Lo stesso che la faceva odiare o amare senza mezzi termini.
Si alzò, contemplando le gambe, risalendo su, fino alle braccia e arrivando agli occhi.
A quei suoi occhi marroni e profondi, screziati di una lieve linea verdastra verso l’iride.
Una linea sottilissima e quasi invisibile che lei stessa aveva intercettato per caso, una mattina, specchiandosi un po’ troppo vicina, col naso praticamente schiacciato alla superficie riflettente.
Una smorfia.
Due smorfie.
Tre smorfie.
Sollevò delicatamente la maglia, scoprendo la pelle bianca e ghiacciata.
Chi avrebbe mai voluto accarezzare una pancia così?
Chi avrebbe mai voluto stare con lei?
A chi sarebbe mai piaciuta?
Strinse le palpebre, sospirando.
Il silenzio, ecco quello che sentiva, sia dentro che fuori.
Un silenzio rimbombante ed assoluto, un silenzio carico di parole, immagini, persone.
Un silenzio indeciso, martellante nella sua testa, un silenzio fatto di urla e schiaffi.
Un silenzio reso dolce e aspro dalle lacrime e dai sorrisi inconsci della sua anima, quando si ricordava di respirare.
Quando avvertì la porta di casa sbattere, Addy si rese conto di esser rimasta sola in casa.
Grande novità, dopotutto, le suggerì la vocina sfacciata dentro al suo cervello.
Ma sola lo era sempre.
Su un viale che ancora doveva trovare il nome.
 
**
 
<< Un caffè da asporto, grazie! >>
Addy si scaldò le mani con il fiato, per poi appoggiarsi per bene al bancone ad attendere.
Col cazzo che si sarebbe presentata, alle sette e mezza.
Piuttosto avrebbero dovuto andarla a cercare in Alaska.
Il sudicio bar in cui si era fermata pullulava di alcolizzati a puttane, considerato l’alto numero di uomini ubriachi semi-sdraiata sui tavoli accompagnati a donne con nemmeno un metro totale di stoffa addosso.
Si sentì leggermente a disagio a pensare di aver detto, solo qualche ora prima, che non voleva comportarsi da puttana.
Quando ora aveva la scena proprio sotto gli occhi.
No… Lei? Una cosa del genere?
Mai.
Ticchettò con le dita sul bancone, attendendo con ansia che quel barista ammuffito e con nemmeno la metà dei denti in bocca le preparasse il suo caffè, mentre lei si occupava di tenere sott’occhio la situazione.
Respirò a fondo, percependo poi uno strano senso di soffocamento alla bocca dello stomaco.
Non il classico senza di soffocamento, quello che la mandava fuori di testa ogni giorno, no…
… Era qualcosa di diverso.
Qualcosa di inaspettato e spaventoso.
Qualcosa di attraente e pericoloso.
Qualcosa di verde, che la fissava dall’altra parte del locale, con una strana luce addosso.
Addy deglutì, rendendosi conto che quel tizio, sì, proprio quello strambo tizio seduto da solo, la stava fissando, con attenzione.
Indurì lo sguardo, sentendo crescere il fastidio.
Non sembrava ubriaco, né desideroso di compagnia, a giudicare dalla solitudine di cui godeva il suo tavolo del locale, ma restava il fatto che la stesse squadrando.
<< A lei! >> esclamò improvvisamente la voce del barista, riscuotendola e facendola sobbalzare.
Pagò il suo caffè, costringendosi a camminare verso l’uscita del locale, tentando nel frattempo di non inciampare in qualche ubriaco ed evitando soprattutto di ignorare lo sguardo penetrante ed insistente che sentiva su di se.
Si voltò un ultima volta, e lui era ancora là, a scrutarla.
Senza muovere un muscolo facciale che fosse uno.
Senza segni di emozione in volto, solo quei suoi occhi verdi.
Tremendamente verdi.
Addy arricciò il naso, indispettita.
Ma che cazzo voleva anche quello?
Che cazzo si fissava in quel modo?
