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Autore: AlbertoLupo    17/09/2012    1 recensioni
C'è una festa. Gli invitati sono annoiati. Ad un certo punto entra un tizio che dice: "ho trovato un elfo, l'ho legato in giardino, andiamo a vederlo!"
Genere: Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Era notte e io mi trovavo nel salotto della signora Kobielsky.
   La signora Kobielsky era solita dare feste che si protraevano fino alle prime luci dell’alba, feste a cui partecipavano i personaggi più disparati della comunità, tutti, però, aventi un certo peso nella vita sociale e politica.
   C’erano reazionari come il conte Mariotti che in pieno 1941 continuava a considerare la locomotiva a vapore un’invenzione del diavolo, e libertini come il pittore Giordani, famoso per frequentare le trincee a scopo puramente artistico: la sua specialità erano i ritratti di corpi dilaniati da bombe a frammentazione.
   Per quanto riguarda la signora Kobielsky, un tempo donna affascinante e sensuale, ora all’alba dei suoi cinquant’anni, sembrava fatta di panna montata più che di carne: pesava 120 chili.
   Il ruolo del sottoscritto, in un simile contesto di nobili egocentrici e ricchi bizzarri? Quello di mero osservatore. Dico così perché più che guardarmi intorno, registrare eventi e volti, non facevo. Il mio "low profile", come avrebbe detto la signora Kobielsky che amava ostentare il suo inglese appreso a Oxford,  era tale che mi metteva sullo stesso piano di un'ombra. Uscivo da quegli eventi chiassosi e mondani così come ci ero entrato: senza essere notato, né salutato.
   Ogni tanto mi chiedevo come mai la signora Kobielsky continuasse a invitarmi, ma infondo lo sapevo. Il fatto è che all’epoca godevo di una certa fama. Avevo pubblicato un romanzucolo di non più di centoventi pagine dal titolo Carne. Ora, questo romanzucolo era la cronistoria della giornata di un soldato dal presentatt-arm delle sei del mattino, fino al proiettile delle 23.30 di sera che riceveva in pieno cranio, mentre montava la guardia, e che metteva fine alla sua esistenza.
   La cosa particolare del mio romanzo, e che mi aveva guadagnato il favore della critica e, in una certa misura, anche quello del pubblico, era che io descrivevo tale giornata da un punto di vista meramente fisiologico. Non parlavo  della nostalgia che il soldato aveva per la sua casa, dell’ardente desiderio di ritornare dalla fidanzata. No. Parlavo del corpo. Dell’epidermide che, strisciando sul terreno, si provocava ferite e abrasioni, delle narici che aspiravano le esalazioni delle bombe esplose, delle papille gustative che assorbivano il gusto umido e vagamente acidulo delle tiepide minestre di fagioli servite come pasti; parlavo delle labbra che si spaccavano seccate dal freddo, delle evacuazioni consumate dietro gli avamposti, fino allo spegnimento delle sinapsi cerebrali per colpa di un proiettile.
   Questa “epica del corpo”, questo “poema fisiologico”, secondo alcuni critici che mi avevano recensito, rendeva gli orrori della guerra in modo molto più efficace che tanti libelli pacifisti.
   Per questo ero invitato alle feste della signora Kobielsky: ero lo scrittore à la mode del momento.
   Vi dicevo: anche quella sera, come tutte le altre, me ne stavo in disparte. Seduto sul divano osservavo la variegata umanità che mi stava innanzi. Per la precisione stavo fissando la baronessina Isabella de Bernardi, ultima nata della sua nobile casata, splendido esemplare di diciottenne lasciva e perduta. La baronessina aveva intorno una batteria di uomini di varia età tutti presi a corteggiarla e a pennellare sulla sua schiena nuda e sul suo seno nudo a metà, delle scie di densa lussuria. L’unico, però, a quella festa, che dagli sguardi era passato ai fatti, era il pittore Giordani, quello di cui vi parlavo prima. Un genere di scapigliato, in senso reale, cioè con un gran ciuffo ricciuto che gli cascava come un vitigno sulla fronte e anche un po’ sugli occhi, di modo da scoprirli e coprirli, rendendo lo sguardo ancor più torbido e tenebroso di quel che già era. Un richiamo irresistibile per le giovani dal sangue blu e viziato come la baronessina.
   D’improvviso mi ritrovai sbalzato verso l’alto, come se il divano su cui sedevo fosse lievitato in un sol colpo. Guardai alla mia destra: la signora Kobielsky si era seduta accanto a me. I suoi 120 chili avevano esercitato una pressione tale su una metà del divano che l’altra si era gonfiata tutta, sollevandomi di un buon trenta centimetri.
   - Come sta il mio scrittore preferito? -, domandò la signora, facendosi aria col ventaglio.
   Tengo a precisare che tutti quelli che conosceva la signora Kobielsky appartenevano alla categoria del “Mio Preferito”.
