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Autore: RaspberryLad    15/09/2012    2 recensioni
Mattia lo odiava, il sabato mattina.
Ci sono cose che, purtroppo, non cambiano mai, ma Mattia non si rassegna a vivere passivamente la vita. E se Federico gli chiedesse di insegnargli a vivere, cosa potrebbe fare?
[Partecipante al contest "Lo Slash è un Diritto" del gruppo Facebook omonimo]
Genere: Generale, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
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Prompt: semplicemente

 

Perfect World

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

And I put a wish in

Made it my mission

To end the conflict

But oh…

I put a wish in

Hoping you’d listen

By my accomplice.

– Perfect World, Gossip –

 

 

 

 

Mattia lo odiava, il sabato mattina. C’era poco da fare, ci sono cose che piacciono e altre che non piacciono. Amava il gelato, il sesso e il basket – e se lo poteva permettere, essendo alto due metri o poco meno.  Il problema erano le cose che detestava: la luce di notte – doveva tenere le persiane completamente abbassate e la porta chiusa, che fosse mai che passasse uno spiraglio di luce! Andrea lo distruggeva per questo – le falene, le campane che suonavano* alle nove di mattina disturbandolo quando dormiva e, soprattutto, il sabato mattina. O meglio, il sabato mattina in periodo di scuola.

Non lo aveva neanche odiato, gli anni prima, solo che ormai da qualche mese si innervosiva inevitabilmente. Non erano le due ore di Filosofia, che diventavano regolarmente tre, visto che non faceva Educazione Fisica e si fermava a parlare di filosofi con la professoressa, tale Alessandra Giunta. Il vero problema era la penultima ora, cioè quella di religione. Gli anni precedenti non aveva avuto alcun problema, visto che il professore era un tipo particolarmente stravagante e non particolarmente religioso, anzi. Ma quell’anno era venuta una vecchia zitella – che non si era fatta suora solo perché cercava l'uomo adatto da sposare. Peccato che i suoi uomini fossero tutti sposati e lei fosse l’amante, ma su questo soprassedeva volentieri; Mattia era venuto a saperlo attraverso il fratello del migliore amico del cugino di Salvo, un suo compagno di classe – che si era divertita a tirar fuori tutte le teorie più bigotte e retrograde dell’universo, roba che sembrava uscita più dalla bocca di una come la Binetti che da un insegnante. La madre di Mattia si era già lamentata, perché la vedeva come un esempio negativo per il figlio.

Quello che manca a tutta questa storia è che Mattia era gay – felicemente dichiarato a casa, per giunta. I genitori non gli avevano mai fatto mancare nulla e gli avevano addirittura permesso di andare a vivere col suo ragazzo, Andrea, studente al terzo anno di Matematica, quando si erano dovuti trasferire a Milano per lavoro. Non erano troppo lontani da lì, d’altro canto Padova-Milano non era tantissimo, né in treno, né in macc… ok, in treno non era tantissimo. Però comunque l’avevano lasciato a vivere da solo. Col suo ragazzo, in un’altra città. Erano fortune che capitavano a pochi, soprattutto nella patria della Lega Nord, orribile postribolo di populismo a garanzia zero.

Il problema era quest’insegnante – Bianchi, si chiamava, e pure il nome richiamava la sua purezza – che non aiutava qualsiasi ragazzo che iniziava a muovere i primi passi nel mondo della vita, del sesso e dell’omosessualità. Mattia aveva dei dubbi su Limoni, biondino, seconda fila a destra, apprezzabile e timidissimo. Qualcosa gli diceva che l’altro era attratto dagli uomini – aveva pure fatto finta di non vederlo al Pride, l’estate prima – e una prof che paventava catastrofi e diluvi universali sicuramente non era d’aiuto ad un ragazzo alla scoperta e accettazione di sé. Era come se avesse iniziato ad indossare degli occhiali per mettere a fuoco la propria realtà – cosa che non gli avrebbe mai augurato sul serio, visti i suoi bellissimi occhi tra il grigio e il verde, che dovevano essere mostrati all’umanità senza lenti a disturbarli

Erano due settimane che Limoni era particolarmente alterato e apatico allo stesso tempo, il sabato. Il perché lo sapeva: la vecchia megera aveva iniziato a parlare a ruota libera del Levitico e delle orribili pene che sarebbero spettate, all’Inferno, per i sodomiti.

Che poi, il termine “sodomiti” lo faceva pensare ai soli passivi e quindi  gli richiamava il famoso detto romano che “sò tutti boni a fa li froci cor culo dell’altri”. Tutto questo lo incuriosiva su ciò a cui andasse incontro l’attivo che lo appoggiasse o addirittura si spingesse oltre, ma quella era una pura e semplice curiosità personale.

Una marea di chiacchiere di altri tempi – ma riproposte ancora nel 2012 – insomma, che però facevano più male che bene al povero Limoni che stava diventando molto più esplosivo e che si guardava intorno di continuo, come se si sentisse accerchiato e sotto accusa, neanche fosse una lepre inseguita da un predatore. Era ora di intervenire a mettere qualche puntino sulla i.

Quel giorno, infatti, la Bianchi si era spinta addirittura oltre al solito: poteva capire che la sua religione impedisse queste cose barbine da sporchi sodomiti – si inserisca molta ironia – ma la professoressa, con la solita aria strafottente da nuovo Messia che tanto lo infastidiva, iniziò addirittura a dire che, a differenza del resto del mondo, gli Italiani e il Governo italiano riconoscevano l’importanza della natura, e che proprio per questo i matrimoni gay erano incostituzionali, perché non rispettavano la naturalità. Fu per questo che Mattia si infuriò e iniziò a porre tante domande per mettere un po’ in riga – e informare, a dirla tutta – la sedicente so-tutto-io dietro la cattedra.

Mattia era dichiarato con i suoi genitori, ma non con gli amici. Non aveva mai detto l’orribile frase “sono gay”, inutile quanto dannosa, da un certo punto di vista, visto che attaccava un’etichetta bella vistosa – per carità, bellissima, visto che era un’etichetta arcobaleno – sulla fronte. Gli amici di Andrea l’avevano sempre conosciuto come il suo ragazzo, mentre i suoi amici di chat o anche alcuni amici di lunga data se ne erano accorti, più che altro perché parlava costantemente al maschile. Il nome Andrea poteva appartenere ad un uomo e ad una donna, per cui chiamarlo per nome non dava certezze, e su queste si erano abbarbicati coloro che non volevano vedere. La saggezza popolare non diceva che non c’è peggior sordo di chi non voglia sentire? Raramente sbaglia, e in questo caso ha proprio ragione.

Che poi, che importava? Magari in futuro si sarebbe innamorato di una donna, anche se sperava di rimanere – ovviamente –  il più possibile con Andrea. Ecco perché trovava controproducente il coming out: non permetteva libertà di comportamento, figuriamoci sessuale. Anche perché dire “sono gay” prefigurava ad una serie di comportamenti stereotipati dai quali non era socialmente accettabile uscire. Lui non doveva rendere conto a nessuno, neppure a una vecchiaccia moralizzatrice.