Senza pensarci due volte tornò indietro, parandosi davanti al suddetto tizio, sbattendo oltretutto il caffè sul tavolo.
<< Tutto bene? >> chiese lui con forte accento californiano.
Addy prese un bel respiro, insicura su come rispondere.
Riflettendoci avrebbe fatto meglio a non avvicinarsi per niente.
Andarsene, scappare, nascondersi da tutto.
Come faceva sempre.
<< Me lo dica lei, signore. >>
Signore? Signore?
<< Non so cosa tu voglia dire, ragazzina. >>
Eh no, lei lo aveva chiamato signore. Lui non poteva certo chiamarla ragazzina il secondo dopo.
<< Mi stava fissando. Da quando sono entrata, e… >>
<< A dir la verità da poco dopo. >> precisò lui con un sorrisetto sulle sue labbra sottili.
Un sorrisetto sincero, apparentemente.
Addy deglutì, rimirando per l’ennesima volta le iridi verdi di lui.
Occhi così non ne aveva mai visti.
Di un verde chiaro, quasi elettrico, eppure torbido e sporco.
Un verde che rifletteva e irradiava luce.
Un verde che guidava.
Senza preavviso si sedette di fronte a lui, sorseggiando con foga il suo caffè da asporto.
Caffè schifoso, per la precisione.
<< Non sei un po’ troppo giovane per finire in un luogo simile? >>
Domandò lui dopo un po’, scompigliandosi i capelli neri e sparati in aria.
Addy lo fissò in silenzio, valutando o no l’idea di mandarlo a fanculo all’instante.
Ma, dopotutto, si era seduta al suo tavolo: doveva pur concedergli qualcosa.
<< Non voglio tornare a casa, >> ammise senza preamboli << molto semplicemente. Qualunque posto è meglio, mi creda signore. >>
Di nuovo in quel modo lo aveva chiamato.
<< Il tuo nome? >> chiese lui senza scomporsi.
<< Adrienne. Ma tutti mi chiamano Addy. >>
<< Adrienne… >> il tizio sembrò rifletterci un secondo << … Anche mia moglie si chiama così! >>
Sì, beh. Chi cazzo se ne fregava?!
<< Bel nome di merda… >> mormorò Addy, cinica.
<< Non ti piace? >>
Sembrava il classico tipo pronto a far domande, senza mai aspettarsele di rimando.
Il classico tipo in grado di ascoltarti e rifilarti la risposta più ovvia e scontata.
<< No, lo detesto. >>
<< Come mai? >>
Addy sospirò pesantemente, frustrata.
<< È il nome di quella puttana di mia madre. Non voglio che la gente mi chiami come lei, io… Non voglio diventare come lei e basta! >>
Soffiò quella frase con rabbia e astio, quasi sussurrando, ma essendo certa che lui l’avrebbe capita comunque.
Silenzio, interrotto solo dal rumore delle sue labbra sul bordo del contenitore del caffè.
<< E lei, signore? Come si chiama? >>
A quella domanda, il sorriso di lui si allargò.
Divenne più ampio e ironico, il labbro superiore leggermente sollevato da una parte.
Ad Addy venne quasi da ridere, ma non lo fece, giusto perché non conosceva quel tipo e non le sembrava proprio il caso di farlo innervosire.
Anche se…
… Cosa c’era in lui che andava?
Normalmente avrebbe detto il contrario, ma non quella volta.
Attese, in silenzio, che lui si degnasse di rispondere, percependo il cuore aumentare in maniera esponenziale il battito.
<< Chiamami Jimmy… >> disse poi, ticchettando le dita sul tavolo << … E smettila di dire signore, mi fai sentire vecchio! >>
Addy si rese conto di essere arrossita esponenzialmente, ma si affrettò a nascondere il naso nel bicchiere del caffè, ormai vuoto.
<< Allora, che ci fai qua Adrienne? >>
A sentire il suo nome completo, lei drizzò su di lui due occhi focosi ed aggressivi.
<< Senti, Jimmy, ti ho già detto… >>
Perché si sentiva così cogliona ad usare quel nome?
Incomprensibile.
