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Autore: Malia_    15/09/2012    3 recensioni
E finalmente... come promesso. New moon dal punto di vista di Edward.
Estratto dalla prefazione: -E io… un
mostro, un animale senza respiro, non avevo più alcun motivo
per vivere, nulla aveva più senso, niente sembrava
più avere una direzione. Guardai la luce del sole
abbracciare le figure rosse che affollavano la piazza e sorrisi appena.
Morte, unica compagnia, unica speranza. Ah quanto dolore, quanta
sofferenza...-.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: New Moon
Capitoli:
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Buongiorno!! Eccomi qui ad aggiornare Nadir. Mi scuso per non aver risposto ai commenti, motivo? Sono partita, sono tornata, vorrei rispondere ora, ma sto aspettando ospiti a momenti. Ho pensavo che comunque vi avrebbe fatto piacere leggere il capitolo invece di aspettare questa sera o addirittura domani sera. Ne approfitto, sperando di aver fatto la scelta giusta. Insomma si va avanti anche con questa storia... e vorrei sapere voi cosa pensate di Elizabeth. Io sono ancora indecisa sulla fine di questo interludio, prima di far di nuovo allontanare Edward. Mi spiacerebbe farla morire, ma... non lo so, ci credete? Vi mando un grosso bacione.
Malia.

Speranza e paura

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Seduto sul divano del suo salotto aspettavo con ansia l’arrivo di Carlisle. Muovevo il ginocchio senza pensare, o almeno cercavo di non pensare; il movimento ossessivo mi aiutava a scaricare la tensione che avevo addosso. Era questione di minuti, cercavo di convincere me stesso, ma comunque continuavo a guardare l’orologio e le lancette che battevano i secondi, per me troppo lente.
Speravo che per Elizabeth ci fosse speranza, altrimenti mi sarei sentito responsabile della sua morte. Non potevo pensare di perderla, lei era la mia famiglia. Se soltanto avessi capito prima che qualcosa non andava, ma lei sapeva chiudersi bene, non era stato possibile accedere alla sua mente.
Per fortuna ora sembrava aver ritrovato un minimo di appetito, ma soltanto per un motivo: Joshua si presentava ogni giorno alla porta e rimaneva con lei due ore la mattina presto e il pomeriggio. Avrei preferito che trascorressero più tempo insieme, per conoscersi, per capire il sentimento che provavano l’una verso l’altro, ma invece si erano dati quella regola per non correre troppo.
Ridacchiai. Anche io con Bella avevo cercato di frenarmi, sin dal primo istante per me era stata attrazione fatale, forse dovuta la fatto che il suo sangue cantava per me, che la sua anima mi chiamava e io non riuscivo affatto a leggerla.
Bella. Mi appoggiai meglio al cuscino e ripensai alla mia vita con lei. Invidiavo Elizabeth e Joshua. Io ricordavo ancora il periodo in cui mi imponevo di rimanere lontano dalla ragazza che avrei amato, per non metterla in pericolo, per non innamorarmene, ma inevitabilmente andavo da lei, ogni notte, e vagavo con lo sguardo sul suo letto, amandola con gli occhi, desiderando che si svegliasse e che mi facesse un sorriso, senza sapere che poi anche lei mi avrebbe ricambiato.
Dolce, il mio piccolo Bambi, dolce e tenera. Mi mancava così tanto, così profondamente, che non finivo mai di provare quel dolore sordo al petto, quel vuoto che ormai era diventato parte integrante del mio cuore. Non se ne sarebbe più andato, mai più, finché non l’avessi rivista ancora, e allora sarebbe stata di nuovo la pienezza della mia anima.
Presi un profondo respiro e tornai a guardare l’orologio. Erano trascorsi solo cinque minuti. Non ce la facevo più.
Quando sentii suonare il campanello però non corsi ad aprire trafelato. Non era Carlisle, era Joshua, venuto per stare con Eliabeth durante la visita.
Lo salutai e gli strinsi la mano, sentendo montare dentro di me l’affetto verso quel ragazzo all’apparenza fragile.
«Ciao Edward» mi disse gioviale.
I suoi pensieri erano torbidi e angosciati. Aveva paura, come me. Era terrorizzato dall’idea che Elizabeth potesse spegnersi da un momento all’altro.
«Ciao Joshua» gli risposi, tentando di dimostrarmi sereno.
In realtà la sua agitazione si stava trasmettendo anche a me. Era quasi disperato, non sapevo come poterlo consolare, visto e considerato che nemmeno io sapevo l’esito della visita. Forse avrei potuto chiedere ad Alice, ma non avrebbe avuto senso farlo: sarei stato solo peggio.