– Si dà il caso, veramente, che non siano vietati dalla Costituzione i matrimoni gay – iniziò a parlare, mentre vide l’altera professoressa-predicatrice iniziare a infiammarsi ulteriormente, visto che qualcuno stava osando contraddirla. – La dicitura “naturale”, infatti, non vieta l’omosessualità, visto che esiste in natura ed è riconosciuta dagli scienziati non come disturbo comportamentale. Tanto più che non si parla di uomini e donne, ma di coniugi.

– Non osare, ragazzino! – tuonò la donna. – I matrimoni omosessuali sono empi.

– Sì, come la pelle del maiale. Non so se lei se lo ricorda, ma era tratto dal Levitico, come il passo del “non toccherai pelle di un maiale morto”, mi si scusi – e lì fece un sorrisetto strafottente – se non ricordo le parole precise. Il Levitico era un codice d’igiene, ed erano vietati i rapporti omosessuali in virtù di questo.

– Sei blasfemo! Stai affermando cose contro natura e contro la morale che ci insegna, fortunatamente, la Chiesa.

– Le ripeto che la scienza ha stabilito che l’omosessualità non è una malattia e non è contro natura. Come la mettiamo?

– La scienza può sbagliare, Dio no – continuò lei, sbattendo un pugno sulla cattedra.

– Mi scusi, eh, ma se ragionassimo così, il Sole girerebbe ancora attorno alla Terra, e mi sembra che le tesi di Galileo siano state dichiarate legittime tipo nel Settecento o nell’Ottocento. Lungi da me mettere in dubbio le sue credenze, ma mi limito a mostrare che la sua immagine non è l’unica valida.

– Tu insinui che i gay possono sposarsi?

– C’è anche da chiedere? – chiese Mattia, interdetto dalla pochezza mentale della prof. Ok, non tutti i cattolici erano uguali, ma quando si ritrovava davanti a tali geni, gli veniva solo voglia di lanciare le peggio imprecazioni contro la loro magnifica religione perfetta. – In chiesa no, ma perché là siamo in ambito religioso e non civile/giuridico. In comune sì, dovrebbero, come si fa in mezzo mondo. Addirittura, in Slovenia usano la stessa dicitura nostra, in Costituzione, e il Parlamento sta cercando di far approvare una legge sui matrimoni omosessuali!1

– Fuori di qui! Non ho intenzione di ascoltare le tue bislaccherie da studentello di quinta che pensa di sapere tutto. – La prof indicò la porta, mentre Mattia le regalò (si fa per dire) un adorabile ghignetto.

– Mi faccia indovinare, non sa come controbattere?

– Oh, Schiavon, dai, smettila che ti metti nei guai – disse la Trevisan, la secchiona del primo banco davanti alla cattedra, forse nel tentativo di leccare la professoressa. Mai avrebbe capito perché gente che così intelligente si dovesse ridurre a tali mezzucci squallidi. – Mica stiamo parlando della tua famiglia!

– Non lo devo fare solo per me. – Vide, con un’occhiata attenta, Limoni arrossire e nascondersi. – E comunque, io vivo con un ragazzo, pensate davvero che viva di sola aria?

– Schiavon. Subito con me, dalla preside. Venga! – gridò la donna, ormai esaurita per essersi trovata davanti qualcuno che gli stava tenendo testa. E finocchio, per di più! Come osava, Mattia, farle questo? A lei, che era così dolce e brava.

 

 

 

 

 

La faccia della preside, non poteva negarlo, gli aveva fatto tanto piacere. Era una donna sui cinquant’anni avanzati, il cui viso non lasciava trasparire alcuna emozione. Aveva avuto modo di conoscerla a lungo, essendo stato per due anni rappresentante d’istituto. Aveva una certa simpatia per quella donna algida, a pelle. Ma vedere un momento nei suoi occhi, più che sul suo viso, lo stupore per la scena che le si stava presentando davanti, non aveva il minimo prezzo.

– Schiavon! Lorella! – si chiamava pure Lorella? E grazie al cazzo che non acchiappava, allora… –Che cosa è successo?

– Il ragazzo si è dimostrato sgarbato e impertinente nei confronti della mia lezione e pretendeva pure di avere ragione! – gridò la professoressa, mentre sentì la porta della segreteria aprirsi. Forse qualcuno era nel corridoio davanti alla presidenza per capire cosa fosse successo.

– Schiavon? – chiese la preside, alzando impercettibilmente un sopracciglio. O meglio, impercettibilmente per chi non l’aveva studiata per capire i suoi stati d’animo. – Lorella, ma sei sicura? Ho avuto parecchio a che fare col ragazzo e non mi sembra minimamente il tipo.

– Secondo lei, verrei a dire bugie davanti al Dirigente Scolastico?

– Perfetto, allora cerca di spiegarmi cos’è successo precisamente – concluse la preside, sedendosi dietro la sua scrivania.

La professoressa riassunse strettamente l’evento, evidenziando  particolarmente – la stronzala parte finale, in modo da far percepire di essere solo una vittima. La preside sembrò sconcertata, addirittura, per cui, appena gli rivolse la parola, Mattia iniziò a raccontare la sua versione.

– Sì, è vero, ho rinfacciato alla professoressa che non sapeva controbattere, ma in ogni caso mi sono innervosito perché mi stava sbattendo fuori, solo perché avevo osato presentare un’opinione e le stavo facendo notare che, scientificamente, la sua tesi era sbagliata. Voglio dire, se una persona si accorge che un’altra persona fa un errore, la corregge, no?

– Io non stavo sbagliando! – gridò ancora, come una forsennata, la Bianchi.

– Lorella, fallo parlare e siediti – le intimò la preside, tornata al suo gelo quotidiano.

– Il problema, signora preside, era a monte, in realtà. La professoressa Bianchi si è messa a fare un discorso prettamente omofobo, e non solo esponendo l’evidenza di ciò che pensa la religione cattolica, ma difendendo l’accusa di innaturalezza dell’omosessualità. Per i cattolici è immorale, ma la natura è parte della scienza, non della religione! – proseguì lui, incurante e con un tono incredibilmente tranquillo.

– Schiavon, stai offendendo la mia religione.

– E lei la mia vita privata. – replicò, lapidario. – E a differenza della religione, io non posso scegliere chi mi attira. In più, non sono l’unico in tutta la scuola, per cui sentire idee del genere è assolutamente dannoso.

– Tu, fin… – iniziò, in preda al disprezzo puro, ma la preside la zittì immediatamente.

– Lorella, non ti azzardare o farò in modo di cacciarti personalmente da questa scuola. E sarebbe già la seconda per lo stesso motivo. Schiavon, – continuò, tornando a rivolgersi a lui – cosa intendi?

– Dire che l’omosessualità è malata e innaturale può confondere persone che iniziano ad essere consapevoli di se stesse. Le fanno sentire sbagliate e c’è il rischio che decidano di farla finita. In America non è così raro, anche per colpa dei bulli. Se un ragazzo dovesse decidere di suicidarsi per le parole della professoressa Bianchi, non sarebbe assolutamente una buona pubblicità per la scuola, oltre che moralmente disgustoso, s’intende.

– Questo è un ricatto contro la mia libertà d’insegnamento – tuonò ancora la professoressa.

– No, questa è la realtà dei fatti a cui si deve adeguare, o quanto meno deve prendersi le sue responsabilità – rispose, sempre calmo e lapidario, mentre vedeva l’ira montare nella donna.