<< Credi che sia un nome a fare di noi ciò che siamo? Che sia un’etichetta? >>
Addy rimase spiazzata, immobile.
Il rossore, che era di poco scomparso, riapparve.
<< Beh… Io, semplicemente… Non voglio che si usi quel nome, ecco! >>
<< Direi che sei un po’ piccina per dare l’idea della puttana, tu non pensi? >>
Colpita ed affondata.
<< Io non lo sono, infatti. >>
Ma di cosa stavano parlando?!
E poi, ma quanti anni aveva costui?
Addy si focalizzò sul suo viso, sulle rughe visibili sulla fronte, sulle sopracciglia scure, sulle labbra sottili e secche, almeno all’apparenza.
Quelle labbra, di cui il superiore, si tirava sempre su ogni volta che lui apriva bocca.
Una trentina, magari.
<< E allora non vedo perché gli altri dovrebbero pensarlo. >>
<< Oh, insomma, ma che cazzo di problemi hai, eh?! Ti ho detto che non mi va, che non mi piace essere chiamata con quel nome, ok? E tu dovresti… >>
<< Se credi che tutti, nella vita, faranno quello che chiedi loro, beh… Buona fortuna. >> la interruppe lui con un sorrisino calcolato.
Addy si congelò, arricciando la fronte con evidente disappunto e frustrazione.
Ma poi, che razza di conversazione era quella.
<< Quindi posso anche mandarti a fanculo, no Jimmy? Tanto, OGNUNO NELLA MIA FOTTUTA VITA FA COME VUOLE! >>
Lui la fissò diretto, con le iridi proiettate nelle sue e strette in una morsa gelida e ferrea.
Sembrava volessero incatenarla lì, quegli occhi.
Splendidi, non c’era che dire.
<< Sei tu che sei venuta al mio tavolo, Adrienne. >>
Stavolta dovette mordersi la labbra per non urlare, ma soprattutto stringere le mani tra loro per evitare di strangolarlo.
Quanto poteva darle fastidio un atteggiamento simile?
<< Come mai dici che tua madre è una puttana? >> chiese lui, di punto in bianco, interessato.
<< Te la vuoi scopare? >> ironizzò lei, tagliente << Non hai una moglie? O mi prendevi per il culo? Non saresti il primo… >> concluse, aspra.
Accartocciò il bicchiere di plastica del caffè finito e lo gettò sul tavolo vicino, pieno di cartacce.
Lui non batté ciglio, tirò fuori il portafogli di pelle, per metterle sotto al naso un foto.
Lui, appunto, ed una donna mora. Piena, sorridente, bella.
<< Wow, Jimmy… Tua moglie è una figa pazzesca! >> mormorò lei, ammirata << Non hai paura che te la rubino? >> ironizzò, inarcando un sopracciglio.
Quella vena da stronza era più forte di lei, dopotutto.
Nonostante anche quest’ultima rischiasse di essere risucchiata da quel che sentiva.
O da quel che non sentiva.
<< Rubarmela? Sarebbe più probabile che riuscissero a rubare la luna che non la mia Adrienne. >>
Il modo in cui aveva detto mia le fece salire un brivido lungo la schiena.
Il suo sguardo nel dirlo le aveva fatto turbinare lo stomaco.
Quel verde si era fatto più chiaro e sincero, ricco di un sentimento particolare e sconosciuto.
Un sentimento che lei ancora non conosceva.
<< Capisco… Quindi è una grande storia d’amore la vostra! >>
<< Come tante al mondo… >> rispose lui, disinteressato << … Tu, piuttosto, sono cresciuto abbastanza per capire quando un adolescente svia un discorso che non le piace… Che ci fai qui? E come mai ce l’hai tanto con tua madre? >>
Eh no, non poteva proprio chiederglielo.
E lei non poteva dirglielo.
Non poteva confessargli di quanto la sua vita facesse schifo.
E fosse sempre un rincorrersi di emozioni e sensazioni dirompenti, fatte per distruggerla.
