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Autore: Artemisia89    02/04/2007    10 recensioni
C'è un giardino e c'è una casa.
Il giardino è dove lei siede e la casa è il luogo a cui lui ritorna. Il letto invece è solo un incontrarsi di venti contrari.
[One-shot vincitrice al concorso CrackPairing indetto da Suzako]
Genere: Malinconico, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Hinata Hyuuga, Itachi
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: nessuno
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Chiara

Disclaimer: naturalmente i personaggi non sono di mia proprietà.

 

 

~

 

 

 

“Ma anche altri venti, meno costanti, che mutano direzione, che abbattono cavallo e cavaliere, per riorientarsi in senso antiorario.”

Michael Ondaatje, Il paziente inglese

 

 

 

 

Venti contrari

[di grazia e violenza]

 

 

 

 

 

La pallida figura sembra a prima vista stonare eccessivamente con l’ambiente che la circonda. Troppo buio, e troppo sfocato per occhi che sono abituati a capire e a delineare in fretta le immagini. Troppo evanescente per una casa così concreta, troppo eterea e apparentemente candida per gli abiti che la rivestono.

 

E le mosche bianche muoiono in fretta.

 

 

Alza un braccio con un movimento svagato, volutamente distante dal mondo, le dita scorrono sui tomi impolverati e segnati da un tempo che a lei sembra esser diventato estraneo. Si sporcano appena, giusto un fantasma di grigio sui polpastrelli morbidi.

Porta giù un libro a caso dallo scaffale e scende per la scaletta con gli occhi bassi, fa quasi per cadere, poi ritrova l’equilibrio. Esce dalla stanza della biblioteca e si porta lontano dai suoi appartamenti. Ha solo voglia di cambiare un po’  l’aria perché a volte l’atmosfera in quella casa diventa davvero irrespirabile.

 

Per quanto sia possibile.

 

 

Il libro è leggero come un soffio di vento, eppure a lei sembra pesare più di quanto si possa immaginare. Si trascina per quei corridoi a cui lancia occhiate fugaci e disinteressate in quanto,  per lei, c’è soltanto lo spiraglio di luce che entra da quella porta, lontana, ma stabilmente sicura in una dimensione in cui ormai si fa a fatica a riconoscere la realtà e il confine con il sogno si fa così labile da portarti a dire di si ad ogni cosa.

 

E per lei era stato un po’ così: avete presente il vento?

 

 

 

Datoo

 

 

 

Hinata aveva chiuso la porta dietro di se e aveva lasciato che la luce di un bianco accecante la avvolgesse: sorrise beata, quasi di nascosto, grata al tempo per averle concesso una giornata così bella. Lei le stava quasi dimenticando, quindi non poteva che essere felice. In quella dannata casa la luce sembrava quasi venire risucchiata, veniva filtrata dai vetri opachi o veniva deviata da un so che di maligno. Anche lei preferiva girarne al largo. Più che comprensibile.

 

Come stiamo toccando il fondo

 

 

Raggiunse la sedia e il tavolo che miracolosamente avevano retto all’inspiegabile decomposizione che era invece così estranea alla casa e al suo interno. L’abito di Hinata si sporcò con la ruggine, macchiandosi ai bordi e poi con la terra brulla che difendeva strenuamente quel poco di naturale che le era rimasto. D’altro canto quello era il suo spazio privato e seppure lei si stesse ormai, inesorabilmente spegnendo, la fragranza della sua presenza restava. Come se il Datoo soffiasse continuamente, con la sua leggerezza e il suo tipico profumo. Proteggendo quello spazio che non era realtà, che non era sogno.

 

Come un fragile giardino ai confini del mondo

 

 

Aprì il libro e se lo portò in grembo, e lasciò che le orecchie catturassero suoni banali come lo sporadico canto di qualche uccellino che, in maniera avventata si era spinto fino a quella casa. Con i suoi occhi bianchi lo scorse su un ramo lontano, oltre le mura che circondavano il primo anello che ospitava il suo giardino. Avrebbe voluto tenere un uccellino, o un gatto. Un qualsiasi essere vivente che le tenesse compagnia. Un tempo lo avrebbe desiderato con tutta se stessa, ma adesso mai vorrebbe qualcuno da trascinare nel suo baratro, in quella casa dominata dall’ombra di lui.