«Come sta oggi?» mi chiese e io valutai le parole da dirgli.
Male, l’avrebbe fatto svenire seduta stante; bene, mi avrebbe reso poco credibile e il resto, be’, il resto che senso poteva avere?
«Dorme» risposi così, evitando di dire stupidaggini inutili.
Annuì e parve capire. La sua ansia non aumentò, né diminuì, ma almeno la sua mente si tranquillizzò pensando al fatto che comunque Elizabeth era stabile e non sembrava peggiorare. Quel ragazzo era forte, sapeva come superare le difficoltà della vita, ma ne aveva dovute sopportare troppe e i suoi nervi non erano più così pronti a soffrire. Desiderava poter amare la donna che aveva rubato il suo cuore, solo questo, e io sentivo di capirlo.
«Vuoi andare in camera sua? Sono convinto che se la svegli tu sarà contenta. Non ha mangiato nulla» gli proposi, usando un tono leggero.
Un senso di morte che non mi piaceva per nulla aleggiava tra noi. Joshua aveva perso le speranza, aspettava il momento della sua morte, e voleva vivere con lei il tempo che restava. Questo dicevano ora i suoi pensieri.
«Non abbatterti» lo pregai così, appoggiandogli una mano sulla spalla.
«Non lo farò» mi rassicurò, pur non avendo alcuna intenzione di cambiare parere.
Non volevo che Elizabeth sentisse i suoi pensieri, le avrebbe fatto male, avrebbe sofferto.
«Ascolta…» iniziai così, non sapendo bene cosa dirgli. «Non perdere la speranza. Ora sta venendo mio padre e vedrai che faremo di tutto per aiutarla. Ma se tu sei triste, lei lo sentirà».
Era ciò che dicevano tutti in fondo, non avevo svelato nulla. Lui sgranò gli occhi, che si inumidirono, e annuì.
«A quanto pare ce l’ho scritto in faccia» bofonchiò.
Gli circondai le spalle con un braccio. E pensare che sembravo più piccolo di lui, invece avevo una maturità ben superiore. Era così simile alla mia la sua sofferenza, e anche il suo amore era molto simile a quello che io provavo per Bella.
«Eh sì, non puoi permettertelo» lo rimproverai bonariamente.
«Grazie» rispose con sincerità.
Mi abbracciò e io ricambiai quella stretta piena di speranza. Tentai di trasmettergli il mio coraggio e poi lo lasciai in modo che potesse correre subito da lei. Ogni attimo era prezioso e io lo sapevo.
Si diresse verso il corridoio e io tornai a sedermi. Ora l’agitazione era tornata e io non dovevo far altro che gestirla fino a quando non avrei visto Carlisle in carne e ossa davanti a me.
Il cellulare squillò nella mia tasca e io lo presi.
«Stiamo arrivando» mi disse Alice e io sospirai di sollievo.
Perfetto. A breve quindi sarebbero arrivati e avrei potuto conoscere la verità su quello che aspettava Elizabeth. La tensione mi stava uccidendo, anche se non realmente. Insieme a lei anche una parte di me sarebbe scomparsa per sempre e avevo paura di questo.
Perciò attesi, ma col cuore in gola, anche se immobile come solo un peso morto può essere. Quando suonò il campanello saltai dal divano e mi gettai verso la porta rischiando di sradicarla. La aprii e focalizzai la figura di Carl che si sistemava la cravatta e di Alice, con il suo solito sorriso luminoso a incorniciarle il viso.
«Mi sei mancato tanto!» urlò lei saltandomi al collo.
Saltellava felice, e io con lei. Impossibile contenere la felicità che mi aveva travolto nel rivedere quella che ora era diventata più di una famiglia per me.
«Ciao folletto» mormorai baciandole le guance e stringendola forte al petto. «Mi sei mancata».
Carlisle, calmo, con la sua tranquillità di sempre, mi tese la mano, negli occhi l’affetto di un padre.
«Edward…» disse soltanto e quelle parole bastarono.
Lui mi avrebbe aiutato, lo sentivo, era deciso a farmi stare bene. Trovava la mia decisione di lasciare Bella avventata e un po’ immatura, ma mi aveva rispettato, me e quindi la mia decisione, rinunciando ad abitare a Forks, sparendo improvvisamente.
Solo un padre avrebbe potuto fare una cosa simile. Soltanto un padre.
«Posso vederla?» disse subito non appena mise piede al di là dell’uscio.
«Certo» risposi.