<< Vuole che io scopi con uno di diciannove anni solo perché possa ottenere il lavoro che la sua migliore amica gli ha proposto. Bella merda, no? >>
Nessun sarcasmo, nessuna ironia, nemmeno un accenno di sano divertimento.
Pure se costruita con la massima volgarità, quella frase suonava pateticamente raccapricciante e sconfortante.
<< Quanti anni hai? Quattordici, quindici… >>
 << Tredici. >>
<< Oh beh, a tredici anni chi non ha voglia di farsi il ragazzo di diciannove? >>
Addy sbarrò gli occhi, incredula.
Fece per alzarsi, ma lui la bloccò, scoppiando a ridere.
Quando riprese a parlare il suo accento californiano si fece più accentuato e tagliente.
<< Siediti Adrienne! Stavo scherzando! >>
No, ma seriamente?
Lei si riaccomodò, tremando nel più profondo del suo essere: ma un tipo del genere lo avevano progettato a tavolino o era un totale scherzo della natura?
<< Diglielo, no? Dille semplicemente che per i tuoi tredici anni non ne hai voglia. >>
<< Secondo te non l’ho fatto? Sembra impazzita, Jimmy, ti giuro… >>
Grandioso, stavano discutendo della sua madre psicotica?
Lui la fissò intensamente, senza capacitarsi di cosa si agitasse nel profondo dei suoi occhi marroni e limpidi.
Di cosa la agitasse e la facesse tremare.
Di cosa la spingesse ad essere così.
<< Fatti valere, Adrienne. Fatti valere e basta. >>
<< Non ne sono in grado. >> ammise, timorosa.
Lui allargò le sue pupille, lasciandosi sfuggire una risatina nervosa.
<< No? E allora che ci fai qua? Torna da mammina e smettila di giocare a fare la grande. >>
Addy sentì gli occhi bruciarle improvvisamente.
Si trovò ad asciugarseli distrattamente, mentre il turbinio si scatenava dentro di lei.
Un violento ciclone inarrestabile, potente, violento.
Sentì lo stomaco contrarsi, poi rimpicciolirsi, poi esplodere, mandando in brandelli la sua carne ed il suo spirito.
Tutto, tutto, tutto bruciò.
<< Che cazzo ne sai tu, eh?! Che cazzo ne sai di me, Jimmy? Che poi, CHE NOME DEL CAZZO! >> ringhiò Adrienne, sentendo la bestia ruggire, dentro di lei << Sai che ti dico? Vaffanculo. Vaffanculo, sì. Vaffanculo tu, e la tua aria da padrone dell’universo. Non sai un cazzo della mia vita, non sai come mi sento, non sai! Sai che significa camminare sempre, sempre, sempre, costantemente soli? Non vorrei farlo, ma è l’unica strada che conosco! L’unica che mi permetta di mantenermi dritta, in piedi, che mi consenta di non lasciarmi andare! Non so dove stia andando, in realtà, ma continuo, proseguo… So che fermarmi non è la scelta giusta! Come se mi bastasse la mia sola ombra e il profondo del mio cuore a battere, insistente! Lo sai come ci si sente? LO SAI?! Deduco di no… Con questa tua aria da perfetto Mister Figo, una moglie bellissima, immagino anche che i tuoi genitori ti amino! Tuo padre sarà fiero di te… >>
<< Mio padre è morto quando avevo dieci anni. Di cancro. >>
Addy si bloccò, mordendosi la lingua.
Che gran figura di merda.
<< Oh. >> riuscì solo ad articolare, prima che un profondo senso di gelo la invadesse da cima a fondo.
<< Ci scrissi una canzone su. Un modo per anestetizzare il dolore… >> il suddetto Jimmy si concesse un risolino a dir poco isterico << … Gran bella merda, la vita. >>
<< Non si anestetizza il dolore. Il dolore si supera. >>
<< Ah sì? E sentiamo, Adrienne… Che cazzo ci fai ancora qui con me? Eh? Vai a superare il tuo dolore. Alza la testa e mostra al mondo di che pasta sei fatta. Speri che qualcuno venga da te e ti trovi? Finché non lo farà, sarai costretta a camminare da sola. Ok? Sola. >>
Lo disse con estremo disprezzo, ed una punta di cattiveria.