– Ok, basta così. Non verranno presi provvedimenti nei confronti di nessuno, per cui, Schiavon, puoi tornare in classe. Professoressa Bianchi, devo parlare un momento con lei prima – disse la preside, tornando improvvisamente formale con la donna.

Mattia iniziò ad allontanarsi, facendo in tempo a sentire un: “Finocchio” urlato dall’iraconda professoressa.

 

 

 

 

 

 

 

All’uscita da scuola, Mattia vide Limoni venirgli incontro, con una faccia abbastanza intimidita, come se avesse avuto paura di lui.

– Ciao, Mattia. Senti… – iniziò, ma Mattia lo interruppe subito.

– Mi hai chiamato Schiavon fino a dieci minuti fa, come mai ora il nome? Non è che ora son finocchio e allora devo essere chiamato col nome.

– Sì, scusami – disse, balbettando un pochino. Mattia si rese conto di aver esagerato leggermente, per cui cercò di rimediare. La discussione con la Bianchi l’aveva lasciato di cattivissimo umore, anche perché aveva passato l’ora successiva a sentir la gente bisbigliare su di lui.

– No, tranquillo, hai ragione. Mi sono alterato un po’. Scusa.

– Beh, contro la Bianchi ti sei infervorato parecchio – notò Limoni, pur sempre con una certa timidezza.

Se quello non era un gay ancora alla scoperta di se stesso, lui non si chiamava più Mattia Schiavon.

– Andasse in mona, quella. E se mi sente, meglio, ecco – rispose, sempre con una certa verve. Sì, aveva ragione Fed… Limoni a dire che si era innervosito assai. Era lapalissiano, non gli faceva piacere sentire tali orrori in un posto dove teoricamente avrebbe dovuto starne al largo.

– Senti, volevo ringraziarti. Sai, per aver… – iniziò, sempre balbettando. Oh oh, c’era aria da ragazzo al primo coming out. Meglio mettere in chiaro dei puntini sulle i.

– Lo sapevo già, tranquillo – lo interruppe, dandogli una pacca sulla spalla. Ora, sapeva di essere stato un po’ sgarbato – e anche stronzo, a dirla tutta – ma non voleva cominciare col solito “sono gay”. No, grazie, Limoni stava parlando con lui e giocava con le sue regole. Lo vide arrossire, prima che Federico  ora perché lo chiamava per nome? – riaprisse bocca.

– Ah. Ok – disse l’altro, lapidario. Sembrava più sconvolto che stupito, tra l’altro. Beh, accorgersi che la maschera che porti non inganna, dimostra che sei un pessimo attore, effettivamente. – E come l’hai capito?

– Il tuo odore. Sai di terra e di carne. Di selvaggina – rispose, immaginandosi ampiamente la faccia sconvolta dell’altro che, puntualmente, si presentò.

– Selvaggina? Mi prendi in giro? – chiese allora, sconvolto. Mattia fece una risata, prima di rispondere alla domanda del ragazzo.

– Tutto di noi risponde a quello che siamo, anche se ti può sembrare strano. Tu sai di terra e selvaggina, perché scappi e ti nascondi e cerchi di rimanere attaccato e chiuso nella tua natura, senza aprirti. Si vede a occhio e si sente.

– Oh. – rispose, palesemente poco convinto e perplesso. Si aspettava un ma va’ in mona, ma fortunatamente non arrivò. Gli rispose tranquillamente, allora.

– Guarda che scherzavo, era un modo poetico di dirti che dalla tua natura non puoi scappare, e che io conosco abbastanza bene come si sente un ragazzo non dichiarato. Ad un occhio esperto si vede – aggiunse, regalandogli un occhiolino. L’espressione di Federico si sciolse, visto che lo stava cercando di mettere a suo agio. Conosceva benissimo il passo successivo: migliaia di domande. D’altro canto, come biasimarlo? Hai qualcuno che è già esperto. Uno che, quasi quasi, con il culo chiacchiera. Hai uno che è già passato in tutte le fasi che puoi immaginarti. Uno si sente solo, e bam! finalmente cade dal cielo, neanche stesse nella lampada di Aladino, qualcuno con cui sentirti meno solo.

– Senti, allora, visto che è così semplice... – iniziò, mentre Mattia aveva già cominciato ad interromperlo nella sua testa. Ti posso fare qualche domanda? Oddio, sperava non la dicesse così, sembrava più un qualche strano individuo in stazione che faceva domande sul fumo. – Ho tanti dubbi, e non so con chi parlarne. Ti va?

Beh, meritava una risposta affermativa già solo da come aveva formulato la frase. Non poteva negarsi ad uno che si presentava così. Fuori discussione.

– Certo, Fede. – Wait. Addirittura il nomignolo. ­– Quando vuoi. Volendo anche ora, se non devi tornare a casa.

– Posso avvisare i miei – disse, iniziando a tirare fuori il cellulare.

– Perfetto, allora avviso An di apparecchiare per tre. Sei invitato a pranzo, poi andiamo fuori a parlare – gli disse, facendogli un occhiolino e iniziando ad avviarsi.

– Dove andiamo? Sai, i miei…

– Tranquillo, tranquillo. Abito dietro l’università2, poi vediamo dove andare, ok? Su, che ho una fame da lupi. – continuò, sistemandosi lo zaino sulla spalla destra e ravvivandosi i capelli.

C’era un po’ da camminare, lo sapeva. La sua vecchia casa era molto più vicina di quella dove abitava ora con Andrea, per ovvi motivi. Il suo uomo era uno studente fuorisede, quindi era quasi scontato che abitasse nei dintorni dell’università. Se poi era stato talmente fortunato da avere uno zio – fratello della madre, veneto, a differenza della famiglia di suo padre che era della provincia di Brescia – che aveva una casa lì, beh, c’era poco da fare. An sarebbe stato felicissimo di conoscere, finalmente, un qualche suo amico di scuola, visto che non gli aveva mai presentato nessuno di persona. Gliene aveva parlato, certo, ma non tantissimo, anche perché era il primo a non aver legato profondamente con nessuno di loro, perché nessuno sembrava pronto ad aprirsi. E gli dispiaceva, ma conosceva bene come andassero quelle cose: tu ti apri e l’altro ti fotte. Certo, non gli  interessava niente, camminava tranquillamente con le mani nelle tasche, senza innervosirsi per queste idiozie. Però, comunque, gli faceva piacere che qualcuno volesse un po’ sapere di lui. Gli altri chiacchieravano, mentre Federico gli aveva chiesto un po’ del fidanzato, tanto per saperne qualcosa. Non erano domande generiche, non erano le domande che – dopo – gli avrebbe rivolto, quelle per capire come comportarsi in quel mondo di pescecani. Tanto, o erano pescecani omofobi, o pescecani che avrebbero attentato alla sua virtù –  che forse erano anche peggio, perché più subdoli. Che poi vabbè, alla virtù credeva relativamente, certo, ma non per questo avrebbe fatto un piacere a qualche stronzo maniaco.

Era una sensazione strana, iniziare a pensare in quel modo, come se tu stessi tirando su un figlio. Ci mancava poco che si sentisse vecchio.