Lo accompagnai davanti alla porta di Elizabeth e bussai. Alice non stava più nella pelle, voleva incontrare la ragazza che mi aveva fatto tornare la speranza di riappacificarmi con Bella, un giorno.
«Avanti» borbottò Joshua dall’altra parte.
Entrammo e nella penombra della stanza vidi Elizabeth appoggiata ai cuscini, coperta da una coperta rosa, pallida, ma felice. Guardava il ragazzo seduto accanto a lei con sguardo adorante e io capii che dovevo assolutamente salvarla.
«Buongiorno signorina» si presentò Carlisle. «Mi chiamo…». Ma lei lo interruppe con un gesto e poi rispose con voce debole, ma stanca.
«Carlisle Cullen». Sospirò. «Benvenuto».
La luce di Elizabeth si stava spegnendo, il suo cuore era debole e fragile. Anche Carl si rabbuiò soltanto a guardarla. Non mi piacque la sua espressione, ancora meno i suoi pensieri. Il timore che non potesse farcela stava diventando sempre più pressante.
«Vuole visitarmi?» bisbigliò Elizabeth.
Carlisle annuì e io mi diressi verso la porta, per lasciare a lei la riservatezza necessaria.
Alice mi seguì, e anche Joshua, solo però dopo aver preso la mano della ragazza che amava ed essersela portata alle labbra. Lo aspettai prima di chiudere la porta e insieme tornammo in cucina, silenziosi.
Andai verso il frigorifero e presi dell’acqua. Riempii tre bicchieri e poi li portai sul tavolo. Anche se io e Alice non bevevamo, non volevo che Joshua trovasse strano il fatto che offrissi un bicchiere d’acqua solo a lui e non a mia sorella. Anche se lui non sapeva che Alice era mia sorella…
«Piacere Joshua» disse.
Alice gli sorrise calorosamente e gli baciò una guancia. Lui si sedette, esausto, e bevve tutta l’acqua nel bicchiere, facendolo poi dondolare pensieroso.
«Alice è la mia sorella adottiva» mi giustificai così.
«L’avevo sospettato» mi rivelò il ragazzo.
In realtà la sua mente era lontana da lì, pensava a Elizabeth, ma cercava comunque di essere di compagnia per non offendere. Ancora una volta mi trovai ad ammirare il suo comportamento. Sperai davvero che ci fossero possibilità per Elizabeth.
«Vuoi qualcosa da mangiare?» chiesi per educazione.
Lui arrossì e il suo stomaco brontolò sonoramente. Presi per lui qualcosa di pronto dal frigorifero e glielo porsi. Erano degli stuzzichini che avevo preparato nel caso Elizabeth avesse avuto voglia di cose un po’ sfiziose. Le piaceva il fatto che mi prendessi cura di lei e io ci tenevo a farle sentire il mio affetto e appoggio.
«Grazie, sei gentile» mormorò imbarazzato.
«Figurati».
Guardai Alice e notai la tensione del suo corpo. Non lo trovai un buon segno. Avrebbe visto qualcosa? Lo stava vedendo? Non ci rimaneva che aspettare e ancora una volta era questione di tempo. Il tempo scandito da quell’orologio a muro che mi stava facendo impazzire.
Passò circa mezz’ora prima che Carl uscisse e io provai un senso acuto di panico. Impossibile però non capire quale fosse l’esito della visita.
«Dovremmo ricoverarla. Solo delle cure intensive, un attacco totale, potrebbero darle qualche speranza» confessò. «Io sinceramente posso fare poco così su due piedi per lei. Qui non può rimanere».
Joshua impallidì.
«Vuo… vuole dire che…» balbettò cercando di controllare il fremito della voce.
«Che morira?» finì Carl per lui, quando lui non ebbe il coraggio di continuare.
«Non ho detto questo» lo rassicurò. «Ma non sarà facile».
Joshua fece spallucce e appoggiò il gomito sul tavolo, fissando distrattamente il soffitto.
«L’ho già sentita questa» ribatté con amarezza.
Avrei tanto voluto rassicurarlo, ma non mi piaceva mentire, e non sapevo ancora l’entità di ciò che Elizabeth stava affrontando. Dovevo parlare da solo con Carlisle e farmi dire se realmente c’erano possibilità, oppure se invece le sue parole volevano soltanto portare conforto.
Alice gli poggiò una mano sul ginocchio e lo strinse.
«Dobbiamo sperare» bisbigliò, ma Joshua aveva già tante volte sperato e visto le persone care morire, perciò non aveva più la forza per farlo ancora.
Annuì nonostante la poca energia e la delusione.
«Posso andare da lei?» domandò rispettoso e Carl annuì.