Addy sentì gli occhi esplodere, mentre si alzava e correva fuori da quel locale.
Sola.
Correndo, sola.
 
**
 
 
30/11/2004
 
 
<< Eccoci qui, bentornati al… >>
La voce del presentatore televisivo la accompagnava mentre scriveva la sua relazione di biologia. Addy sfogliò il libro, fino ad arrivare al capitolo del batteri e dei virus, per poi dedicarsi ad un’attenta lettura del paragrafo ad essi dedicato.
<< … Ed ora, vi presentiamo freschissimo il nuovo video dei Green Day! >>
Addy perseverò a leggere, godendosi la tranquillità della casa: finalmente sua madre era uscita.
Era al lavoro.
Sospirò, ingoiando il nodo che le si era formato al centro del petto: Sam alla fine era entrato a far parte della loro vita.
Non come si sarebbe immaginata, ma c’era.
Il nuovo ragazzo di sua madre era così giovane, dopotutto.
Storse la bocca, con disgusto, facendo per prendere il telecomando e spegnare la musica quando si bloccò, col braccio a mezz’aria.
Quegli occhi.
I suoi occhi.
Deglutì, spalancando la bocca come una cogliona, mentre il video continuava a passarle davanti agli occhi.
Mentre si rendeva conto di essere stata un’idiota.
Una cogliona.
Un’emerita rincretinita, per non essersene accorta.
Ed eccolo là, Jimmy.
Oh beh, di Jimmy forse ne esisteva un altro, quello della canzone.
Quello che camminava solo, aspettando che quel qualcuno lo venisse a prendere.
Attendendo di capire cosa ci fosse di sbagliato nella sua vita e perché.
I suoi occhi si scontrarono con quelli di lui, nel video.
Occhi verdi e limpidi, occhi bellissimi e contornati di matita nera.
Occhi sinceri e aperti.
Occhi, amici di quelle labbra sottili e tendenti a sollevarsi da una parte, mentre lui cantava.
Mentre la cantava.
Stava cantando lei. Stava intonando le note della sua anima. Stava sfiorando le corde del suo essere, per dar vita alla melodia dentro di lei.
La stava cantando nella maniera più appassionata e dolce di questo mondo.
Nella maniera più tenue e devastante, più ricca e confortante, più sua che ci potesse essere.
La stava venendo a prendere, solo quello contava.
Lui, ed i suoi occhi verdi.
La stava guidando su quel sentiero di sogni infranti.
Addy si sollevò in piedi, avvicinandosi alla tv, nemmeno rendendosi conto di esser caduta in ginocchio, con le lacrime.
Che scena patetica, si ritrovò a pensare.
Che scena idiota.
Lui non poteva sentirla.
Non poteva vederla.
Non poteva sapere cosa le stava facendo con la sua voce e con le sue parole.
Non poteva sapere di averle mostrato una strada.
Eppure, lo aveva già fatto, quella sera nel locale.
Lo aveva fatto, senza nemmeno volerlo.
Lo aveva fatto, sfidandola.
Lo avrebbe sempre fatto, ricomponendo i pezzi dei suoi sogni in frantumi.
 
 
Spazio autrice.
Ciao :) *salutaconlamanina* ehm… Da dove comincio?
Ah sì, è la prima volta che pubblico qualcosa sui Green Day.
Sulla mia band preferita, sulla mia unica ragione di vita, o comunque, su coloro che hanno reso la mia vita quella che è.
Boulevard of Broken Dreams è la mia canzone preferita.
Mi ha salvata. Lui mi ha salvato. Loro.
Quindi, scrivendo questa cosa, beh… Diciamo solo che non credevo che avrei mai potuto farlo.
Ed invece, eccomi qua.
Spero vi possa piacere, ci ho messo davvero tutta me stessa.
Chi mi conosce bene lo sa.
Fatemi sapere che ne pensate! :D
Grazie a tutti! XXX

 
  
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