Avevano già superato la stazione ed erano quasi pronti per inserirsi nel dedalo di stradine, in pieno centro, che rivelavano la natura medievale della città. Era pittoresca, senza dubbio, e non sapeva di stantio; Mattia sentiva la città vitale, viva, nonostante l’antico che la circondava, mentre passeggiava per quelle strette stradine. Ok, in parte era forse da attribuirsi alla zona universitaria: se persino cittadine come Gorizia, gli diceva Francesco, un suo amico di lì, diventano vive di sera, è proprio merito dell’esistenza dell’università. Vedeva gente mangiare un pezzo di pizza e chiacchierare, appoggiata al muro accanto alla pizzeria di turno. Maschi, femmine, mori, biondi, rossi, castani, tinti, naturali, barbuti, glabri, etero, gay, erano tutti uguali lì in mezzo. Era bellissimo poter scendere la sera, durante il finesettimana, con Andrea e andare in qualche pub, c’era allegria, vita e si sentiva parte di quel posto bellissimo che era chiamato mondo. Erano tutti ragazzi e non c’erano facoltà, idee e azioni a renderli nettamente diversi. Ecco, avrebbe dovuto far passare questo a Federico, la vita sarebbe stata molto più facile. I ruoli erano noiosi, nella vita come a letto. Meglio essere conosciuti come persone che per tutta una serie di caratteristiche personali.

– Ohi, mi hai sentito? – gli chiese Federico. Effettivamente non gli aveva prestato troppa attenzione, era troppo intento a vedere la vita scorrere su quelle vie.

– No, scusami. Dicevi?

– Niente, ti chiedevo se abitassi qua in zona, nient’altro! – rispose allora, e Mattia si accorse che anche lui stava guardandosi con molta attenzione intorno.

– Sì, non mi dirai che sei stanco! – lo canzonò, scherzosamente, mentre iniziava a tirar fuori le chiavi dalla tasca, ormai mancava solo qualche metro a casa sua. Fischiettava la musica di Smalltown Boy, gli era venuta in mente così, sull’unghia. Forse era la gayezza di tutta la situazione. Sarebbe stato molto divertente vedere la faccia di Federico quando gli sarebbe venuto incontro Andrea, calcolando che non era… avvezzo a situazioni di coppia omo, chiaramente.

Aprì il portone e salì le scale, tranquillamente, seguito, due gradini indietro, da Federico, che taceva, non avendo niente di speciale da dire. Forse in quel momento aveva in testa solo i milioni di domande da fargli, per cui era lui a dover trainare la conversazione. Dopo aver salutato An, s’intendeva.

Appena aprì la porta, lo sentì salutare dalla cucina: dal rumore dell’acqua, stava presumibilmente scolando la pasta, e ciò spiegava anche perché non gli fosse ancora arrivato addosso. Vide lo sguardo di Federico perdersi per la stanza, ordinatissima al solito: tutta apparenza. Se fosse entrato in camera loro, ci sarebbe stato da ridere. Forse c’erano ancora le sue mutande appese al pomello della porta dopo la serata passata a letto.

Finalmente An si liberò della cucina e gli venne incontro, baciandolo appassionatamente, come ogni volta che tornava a casa. Era facile accorgersi, così, se c’era qualcosa che non andava. Si sentì addosso – normale – lo sguardo esterrefatto di Federico, che molto probabilmente aveva anche distolto, subito dopo, e sicuramente era arrossito.

– An, – disse, dopo essersi staccato dalle sue labbra – lui è Federico, un mio compagno di classe.

Vide Andrea rivolgere lo sguardo verso di lui, che sembrava ormai diventato parte della tappezzeria – c’entrava forse il muro rosso? – e, ridacchiando, gli tese la mano. – Piacere, Andrea!

– Piacere – lo vide rispondere, un po’ titubante.

Poverino, non è abituato a tutte queste effusioni arcobalenose.

 

 

 

 

 

Il pranzo andò bene, ma di questo Mattia non avrebbe avuto alcun dubbio. An era sempre molto gentile con le persone che gli stavano attorno, ed era bastato far raccontare a Federico di quella mattina per spingere anche lui a socializzare. Manco un giorno e già meditava di fargli conoscere qualche amico del suo ragazzo. Ma vabbè, era proprio come un padre, che già si metteva in testa di fargli avere una storia. E dire che non aveva mai avuto quest’indole protettiva con nessuno. Pessimo. Non vedeva l’ora che perdesse la verginità. Ancora più pessimo. Si rendeva conto da solo che stava facendo discorsi – o meglio, pensieri – che non stavano né in cielo né in terra, però era emozionato. Boh, si sentiva quasi scemo. Non più di un’ora prima l’aveva anche rimproverato perché l’aveva chiamato per nome, invece che per cognome, e ora se lo immaginava che diventava un finocchio fatto e finito. Pessimo, davvero. E dire che in cinque anni di scuola non è che avessero parlato granché, o meglio, ci aveva parlato come con tutti gli altri: il minimo indispensabile, senza che fosse per lui necessaria la loro presenza. Finalmente, però, aveva trovato qualcuno interessato a parlare, non a ciarlare. We talk and talk, but no one spoke, si ritrovò a canticchiare fra sé e sé.3

Vedeva Federico più tranquillo, ma era una sensazione che aveva già avuto quando si era avventato, giusto a parole, contro la prof. Lo vedeva più libero. Meno preoccupato di sembrare qualcuno che non era, in virtù di qualche punizione divina non ben specificata e probabilmente assente. Forse, anzi, sicuramente, era anche l’atteggiamento di Andrea a calmarlo. Forse era l’atmosfera casalinga, perché, si sa, casa è sempre casa, che sia propria o altrui. Non importava: era tranquillo. Non sarebbe stato neanche sbagliato pensare al coming out. Ricordava quanto si era tranquillizzato dopo averne parlato con i suoi, era stato tutto molto più semplice, anche per uno che non si pone tanti problemi come lui. Guardò l’orologio: erano già le tre e mezzo, e sapeva che An aveva lezione alle quattro, e poi si sarebbe fermato per farsi uno spritz con il suo gruppetto di amici gay dell’università.

Aveva già deciso dove portare Federico per parlare: al Prato della Valle. Era un posto della città che reputava particolare: era un enorme parco ovale, circondato da un canale artificiale, appena dietro all’Orto Botanico e alla Basilica. Era un cuore verde dentro Padova e spesso ci andava, se il tempo glielo permetteva. Erano anche quattro o cinque giorni che non pioveva, per cui il terreno era sicuramente asciutto e ci si poteva fermare a lungo sotto agli olmi. Gli sapeva di intimo, quel parco, pur essendo parecchio frequentato, e non aveva dubbi che fosse il posto migliore per portare a parlare Federico. Tanto lui non aveva problemi a trattare certi argomenti in pubblico. Sperò che nemmeno l’altro si vergognasse. Pensò di chiedergli se volesse un gelato, ma sarebbe suonato o malizioso o paterno e no, grazie.

– Oh, quanto è tardi! Scusami, Federico, ma devo davvero fuggire che ho lezione tra poco! Spero di rivederti! – disse a lui, salutandolo calorosamente. Si avvicinò poi a lui, gli stampò un bacio prima di scappare via.

Il solito distratto… quando parla con qualcuno, perde anche ore senza accorgersene.

– Vogliamo andare? – gli chiese, mentre finiva di lavare i piatti – sì, perché An chiacchierava e lui sgobbava. Certo.

– Sì. Dove, per curiosità? – gli chiesel’altro, ma lo sentì titubare, come se avesse paura. Non capiva bene di cosa – o forse sì! – però cercò di essere accomodante.