Lui scomparve in corridoio ed entrò, mentre noi ci guardavamo silenziosi e aspettavamo di non sentire più alcun rumore per parlare con sincerità.
«È così grave?» articolai così, rendendomi conto di avere serie difficoltà ad accettare la situazione.
«Non si è curata, probabilmente se avesse iniziato a curarsi prima ci sarebbero state più possibilità per lei. Sai che è così» mi spiegò lui venendo verso di me. «Non possiamo più aspettare».
Cosa avevo sperato? Che Carlisle arrivasse e facesse un miracolo? Lui faceva del suo meglio per salvare le persone, ma l’inevitabilità di una malattia difficile da curare come un tumore non poteva essere curata con uno schiocco di dita. Insomma… avevo sperato per qualcosa che non poteva succedere.
«Ed, non scoraggiarti anche tu» mormorò Alice venendomi accanto.
Mi abbracciò ancora e io sospirai tra i suoi capelli.
«Andrà tutto bene. Dovrai starle vicino. Ti aiuteremo. Anche noi siamo la tua famiglia, non devi dubitarne».
Alice sapeva come darmi coraggio. Dovevo provare a pensare che Elizabeth avrebbe potuto farcela, perché aveva un motivo per farlo, motivo che l’avrebbe tenuta in vita, o almeno credevo.
Di fronte a quella grande desolazione pensai di nuovo a Bella.
Se lei avesse dovuto affrontare un pericolo simile senza di me io non sarei riuscito a perdonarmi il fatto di averla abbandonata. Lei non era sola come Elizabeth, però il pensiero che potesse trovarsi a un passo dalla morte senza il mio amore, la mia mano stretta nella sua, mi faceva correre brividi di terrore lungo la schiena.
I sensi di colpa mi avrebbero mangiato vivo. Sempre più capivo di essermi comportato come uno stupido lasciandola. E il desiderio di tornare si faceva non solo più forte, ma anche più sicuro. Sarei davvero tornato da lei?
«Si sta preparando. La porto io all’ospedale» continuò Carlisle allontanando i miei pensieri da Bella.
«Hai qualche amico che la può aiutare qui?» chiesi così.
Assentì e prese il cellulare dalla tasca dei pantaloni, digitando un numero. Iniziò a parlare e spiegò le sue condizioni di salute chiaramente, facendomi così capire che Elizabeth si trovava in una brutta situazione.
«Pagherò io per lei» concluse Carl e io gli fui grato.
Anche quelle era una grande dimostrazione d’affetto nei miei confronti, non avrei potuto avere genitore migliore.
«Grazie, Fin. Pensi che abbia possibilità?». Continuava ad annuire, ascoltando attentamente, ma io sentii il bisogno di distrarmi, di non pensare per un attimo agli avvenimenti che mi stavano travolgendo, così afferrai la mano di Alice e la strinsi, in cerca di conforto e sostegno.
Lei non si rifiutò e rispose alla mia necessità, proprio come avrebbe fatto una sorella affettuosa. Le volevo bene, proprio come ne volevo a Elizabeth.
Facemmo i preparativi necessari per trasferirla nell’ospedale specializzato in malattie tumorali più vicino, e poi accompagnammo Elizabeth che venne subito ricoverata, dopo aver fatto tutti gli accertamenti del caso. Erano ormai le otto di sera trascorse quando la salutammo e uscimmo.
Joshua era a pezzi. A giudicare dal modo in cui trascinava i piedi sull’asfalto per raggiungere la mia Volvo, doveva essere molto stanco. Carl per fortuna era rimasto all’ospedale, per controllare, ma anche per rassicurare.
«Anche se la perderò» esordì Joshua all’interno dell’abitacolo, durante il tragitto per riportarlo a casa. «Avrò vissuto dei momenti importanti e le sarò sempre grato. Anche se mi mancherà».
Purtroppo non potevo dirgli di smetterla di parlare in quel modo, come se lei fosse già morta, ma capivo che il suo era un modo estremo di rassicurarsi, percorso dalla paura di rimanere solo. Quindi non mi azzardai a dire nulla.
«Grazie per essere venuto al cimitero» disse poi, stupendomi. «Cercavi proprio me, vero? Me l’ha detto».
Non potei negarlo e gli spiegai i motivi per cui l’avevo fatto. Alice ascoltava ma non parlava, per una vivace come lei era una novità.
«Grazie» terminò.
Certo salvare la vita a Elizabeth ora era la cosa più importante. Una volta lasciato davanti al cancello della sua casa, riprendemmo la strada per la mia abituazione attuale. E a quel punto Alice parlò.