   Io ero il suo “scrittore preferito”, Giordani era il suo “pittore preferito”, il conte Menassi il suo “reazionario preferito” e la baronessina de Bernardi, va da sé, la sua “ragazza terribile preferita”.
   - Bene -, risposi. – Questa festa mi sembra perfetta, come tutte quelle a cui mi ha invitato, signora Kobielsky.
   La Kobielsky mi fissò. Per alcuni secondi, la sua aria sempre tra il distratto e l’estenuato, parve animarsi di una nuova concentrazione che rendeva più circoscritta la pupilla. E l’oggetto di una tale circoscrizione, sembrava proprio fossi io.
   - Caro il mio scrittore preferito, ma lei è sposato? -, mi sentii chiedere
   - No, non ho mai avuto questo piacere -, ammisi.
   - Ed è fidanzato?
   Con un certo imbarazzo, ammisi: - Nemmeno.
   La Kobielsky batté ciglio un paio di volte
   – Non sarà mica… - chiese, abbassando il tono di voce.
   Lascio al lettore l’interpretazione di quei tre puntini. Qualsiasi cosa significassero, mi sentii in dovere di escluderla immediatamente.
   - Assolutamente no! -, risposi.
   L’espressione della signora Kobielsky si accese come una lampadina, le sue manine bianche e grassocce batterono due volte. - Oh, ma allora bisogna trovarle una fidanzata!
   Di colpo la Kobielsky si alzò dal divano, riabbassandomi di trenta centimetri, ma non ebbi tempo di rimanermene seduto, poiché lei, prendendomi per mano e trascinandomi per tutto il salone, disse: - Venga con me, scrittore! Ora le troviamo una fidanzata, oh, sì, sì! Io sono esperta nel formare coppie, vedrà! Troverò la sua anima gemella! L'anima gemella dello scrittore! Uh che bello!|
   A questo punto, mi sembra doveroso fornire qualche informazione sui miei trascorsi sentimentali e il mio punto di vista riguardi ai rapporti uomo/donna.
   A 32 anni non avevo mai cercato il vero amore e non speravo di trovarlo, poiché per me non esisteva. I rapporti tra i sessi? Un passatempo fisiologico per lo più, in rari casi arricchito da una certa intesa caratteriale, un’istintiva simpatia che andava oltre le curve del corpo. Ma tale simpatia sopravviveva al desiderio carnale davvero poco tempo per poterla considerare il collante di una relazione a lungo termine. In realtà, i rapporti tra uomini e donne avrebbero dovuto durare un tempo breve, una notte, al massimo due. Era la nostra società, così tesa a mettersi sullo stesso piano di Dio, così ansiosa di risultare immutabile e perfetta che forzava il quieto vivere mortale a una dimensione di epica eterna e trasfigurava la felice unione carnale di una notte nel vincolo matrimoniale di una vita.
   Consapevole di ciò, mi mantenevo lontano da ogni rischio di fidanzamento; aborrivo gli appuntamenti al buio che i miei amici avrebbero voluto organizzarmi con femmine che reputavano fatte apposta per me. Quando una delle mie innumerevoli zie, mi proponeva un invito a cena per conoscere una signorina in età da matrimonio, improvvisavo qualche malanno. Sapevo quali donne e in che modo potevano rendermi un uomo felice e da loro mi recavo direttamente, senza l’intermediazione di nessuno.
   Volete che sia sincero fino in fondo?
   Frequentavo donne di malaffare. Femmine di dubbi costumi che stazionavano presso ai tavoli dei locali più loschi. Creature viziose le cui forme sinuose prendevano sostanza dal fumo delle sigarette che reggevano tra le dita piene di anelli e il cui sguardo d’intesa non lasciava spazio a dubbi: anche loro volevano quello che volevo io: una notte di passione mercenaria. Una notte che al mattino, lasciasse nelle loro borse qualche soldo in più e nella mia anima la libertà di potermi rivestire e andarmene senza inventar spiegazioni.
   Ora, però, la signora Kobielsky si mostrava intenzionata a trovarmi una fidanzata. Di certo, non potevo liberarmi da lei e spiegarle come la vedevo in materia di fidanzamenti… Così lasciai che mi trascinasse da un angolo all’altro del salone, in cerca di qualcuna che facesse al caso mio, sperando che non la trovasse o che questa smania di trovarmela l’abbandonasse in breve tempo, cosa possibilissima visto il carattere volubile del soggetto in questione.
   Di colpo la signora Kobielsky si fermò e puntò lo sguardo alla sua destra. Seguii la direttrice del suo occhio e vidi dove terminava: nelle vicinanze di un tavolino Luigi XVI. Precisamente, nel luogo occupato da una donna sulla trentina abbondante, magra, spigolosa, coperta da un abito nero dai risvolti così bruschi imprevisti da farla sembrare vestita di pipistrelli. Lei stessa sembrava un pipistrello con quelle orecchie a sventola e quel viso camuso, appoggiato su un collo nervoso, tutto tendini.