– Al Prato della Valle. C’è qualche problema? – cercò di dire con tono tranquillo, ma non sapeva se gli fosse uscito così bene.

– No, niente. È solo che parlarne all’aperto mi mette un po’ ansia, perché potrebbero sentire tutti – replicò, distogliendo lo sguardo dall’imbarazzo. Mattia si fermò a pensare: doveva, forse, parlare lì con lui? È che l’atmosfera casalinga, secondo lui, non era il massimo: troppe distrazioni, troppi artifici. Preferiva un posto naturale, stare sotto un albero a parlare. Però, ovviamente, non era lui a dover decidere, era Federico. In parte lo capiva: la certezza che nessuno potesse sentire era intrigante. Però lui, che ormai non si nascondeva, sapeva che era meglio abituarsi ad essere aperti, perché era quella la chiave. Chiudersi, nascondere, crea solo dolore. Forse poteva farglielo passare così, il messaggio.

– Possiamo fare come vuoi. Ma penso sia meglio fuori, perché all’aria aperta si vive, al chiuso ci si nasconde. Sinceramente, quello che desidero da tutte le persone del mondo è che vivano la loro vita, non che si nascondano nelle loro debolezze. Riflessione personale, eh, non voglio costringerti – aggiunse poi, preoccupandosi di non sembrare un mastino. Voleva aiutarlo, certo, ma voleva anche insegnargli qualche cosetta che non avrebbe sicuramente messo in pratica sul momento, ma il cui germe sarebbe cresciuto, prima – sperava – o poi.

Federico sembrò ragionarci su un attimo, e ne approfittò per andarsi a prendere un bicchiere d’acqua. Appena tornato, il ragazzo gli rispose: – Ok, andiamo.

 

 

 

 

 

 

 

Mattia adorava la strada che lo portava da casa al Prato. Vedeva le varie anime di Padova uscir fuori, vedeva come la città si era espansa nel tempo e come dalla sua connotazione medievale si era poi ampliata, mostrando poi zone ottocentesche e più spiccatamente recenti. Quando camminava su Via Marsilio da Padova, per avvicinarsi al Prato, si accorgeva di come quella città avesse più anime. In quel momento gli sembrava di essere in una città barocca, come può essere la zona di Via del Corso a Roma, ma proseguendo si accorgeva di tornare indietro nel tempo, passando davanti al Palazzo dell’Università, quattrocentesco. 4

Continuando poi giù su via Roma, capiva proprio l’indole medievale della città, su strade coperte con sampietrini e vicoli che sbucavano tra le varie case, che si insinuavano come bisce in tutta la città. Che dire degli ampi porticati, dell’atmosfera magica che si respirava! Tra l’altro, ricordava benissimo come da piccolo si fosse stupito a vedere, come proprio nel mezzo di questo groviglio di stradine, comparisse un canale, piccolo, ma evocativo. Non era riuscito a trovare più quell’atmosfera, nemmeno a Venezia, che era costruita su isole, dove quindi i canali non erano uno scorcio ma veri e propri mezzi di separazione. Arrivava così al Prato, che si espandeva, enorme, lasciandolo basito, sempre, quand’era piccolo. Camminare in una stradina come quella non lasciava neanche lontanamente immaginare che ci potesse essere tale maestosità lì davanti. Si era sentito subito catapultato ai tempi di Galileo – no, forse si stava confondendo, non poteva conoscere Galileo a sei anni, probabilmente era un ricordo sovrapposto, ma vabbè – e adorava sedersi, nel parco, proprio di fronte alla statua del grande scienziato, dando le spalle alla Loggia Amulea, immaginandosi qualche grande famiglia nobile, chiusa nel palazzo, a governare la città. Scoprì solo poi che il palazzo era in realtà molto più tardo, ma non importava. Continuava a vedere generazioni e generazioni di padovani vivere lì, come se si potessero incontrare. Sapeva che fosse un’idea un po’ stravagante, ma non se ne importava: di fondo, sentiva empatia con la città e i suoi abitanti. D’altronde, non si dice Padovani, gran dottori? Come poteva non trovarsi bene con tale tradizione?

Decise, anche questa volta, di sedersi sotto a un albero, esattamente di fronte alla statua di Galileo, sempre al suono, nella testa, del Padovani gran dottori – che poi Galileo neanche era di Padova, ma quello era un dettaglio. E, tra l’altro, meglio essere ricordati come gran dottori che come magna gàti.

Avevano parlato poco per strada, e immaginava il perché. A Federico, probabilmente, iniziava a mancare il coraggio. Non lo dubitava e, anche se pareva brutto da dire, non se ne stupiva neanche. Già non si aspettava che alla fine decidesse di parlarne fuori, ma poi parlare di certe cose con una persona per la prima volta è difficile. Sembra quasi di imparare di nuovo a parlare: parole che non hai mai usato e che non sai usare, che ti sembra non abbiano senso, di cui conosci un concetto vaghissimo ma che non riesci ad associare realmente. Sembra quasi di tornare bambini, e Mattia lo sapeva il perché: ci si ritrovava in quell’orribile fase in cui si chiede il perché di tutto, a sette o otto anni. E, talvolta, capitava il perché più orribile: perché a me? L’unica cosa che poté desiderare fu che Federico non avesse mai pensato a quella domanda, perché era l’unica capace di distruggere una persona. Sentirsi in colpa, pur non avendone alcuna. Sperò solo che capisse che dovesse essere fiero di quello che fosse, perché era parte di lui, una caratteristica, come l’essere biondo. Avrebbe avuto alcuni stereotipi contro, ma una persona bionda non si tinge perché il biondo è sinonimo di stupidità.

Forse avrebbe dovuto provare a rompere il ghiaccio con qualche frase. Non ad effetto, magari, più sentita e forse intima.

– Sai, è qui che ho visto per la prima volta An. Ero seduto qui, era l’estate di quasi tre anni fa, e stava trascorrendo le vacanze dallo zio, prima che gli lasciasse la casa per studiare qui. Mi ha raccontato che si trovava bene qua, si riposava e l’atmosfera gli piaceva. Beh, non potevo dargli tutti i torti. Io ero seduto ad ascoltare musica, qui, tanto per rilassarmi, e mi si avvicina questo ragazzo per chiedermi una sigaretta. Lo sai qual è la cosa comica? An non ha mai fumato.

Federico fece una faccia strana, come se credesse impossibile che avvenisse una cosa del genere. – Scusa? E ti ha abbordato così? Come faceva a capire che fossi… – non finì la frase, imbarazzato. Appunto, non era facile parlare di queste cose. Già era un passo avanti, quanto meno s’era fatto capire.

– Guarda, è difficile da spiegare. Sul momento me lo son chiesto anche io, che comunque ero piccolino e aveva limitatissima esperienza, non potevo capire come mai ci avesse provato con me. Pensai all’inizio che si era buttato, roba da matti, per inciso, perché gli interessavo, ma poi mi sono accorto col passare del tempo che è una cosa che senti. Non si è infallibili, ma mano a mano che diventi esperto, capisci se una persona è tendenzialmente gay o meno. Lui aveva visto in me quello che aveva già passato prima. Aveva notato la contraddizione che c’è in ogni gay non dichiarato, tra la verità e la bugia. Sembra che siano i gesti, l’aria, non so. So solo che lo capisci, e chiaramente – rispose, con tranquillità, appoggiandosi al tronco dell’albero. – Ci vuole tempo, ma lo capisci. Meglio tardi che mai, no?