 

I venti velenosi sanno sempre cosa vogliono.

 

 

Riportò la propria attenzione  sulle pagine ingiallite, su cronache di clan i cui nomi erano ormai disegni sulla sabbia, pronti a sparire alla prima mareggiata più violenta delle altre. Ma non che Hinata fosse poi così interessata al libro: aveva solo bisogno di pensare con tutte le sue forze.

 

 

Quando per la prima volta aveva incontrato Itachi Uchiha aveva appena 16 anni e nulla alle spalle. Se fosse scappata da Konoha non avrebbe lasciato niente: una famiglia [che non la riconosceva], amici [che dormivano un sonno infinito] e una casa [il termine stesso imbevuto d’ipocrisia].

Ma non per questo non tentò di sfuggirgli. Aveva dei principi, lei.

L’esito? Scontato, anche troppo. Ed il viaggio verso la dimora dell’Uchiha fu il semplice sostare in un sogno transitorio.

Un giardino, lui aveva scelto per lei un giardino. Una piccola accortezza, quasi il fantasma di una cortesia.

 

 

Hinata sollevò gli occhi dal libro e riguardò il cielo. Si stava oscurando, perché una grossa nuvola aveva ricoperto il sole e le ombre sembrarono ad un tratto calare più in fretta. Assottigliò gli occhi e si portò una giacca sulle spalle nude.

 

Lei poteva essere debole, ma non stupida e sapeva bene perché Hitachi l’aveva portata fin lì.

Itachi Uchiha voleva il segreto dei suoi occhi.

 

 

Tornò istintivamente alla sua lettura: era un trattato sui venti. Che cose strane, i venti. Ci sono quelli regolari, quelli  periodici e poi ci sono quelli che di regole, proprio non ne hanno. Certi venti che sembrano avere coscienza propria.

Soffiano dove pare loro e con i loro gemiti turbano le notti delle persone, rendendole insonni. E magari ci godono anche nel vederli agitarsi tra le lenzuola, affascinati e inorriditi da quelle urla e da quegli spifferi che penetrano fin sotto la carne. Hinata si ricordava che quando il vento soffiava, il calore delle coperte sembrava essere risucchiato fuori.

Eppure per quanto paura le facesse, quel vento che spirava così forte da est, non poteva assolutamente fare a meno di ascoltarlo.

Fece scorrere gli occhi più giù, leggendo lentamente, poi dopo aver letto l’ultima riga decise di chiudere il libro e tornare dentro.

C’era un’altra notte che l’aspettava e il vento ormai si era alzato.

 

Un vento che la spingeva in un’altra direzione

 

 

Lui era arrivato, lo aveva visto giungere, da lontano. Hinata chiuse il libro, donandogli ancora un’ultima occhiata vagamente interessata, si alzò e spinse la sedia sotto il tavolo. Chiuse la porta del suo giardino e tornò in quella che era la loro casa.

E Hinata nemmeno ci pensava più in fin dei conti. Vivevano insieme e lei era sua.

 

Hitachi era nella stanza, in piedi e si soffermò a guardarla per un attimo appena

 

Non lei, ma i suoi occhi.

Ad Hinata piace credere questo.

Lei deve crederlo.

 

 

Le unghie appena sporche di sangue, di polvere rossiccia e l’odore che aveva addosso la diceva lunga. Lasciò cadere la sua borsa a terra e si avvicinò a lei. Le si avvicinò in maniera quasi assoluta, come un qualcosa che non prendeva nemmeno in considerazione compromessi o peggio, rifiuti. Ad Hinata il libro le sfuggì di mano mentre sentiva il suo corpo schiacciato al muro, bloccato tra la parete e quello di lui. Tempo fa avrebbe tremato, avrebbe urlato, pregando di scomparire così, come se nulla fosse. Adesso sperava soltanto che l’odore della brezza fresca che l’aveva circondata non sparisse subito dal suo corpo.  Naruto-kun una volta le aveva detto che aveva un buon profumo addosso, un profumo lontano, con un che di salato, di marino.