«Victoria si sta dirigendo a Rio de Janeiro» mi rivelò e la mia tensione crebbe. «Dovresti andare».
Non potevo lasciare Elizabeth sola.
«Si chiama come mi madre» risposi invece.
Alice comprese e con un sorriso rassicurante guardò la strada su cui ormai era scesa la notte.
«Ci saremo noi a prenderci cura di lei» insisté.
«Ma lei ha anche bisogno di sapere che le sono vicino» le spiegai, sperando che capisse.
Perché insistere? Poi capii dai suoi pensieri che odiava vedermi soffrire così. Era arrabbiata col mondo intero perché prima avevo preso la decisione di lasciare Bella e ne avevo sofferto tanto, ora stavo per perdere anche l’unica parente rimasta in vita, e provavo ancora dolore, sempre più dolore. Secondo lei non meritavo infelicità, e non sopportava di vedere il mio viso triste e provato dagli ultimi avvenimenti.
Poi il suo pensiero andò a Jasper e io le lasciai la sua privacy, non volevo invadere la sua mente quando pensava a suo marito.
«Tornerai a Forks?» domandò il mio folletto durante una delle tante curve.
«Da Bella? È quello il mio scopo, dopo però aver ammazzato con le mie stesse mani Victoria» le spiegai.
Ma Alice era perplessa e aggrottava la fronte, sollevava le sopracciglia ripetutamente.
«Io non riesco a vedere nulla sai? Non c’è modo di capire cosa succederà» mi rivelò.
«Forse ancora è tutto incerto. Io ancora non ho deciso di andarmene da qui».
Fino a che Elizabeth non fosse guarita, oppure il contrario, io sarei rimasto. E così speravo Joshua. Scendemmo dall’auto e tornammo nella casa che avevo condiviso con lei, vuota, adesso, e silenziosa.
Aprii il frigorifero e porsi ad Alice il sangue che vi era dentro. Mi fissò e aprì la confezione sottovuoto, curiosa.
«Ma è umano» sussurrò meravigliata. «E ottimo» aggiunse bevendo avidamente.
Come avremmo trascorso la nottata? Io avevo ancora la lettera di mia madre da leggere, la custodivo gelosamente in tasca, ma comunque non l’avevo ancora letta. Non capivo il motivo della mia attesa. Forse soltanto paura che una volta letta, Elizabeth avrebbe potuto spegnersi più velocemente.
«Invece di rimanere qui, fermi, che ne dici di andare a fare un giro in città?» propose Alice.
Non avevo molta voglia di mischiarmi agli esseri umani, ma forse mi avrebbe fatto bene una serata fuori di lì.
«E cosa faremo?» le domandai.
L’ora era tarda.
«Potremmo fare gare di corsa, anche se vinceresti sempre tu» propose mia sorella e io scoppiai a ridere.
Avrebbe fatto di tutto pur di non vedermi col viso affranto. Che tenera.
Mi avvicinai alla finestra, domandandomi quale fine avrebbe avuto quella storia. Non vedevo più via d’uscita, e mi aspettavo ormai di perdere Elizabeth. Forse anche Joshua sentiva le mie stesse sensazioni e ne soffriva.
E pensare che quando l’avevo incontrata mi sembrava così in salute, vitale, mentre ora era sempre stanca, mangiava poco, e la malattia la stava corrodendo da dentro.
«Vedi? Ci pensi troppo» mi rimproverò Alice. «Dobbiamo svagarci».
«E se succedesse a Bella?» sbottai così, facendola partecipe di un’altra grande preoccupazione.
Alice sbuffò esasperata e cercò di farmi avvicinare alla porta di casa per andare a fare un giro.
«Non succederà» mi assicurò con convinzione.
«Ma non lo sai» replicai, sconfitto.
«No, non lo so, ma se non è morta quando l’hai mollata in quel modo» sentenziò Alice. «Non morirà certo adesso».
Mi spinse fuori e io capii la gravità di ciò che avevo fatto, di quanto male avevo fatto a Bella pensando invece al suo bene. Per lei ero indispensabile, e vivere senza di me l’aveva distrutta.
«Potrai rimediare però». Sorrise la mia sorellina. «E sarebbe anche ora, perché hai stufato con questa faccenda del fuggire da una parte all’altra dell’universo. Qualsiasi cosa succeda qui, ricordati che tu devi tornare da lei. Lo sai, è l’amore della tua vita. Non puoi, non puoi lasciarla davvero».
La verità è che non avrei mai davvero avuto il coraggio di allontanarmi da lei. Perché l’amavo.

   
 
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