Si infilò le mani in tasca, e vide Federico pensieroso, forse non troppo convinto. – Considera che ho capito che tu lo sei, per cui non vedo perché lui non avrebbe dovuto capirlo.

– Beh, non ti conosceva, o sbaglio?

Ci pensò su, ma poi rispose tranquillamente: – Giusto. Boh, vabbè, non m’interessa. Avrà buon occhio.

– E tu, se non è troppo personale – aggiunse subito, preoccupandosi di non suonare indiscreto – come te ne sei accorto?

– Se non hai problemi a trattare temi sessuali, te lo posso raccontare– gli rispose, cercando di captare un segno di ciò che pensasse davvero. Federico annuì, anche abbastanza energicamente, e quindi gli rispose: – Tante volte mi facevo una pippa, e mi ritrovavo a pensare a qualche ragazzo, magari visto per strada, in bus, ma me lo immaginavo. All’inizio, più che spaventato o disgustato, son rimasto interdetto. Diciamo che non è che uno si sveglia la mattina e si immagina di succhiarlo ad un altro, diciamo, – sorrise, cercando di non preoccuparlo, ma lo vide molto interessato. Questo finisce nella gabbia dei leoni, me lo sento – per cui son rimasto così. Poi per un po’ ho fatto finta di niente, fino a che non mi sono accorto che mi piaceva da morire. Diciamo che me ne sono accorto così, dal lato fisico. Dal lato sentimentale, beh, quando ho incontrato An.

– Tipo? – Curioso, il ragazzo.

– Mi sono accorto che non volevo soltanto andarci a letto. Volevo passarci le giornate, baciarlo, toccarlo, anche, sì, ma non era solo corpo, era anche mente. Quando ti prendi una sbandata del genere per un uomo, ti tocca ammettere, anche non volendo, che gli uomini ti piacciono.  Anche perché l’hai visto, non assomiglia per niente ad una donna. Sbaglio?

– No, certo. Bel ragazzo, tra l’altro – replicò, sovrappensiero, prima di rendersi conto della frase. – Oddio, no, scusa, non intendevo… – lo vide cercare di scusarsi, ma lo fermò prima.

– Tranquillo, non m’offendo. Finché sono apprezzamenti gratuiti, s’intende – aggiunse, con una faccia pseudo truce, prima di mettersi a ridere. Notò come l’atmosfera ormai fosse tranquilla e che fosse bastato pochissimo per far uscire Federico dal suo guscio. Sì, la sua compagnia gli stava facendo davvero piacere.

O meglio, c’era ancora un filino di preoccupazione, e si sentiva il perché. Voleva sapere del sesso, e lo capiva. Si è omosessuali anche nell’ambito del sesso, non solo dei sentimenti. Anzi, per alcuni solo del sesso, ma sperava non fosse il suo caso.

– Dai, lo so di cosa vorresti parlare – gli fece, ammiccando, dandogli un colpetto sul gomito. – Non te ne vergognare. È tutto un pacchetto completo.

Sentì Federico lanciare un breve sbuffo – che non riuscì a far confondere col vento che stava soffiando. Colpito e affondato – prima che gli rivolgesse la tanto agognata domanda: – Com’è?

Neanche aveva chiesto, come prima cosa, se facesse male. Zio can, ma che tipo si era beccato? Era attivo, forse?

– Diciamo che dipende. Le prime volte è strano, soprattutto da passivo, perché non è così agevole, diciamo. Le prime tre o quattro volte, a dirla tutta, non sono neanche venuto. Era piacevole, ma boh, ero bloccato. Penso che però questo valga per ogni esperienza sessuale. Ne hai con donne, te? – chiese, e al segno di diniego di Federico, continuò. – Ti senti un po’ come se niente fosse come prima. Ti dico pure che da passivo è più forte l’idea. Mi sentivo completamente scombussolato, e dopo aver fatto, mi sono guardato allo specchio e non riuscivo a riconoscermi. Non è che ti femminizzi, non pensar male. Forse è lo sguardo a cambiare. Comunque penso che le emozioni varino da persona a persona. Però ti do un consiglio personale.

– Tipo? Usare sempre il preservativo? – chiese, prima di mettersi a ridere. – Tranquillo, penso di essere troppo ipocondriaco per non fare attenzione a queste cose. Le malattie veneree non sono una cosa che vorrei incontrare in maniera ravvicinata.

– No, tranquillo, per quanto riguarda l’educazione sessuale, penso e spero che tu sappia quello che devi sapere, era più un’avvertenza di altro tipo. – Sorrise, dandogli un colpetto su una spalla. – Quando vorrai farlo, dovrai sentirtelo per davvero. Altrimenti rischi di credere che stai facendo la cosa sbagliata, e per questo ti consiglio io personalmente di farlo con una persona con cui hai feeling. Amici, fidanzati, non gente appena incontrata, cioè, non le prime volte almeno, perché l’idea te la fai così. Decidi te, eh, ma è una mia personale opinione – aggiunse poi, insicuro che suonasse come un ordine. Beh, in fondo voleva che venisse su in un certo modo – ancora con istinti paterni! – non come una troietta che andasse a fottere nelle dark room. Poi magari, al Pride ce  lo portava lui, per divertirsi, per ballare, per entrare nell’ottica gay e non chiedersi perché.

– Ah, altro avviso: ci sono tanti attentatori alle virtù dei verginelli. Sta attento, soprattutto se non sei sicuro di volerlo prendere – gli fece un occhiolino, prima di mettersi a ridere.

Continuarono a parlare per parecchio ancora, di sottigliezze, di sesso – perché tira più un pelo di… – e roba simile, prima che arrivassero al tanto temuto argomento del coming out.

– Cioè, scusa. – chiese Federico, arrossendo, forse preoccupato di dire stupidaggini. – Ma tu oggi hai fatto, diciamo, coming out così, semplicemente dicendo che stavi con un uomo. Ma è davvero così facile?

La domanda lo imbarazzava, ed era palese. Era anche giusto e normale: la cosa più difficile di tutte non è il praticare – sessualmente o sentimentalmente – ma il viverlo senza doverlo nascondere. Era una rogna mostruosa, difficilissima da gestire, soprattutto da soli. Bisognava conoscersi bene, già solo per accettare di essere gay, figurarsi prima di ammetterlo davanti ad altre persone!

– Vorrei dirti di sì, ma no. Cioè, a meno che non te ne freghi niente di nessuno, all’inizio è un incubo. Io ti posso dire una cosa: a me importava solo che le persone a cui tenevo davvero, come la mia famiglia, lo sapesse. È stato un periodaccio, perché varie volte ero quasi arrivato a dirlo, ma era difficile, difficilissimo. Quando gliel’ho detto, non ho avuto più problemi e ho iniziato a parlare di An come ho fatto stamattina. Il prima, però, ti fa rimettere sangue.

– Brutta immagine – constatò lui, sospirando.