 

[Lei sa di non dover fuggire]

 

 

Si trovò sdraiata sul letto senza nemmeno rendersene conto. Era lì, immobile, mentre Itachi si spogliava del suo lungo cappotto nero abbandonandolo su una vecchia sedia.

 

Hinata poteva indovinare sempre cosa pensava, e forse questo era quello che Itachi più odiava di lei. Quando la spingeva sul letto, lo faceva sempre con una violenza inaudita: il materasso riceveva Hinata altrettanto duramente quasi per un tacito accordo stipulato con l’Uchiha. Le lenzuola le irritavano la pelle, il letto era troppo morbido, l’aria troppo soffocante per un vento così dolce.

 

[che sa penetrare da sotto le porte. Odioso.]

 

 

Se c’è una cosa che lui adora è accarezzarle la pelle attorno agli occhi. Con le dita traccia linee di sangue sulle palpebre, scivolando sulle tempie e poi ritornando sul viso, quasi a volerla segnare, a gridare a tutto il mondo che quella parvenza di donna era sua e di nessun altro e che solo lui aveva il diritto di piegarla. Perché Hinata non si spezzava mai: simile al giunco, ogni male le scorreva addosso come il più flebile vento.

 

[Odioso, quel vento impercettibile ma costante]

 

 

Lui continuò a spogliarla, mentre lei guardava il soffitto, come se quello che stesse avvenendo non la toccasse, la denudava con una rabbia che a fatica riusciva a celare. Cos’era quella sensazione? Quegli occhi distanti sembravano perforargli l’animo, sembravano sussurrargli parole di conforto troppo tristi da udire, troppo emotive e consolatorie.

La seta del kimono scivolò via, con i fruscii sommessi che le sono propri, una ruvida carezza per la pelle di Hinata prima della violenza del suo amante.

 

[Amante]

 

 

Itachi quando la possiede l’investe, sembra quasi volerle divorare l’animo. Le stravolge il corpo, i sensi, le tortura ogni centimetro di pelle nuda: è come se scavasse in lei per cercare un qualche segreto che i suoi occhi tacciono.

Hinata quando è posseduta lo avvolge, sembra quasi volerlo accogliere nella sua anima. Lo circonda con le sue braccia e porta la sua testa sulla sua spalla bianca, sembra quasi cullarlo, quasi a voler disperdere il veleno che lo intossica. È come un sussurro di redenzione che Itachi vorrebbe poter udire.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Samiel

 

 

Le labbra di lui andarono per l’ennesima volta ai suoi occhi, la testa di Hinata quasi intrappolata tra quella di Itachi e le sua mani che le accarezzavano i capelli. L’odore del sangue le giungeva stranamente dilatato andando a formare nella sue mente immagini crudeli, di corpi straziati con estrema eleganza.

Se c’era un vento che somigliava ad Hitachi, pensò Hinata memore della lettura interrotta qualche ora prima, era il Samiel.

 

[Vento e veleno]

 

 

è strano a dirsi, ma il piacere in quel momento li avvolse entrambi. Strano a credere che due persone così diverse potessero giacere nello stesso letto. Hinata non ha paura quando è con lui, anche se a volte le fa male, anche quando il sangue lascia impronte nascoste su di lei, difficili da lavare. Potrebbe quasi essergli grata per averla portata via da quel grigiore. Potrebbe e in fin dei conti può. Lontana dalla morale non ha nulla da temere, nemmeno un amore sbagliato. Non ci sono occhi bianchi pronti a giudicarla, né tantomeno sguardi commiseratori. In quella casa è sola, con se stessa e lui. E i loro segreti e ricordi del passato che si trasformano insieme a loro.

E lui era proprio come quel vento, il Samiel, e devoto alla sua natura l’aveva portata via, lontano.

Quando Hitachi appoggia la testa alla spalla di lei, Hinata sente il suo corpo quasi fremere, scosso selvaggiamente da quel vento d’oriente, che solcando il deserto strappa via dai fiori petali avvelenati e infuria contro le città dei potenti.  E Hinata non può non nascondere una punta d’orgoglio pensando che quella furia è tra le sua braccia e che solo lei può fronteggiarla.

 

[Che lei sola può restargli accanto]

 

 

Si sente forte, come in vita sua non lo è stata mai. Hinata non ha mai saputo cosa significasse sostenere qualcuno, e ancora non sa bene cosa comporti essere forza per se stessi e per gli altri, ma scoprirlo, ecco, questo non le fa paura. E vorrebbe andare avanti. Itachi non avrebbe mai immaginato di giacere accanto a qualcuno. Ne tantomeno di lasciare che avvenisse qualcosa di paurosamente simile ad un abbraccio e questo Hinata lo sa, e solo per questo le sue braccia lo cingono più forte, quasi a sussurrargli non cadrai, non cadrai.

 

[Ci sono io, questa volta]

 

 

Ogni volta che finiscono, Hinata comincia a parlare.

 

Parla, Hinata parla. Quando lei parla la memoria di Itachi torna indietro nel tempo, fin quando non si ferma in una giornata assolata, arida, con le cicale a frinire in sottofondo e le immagini a svanire, ad evanescere, nel caldo. Lui era lì, ombra sbagliata appena visibile e lei gli era davanti, pallida figurina addormentata ai piedi di un albero lontano dalla tenuta Hyuuga. Non una sola goccia di sudore le scivolava dalla fronte, lo yukata candido non aveva una piega: se ne stava lì, perfetta [come un animaletto di vetro. Si guarda, ma non si tocca], solo per essere guardata, vietato anche solo sfiorarla con il pensiero.

Lei, la Hyuuga, sola come sempre, fuori da un mondo che non ha mai capito, [che non l’ha mai capita].

Hitachi si era avvicinato e la sua ombra si era fusa con quella dell’albero, aveva coperto con passi misurati la distanza che li separava e si era inginocchiato davanti a lei, avvicinandosi al suo volto addormentato. Le dita erano andate a sfiorare le labbra sottili, le guance e poi quegli occhi, quelle palpebre chiuse e coprire il nulla [il candore del vuoto] che Hitachi poche volte aveva visto. Aveva aspettato così, immobile, finchè non si era svegliata, giusto il tempo di ammirare i suoi occhi bianchi e farle credere che solo per quello l’avrebbe portata via. E Hitachi forse crede che per lei sia ancora così. Anche lui, come lei, deve crederlo.

 

[Perché non può esserci amore tra due persone così]

 

 

Silenzio. Il ricordo di quel giardino ancora aleggiante tra di loro, un fantasma di grazia per un gesto di apparente violenza.

La bocca di Hinata si chiuse, piegandosi in un sorriso che Hitachi non vide morire, le mani di entrambi si andarono a cercare in sincrono, riuscendo a raggiungersi e a stringersi per una volta ancora, in quel giorno. Le dita  ad accarezzarsi per qualche attimo, quasi giocando tra di loro, disegnando nell’aria un vorticare[di venti contrari].

E rimasero così, per minuti, ore, tempo infinito, gustandosi una tregua mai chiesta ma sempre ben accetta.

 

 

 

 

 

 

 

Hinata diceva sempre che l’uomo che l’ascoltava sempre parlare così a lungo [almeno lui l’ascoltava] era come il Samiel che soffiava da Est e che divorava tutto al suo passaggio, strappando il veleno alla sua pianta e diffondendolo nell’aria. Lui era il vento che corrodeva i corpi e gli animi e che lasciava al suo passaggio solo la polvere rossa del deserto, su scheletri abbandonati nel nulla.

Itachi diceva che la donna che teneva in gabbia [gli costava troppo chiamarla casa, quella] era come il Datoo, il vento che soffia fragrante da ovest, che sfiora le onde del mare, rubandone il sapore e portandolo con se, verso posti sempre più lontani. Il vento che riempie anche le più sporche abitazioni, facendo ondeggiare le tende come fossero bianche vele.

 

Sanno entrambi che non è amore il loro, quello che consumano la notte tra i sospiri, e nel giorno con i silenzi, ma solo un incontrarsi di venti contrari, incompatibili e quindi destinati a soccombere l’uno all’altro.

 

 

 

 

Venti contrari

  
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