– Già, ma realistica. E non sei mai sicuro se andrà bene o male, è quella la cosa orribile. È quello che ti dilania dentro. Ti posso dire, per la mia esperienza, che poi ti senti meglio. Ma non oso immaginare cosa possa accadere nel caso in cui non ti accettino. Niente di positivo, ecco. – Fece una pausa, prima di avvicinarsi a Federico, spalla a spalla, per fargli capire che parlava con lui, ma soprattutto con se stesso. – Il bello del genere umano è questo: ognuno reagirà in maniera diversa agli stimoli. Diventa, però, un boomerang micidiale, quando ci sarebbe bisogno di certezza matematica e invece c’è solo un calcolo probabilistico. Zio can, sto parlando come An. – Ridacchiò ancora, prima di stendere bene la testa all’indietro sull’albero, intento a guardare il cielo nuvoloso attraverso le fronde. – Tutto è relativo, anche noi lo siamo. E l’essere umano attacca etichette a rotta di collo per avere certezze, creandosi solo problemi. Bisognerebbe essere ciò che si sente, senza aver paura o bisogno di etichettature. Fare ciò che si sente, perché in molti casi non si può scegliere. Non si può scegliere di credere in un Dio o in un altro, non si può scegliere dove si nasce, non si può scegliere chi amare. Non si può scegliere di essere timidi o estroversi, e chi pensa di poterlo fare, si prende in giro e si snatura. È orribile cercare di essere chi non si è.

Si sentì lo sguardo di Federico addosso, come se tutto quel discorso lo atterrisse, ecco. Sapere di essere schiavi dell’etichetta era orribile, e anche lui, spacciandosi per gay, ci sarebbe caduto. Non che non lo fosse, ma non doveva dire di esserlo, punto. – Per quello io parlo così: per quello non ho mai detto “sono gay”, ma ho parlato di An al maschile. Per quello stamattina ho detto così quella frase. Io non sono in un etichetta. Io so cosa provo, e so che amo Andrea. Nothing else matters. Sarebbe potuto essere un uomo come una donna, ma non ci innamoriamo del sesso, ma di quello che una persona è. Sai quante persone si sono riscoperte gay dopo aver preso una cotta pesante per qualche loro amico? Anche a venti, venticinque anni. Non c’è un tempo in cui capita, perché non è detto che capiti. Vedi, secondo me non è un discorso facile da affrontare, perché i sentimenti sfuggono alla logica. È tutto relativo ed è impossibile catalogare, e anche inutile, a dirla tutta. È… boh. Basta seguire se stessi, son convinto di questo. Il resto, chissenefrega. – Gli sorrise, prima di concludere con una raccomandazione che, ovviamente, si era dimenticato di fare a monte: – Questa è la mia opinione, eh, non devi seguirla per forza. Come t’ho detto, ognuno reagisce in maniera diversa agli stimoli. Meglio condividerli, però, altrimenti tutto il mio discorso sarebbe ipocrisia. Forse è un po’ contorto il ragionamento, mi capisci?

– Sì, sì, lo capisco. – Federico gli sorrise prima di sdraiarsi accanto a lui sul tronco dell’albero. – Chi vivrà, vedrà. Ora non posso dir molto, capisci. Non so come si viva in questo mondo.

– Oh, ma quello è semplice. – Gli fece un occhiolino, prima di gettare una frase ad effetto che non sarebbe mai stata colta, almeno non nell’immediato. – Fare ciò che si sente.

 

 

 

 

 

 

 

Trascorsero un po’ di tempo, ancora lì, al Prato, prima di fare un giro, diretti verso la stazione. Di rifargli fare tutta quella strada a piedi da solo non gli andava molto, per cui aveva deciso di accompagnarlo almeno fino in stazione. Si erano fermati in un bar per strada, non aveva neanche fatto caso a quale, giusto per farsi uno spritz, come ogni pomeriggio o sera in compagnia. Avevano chiacchierato di altri argomenti, musica, robe leggere, perché ormai avevano da recuperare un po’ anni a scambiare due chiacchiere così, tanto per. Si erano trovati a fare prima discorsi seri, sempre per l’idea che ognuno reagisce a modo proprio. Con lui, gli era venuto più naturale parlare di coming out e omosessualità che di altro. Forse era la volontà di preservarlo – basta, istinto paterno, vattene! – o forse era solo che il loro rapporto si doveva evolvere così, senza troppe pippe mentali.

Dopo averlo accompagnato e invitato a una serata da qualche parte con lui, An e i suoi amici, Mattia si incamminò nuovamente verso casa, fischiettando allegramente e salutando, di tanto in tanto, qualche studente di Lettere che incontrava spesso. A vivere sopra all’università capitavano anche queste cose. Rientrò in casa che era, obiettivamente, un po’ esausto.

– Zio can, vedi ad affrontare tutti sti discorsi assieme? Poi ti ritrovi distrutto per il carico di emozioni suscitato – borbottò, mentre si affacciava sulla finestra che dava sulla strada. An non era ancora tornato, stava facendo decisamente tardi. Gli sembrò di vederlo avvicinarsi in lontananza, aveva un cappotto rosso vistosissimo e quasi inconfondibile. Camminava di fretta, probabilmente per il freddo: ok, non nevicava e non pioveva, ma comunque era freddo e parecchio. Lo sentiva anche nelle ossa, il freddo, e solo lì a casa col riscaldamento acceso stava tranquillissimo. Lo sentì salire le scale: sì, era decisamente lui, non vedeva l’ora di accoglierlo in un caldo abbraccio e dargli qualche bacetto. Appena entrò in casa, lo salutò e gli diede un bacio, ma si rese subito conto che era successo qualcosa. Era nervosissimo, lo aveva ricambiato di sfuggita. Non era arrabbiato con lui, altrimenti l’avrebbe scostato, semplicemente. Il problema era altro.

Lo osservò andare in cucina e prendersi un bicchiere d’acqua, andare avanti e indietro per la cucina per cercare qualcosa da mangiare, prima di buttarsi, distrutto, sul divano.

Non serviva neanche chiedere, sapeva che a breve, dopo aver finito di bere, avrebbe iniziato a parlare. Infatti, così andò.

– Quegli altri imbecilli mi hanno fatto innervosire – iniziò, dando un colpo sul bracciolo. – Si comportano da idioti beceri quando fanno così. Lo spritz mi è andato per traverso, zio boe.

Bene, aveva anche capito di chi parlava. I suoi amici gay dell’università. Cazzo, non l’aveva mai visto così arrabbiato, o meglio, almeno non con loro. Dovevano averla fatta grossa, assai grossa.

– Che hanno fatto? – gli chiese allora, cingendogli le spalle con un braccio.

– Varda se stavolta non li uccido. Si comportano proprio come quelli che criticano. Zio can – continuò a borbottare, e la sequela infinita di pseudo bestemmie – seppure minori rispetto allo standard della zona – preoccupò parecchio Mattia, che gli diede un bacio, nella speranza di calmarlo. Anche perché sembrava quasi confuso, e non è che ci stesse capendo molto, in realtà.

An gli rispose e, pian piano, sembrò calmarsi. Appena si staccarono, Mattia lo guardò negli occhi, prima di ascoltare quello che era successo.

– Gli stavo raccontando la scena madre di stamattina tua con la professoressa, tranquillamente, e stavo raccontando come tu fossi stato bravo a cavartela, ma ad un certo punto Giacomo ha detto “Fanculo a ‘sti etero di merda!”. E tutti gli altri dietro, come dei cagnolini, lanciando imprecazioni su imprecazioni contro questa stronza che aveva cercato di discriminarti – disse, prima di fermarsi a respirare e a sbuffare. – Il problema è che non hanno capito che si stavano comportando come lei, la stavano discriminando in quanto etero. Non era giocoso, era feroce, perfido. Mi son sentito a disagio e abbiamo discusso, chiedendogli se fossero scemi a comportarsi come non volevano che si comportassero gli altri. Sai qual è stata la risposta?

Questa volta, a sbuffare, fu Mattia. – Che se ci si comportano gli altri per primi, perché non possono farlo anche loro?

– Già. – concluse, lapidario, fissando il bicchiere che aveva poggiato sul tavolino. Era nero di rabbia, Mattia lo vedeva, e sapeva di poter far poco. Come fare a cambiare la mentalità di una persona? Sarebbe da illusi, da utopisti, o da folli, neanche ci si trovasse in 1984.

– Che ci devi fare? Alla fin fine, è una loro idea, che ti piaccia o meno. In questo caso, meno, lo capisco – aggiunse poi, mentre vedeva il volto del ragazzo sempre più scuro.

Più o meno lo capiva: uno sfugge per una vita alle discriminazioni in quanto gay, tante persone etero non fanno storie – in quanto persone, appunto – e poi ci si ritrova con degli amici gay che ripropongono quelle discriminazioni e disuguaglianze alla società.

– Lo so. Ma mi dà fastidio uguale. Più che altro, mi dà fastidio che non se ne siano accorti, perché troppo presi contro il nemico – sibilò, rimarcando l’ultima parola con una rabbia strisciante.

– Dai, magari ci penseranno su, visto come te ne sei andato, e magari si rendono conto dell’errore. Non disperare. – Sorrise, accarezzandogli la guancia. Ma non finì di parlare, Andrea, non così facilmente.

– Non è quello, amore. È che non capisco perché non ci si possa voler bene e coesistere senza dover lottare gli uni contro gli altri.

Mattia gli rispose, lasciandolo sgomento: – Perché senza lotta, non c’è potere. E ci è sempre stato insegnato a lottare, in qualche modo. E perché la legge del taglione è sempre la più gustosa. L’unica cosa che possiamo fare è sperare che le persone cambino e son sicuro che, pian piano, non ci sarà neanche più bisogno di questa lotta. Nel corso dei secoli si sono esaurite tante lotte, perché non dovrebbe finire anche quella tra etero e omosessuali?

– Quanto sei filosofico – disse, ridacchiando, An. Finalmente si era calmato, forse era la positività insita nel discorso, o forse era la paura che anche nel suo stesso fidanzato ci fosse un eterofobo nascosto, che era stata sicuramente fugata da quella frase. – Vabbè, hai ragione tu. L’importante è non farlo noi per primi.

– Figuriamoci. Gli eterofobi sono etero repressi, e, sinceramente, io non so se mai andrò con una donna, e neanche mi interessa. Al momento, mi basta vivere i miei sentimenti. Compresi quelli per te.

E Andrea, come risposta, tirò fuori il suo sentimento di quel momento, la voglia di ridere, tirandogli un cuscino del divano addosso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Aerials in the sky

When you loose small mind

You free your life

Aerials, so up high

When you free your eyes

Eternal prize.

– Aerials, System of a Down –

 

 

 

 

 

 

*Piccola parentesi divertente: la frase iniziale era, in realtà “l’arrotino che passava…”: il problema è che, come mi è stato fatto notare, è una cosa romana – a tal proposito: chi non ha forbici da seta a Roma?! – e che a Padova non esiste. Vabbè. XDDDD

1 La legge sui matrimoni gay fu bocciata a  fine marzo da referendum popolare, in Slovenia, per cui la storia può essere ambientata attorno alla metà di Marzo.

2 Per essere precisi, mi sono immaginato che abiti nei dintorni della Facoltà di lettere, che sta dall’altra parte dell’Adige rispetto alla stazione. Giusto per completezza.

3 La citazione è tratta dalla canzone No One Spoke del gruppo olandese The Gathering.

4 Lo dico da subito, le informazioni non saranno precise, se non in pochi casi, ma per una volontaria scelta di voler cercare di mantenere una certa atmosfera. Gli anni sono relativi, di fronte all’atmosfera.

 

 

 

 

Note finali!

Inizio esordendo con un enorme “CHE FATICA!”. C’ho messo una vita e mezza a scrivere questa shot, perché è un argomento obiettivamente molto difficile e caustico da trattare, e ho dovuto fare in modo di “frenarmi” per non andare in depressione (XD) e per non metterci troppo di mio dentro. Tra l’altro, quest’ultimo è un progetto in cui ho miseramente fallito, perché questa serie di argomenti segna chi li ha vissuti, tantissimo, per cui alcune sensazioni non sono – purtroppo – frutto d’inventiva. Non ci dovrebbe essere troppo, quantomeno, però è stata comunque un’agonia.

Faccio la stessa premessa che fa Mattia nella storia: NON è un argomento con risultato univoco o con procedimento matematico che viene portato avanti. Ho cercato di portar avanti un’analisi completa delle varie opzioni, senza sfociare (ancora!) in campo di logica e di probabilità, ma spero che traspaia un’idea del personaggio – quella sì, coincide perfettamente con la mia idea. Diciamo che ho cercato, da un lato, di incoraggiare al coming out, ma com’è giusto che sia si avverte anche dei rischi. Si chiama “consenso informato” :P.

In realtà, il titolo non doveva essere questo, ma “We are the Others”, dall’omonima canzone dei Delain – che non mi appartiene, appunto – solo che avrebbe cozzato col messaggio della shot. Perfect World è meglio, e vi consiglio di guardare il video, a tal proposito, che potrebbe darvi una sfumatura diversa sulla canzone.

Si ringrazia Nyappy per il betaggio, e vi prego, abbiate pietà per eventuali romanate: ho cercato di affinare e di rendere il tutto più “veneto” possibile, ma io so benissimo di non esserci riuscito. Anzi, se potete, ditemi che correggo ;). Lo so, avrei potuto ambientarla a Roma, ma è dall’idea iniziale che sono convinto che si sia svolta a Padova, città nella quale sono già stato e a cui son collegati non proprio bei ricordi in assoluto. Facciamo che l’ho anche utilizzata per esorcizzare un po’ tutto :P. Ah, e aggiungo che il fatto che Mattia non abbia alcuna descrizione fisica, come Andrea e come in parte Federico, è totalmente voluta. Chi capisce il perché faccia un fischio ;)

La storia partecipa al contest “Lo Slash è un diritto”, indetto da Il_Genio_Del_Male e Florelle, ho usato il prompt “semplicemente” (come il modo in cui parla Mattia dell’argomento) e usato sia il tema del coming out, dell’omofobia e – anche se non inserito, ma per me degno di nota – dell’eterofobia. Per il resto, beh, spero vi piaccia, è venuto un mattoncino bello lungo :P

Alla prossima, allora, penso con nuove trashate sul mio standard!

Ciao!

–RaspberryLad–

P.s: Disclaimer: Perfect World, Aerials e No One Spoke non mi appartengono, appartengono a Gossip, System of A Down e The Gathering rispettivamente e alle loro label. Niente scopo di lucro, per cui scialla.

   
 
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