   Era quella donna spaventevole la mia anima gemella? Sembrava proprio di sì!   Fortunatamente, prima che le presentazioni fossero fatte o che io mi dessi alla fuga, accadde un imprevisto che distolse la Kobielsky dai suoi diabolici propositi.
 
L’imprevisto aveva un nome, un cognome e anche una carica civile ben precisa.
   Si chiamava Emilio Besta, squadrista attivo negli anni subito antecedenti il delitto Matteotti, ora podestà del paese.
   Il Besta era un uomo che metteva un certo disagio al prossimo suo, non solo per il ruolo sociale che rivestita.
   Era magro e ossuto, spalle a collo di bottiglia e due orecchie sparate all’infuori simili a pinne di pesce. Aveva i capelli completamente rasati e uno sguardo malevolo e litigioso. Ciò che intimoriva di lui era lo stridente disaccordo tra l’uomo che avrebbe voluto essere e quello che, ai fatti, era.
   Il Besta avrebbe desiderato muscoli e anche un po’ di ciccia, perché no, di quella che è sintomo di sano benessere, a rimpolpare le  ossa, invece di quei fasci di nervi sottili e sofferti.
   Avrebbe voluto spalle larghe degne d’un guerriero troiano invece di quelle esili, alla Modigliani, che si ritrovava.
   Avrebbe voluto un viso pieno e la cui virilità risultasse conclamata dalla plasticità dei tratti, dalla sporgenza della mascella, invece di quello spigoloso e sfuggente che s'alzava oltre il colletto della divisa.
   E sicuramente avrebbe venduto sua madre pur di avere un paio d’orecchi un po’ meno a sventola, che meglio s’uniformasse alla sagomatura del volto, invece di quelle sporgenze indisciplinate che si dilatavano all'esterno come due membrane aliene.
   Questa discrepanza tra reale e ideale rendeva il Besta un uomo pericoloso, perché, frequentandolo, s’intuiva che sarebbe stato disposto a fare qualsiasi cosa pur di dimostrare che non era l’uomo che sembrava.
   Comunque, la sua irruzione a casa della Kobielsky spinse la stessa ad abbandonare i suoi propositi di fidanzamento, per mia fortuna.
   - Caro Emilio, che piacere!
   Il Besta pareva particolarmente eccitato. Gli occhi gli brillavano più del solito. Del sudore denso come olio di cocco gli spuntava dal cuoio capelluto lubrificandolo tutto. Una strana irrequietezza animava le membra sottili come zampe di ragno. Indossava la divisa da fascista, con stivali lunghi e neri che sbucavano dalle rigonfiature dei pantaloni e camminava a destra e sinistra sul tappeto regalato alla contessa da uno scià di Persia.
   - Bene, bene! -, disse. – E’ successa una cosa, sapesse!
   - Che cosa, mi dica, uh non mi lasci sulle spine, podestà! – trillò la Kobielsky.
   E il Besta, continuando a misurare con le sue gambe lunghe e secche come pertiche, il salone: - Oh, una cosa incredibile! Un fenomeno che ha del sovrannaturale! Lei non può immaginare, davvero non può immaginare!
   Intanto gli invitati si erano raccolti intorno al podestà, un po’ per rispetto verso la sua carica, un po’ perché il suo comportamento singolare incuriosiva.
   - Ma insomma, mi dica, parli! Non mi lasci così in sospeso, non lo sopporto! Oh, no, non lo sopporto! -, gorgheggiò la Kobielsky, la cui pelle, bianca come panna, si era arrossata per l’eccitazione.
   - Io e certi miei amici camerati eravamo in perlustrazione nel bosco, quando abbiamo trovato una creatura straordinaria! -, disse Besta.
   - Quale creatura? -, chiese la baronessina de Bernardi, titillata fino all'orgasmo multiplo dall’imprevisto.
   - Una creatura dei boschi -, disse il Besta, gli occhi che brillavano di un riflesso infantile, forse un po’ malevolo, da bambino che ha per le mani una lucertola alla quale taglierà la coda all'infinito. – Una creatura non umana. Forse un piccolo mostro.
   - Un mostro! – esclamò la Kobielsky.
   - Non è detto che sia proprio quello -, specificò il Besta. – Di sicuro è un qualcosa di non umano.
   - E dove sarebbe questa strana creatura? -, chiese Giordani, il pittore, aggiustandosi all’indietro al folta capigliatura.
   - E’ in giardino -, rispose il podestà.
   - Nel mio giardino? -, domandò preoccupatissima la Kobielsky, coprendosi il petto mammelluto con una manina.
   - Sì, ma non si preoccupi, l’abbiamo legata.
   - Ma allora che aspettiamo? Usciamo per vederla subito, questa creatura disumana… -, disse Piergiorgio Chiarelli, pachidermico professore di latino e greco, da qualche anno in pensione.
   - Uh, sì, sì, usciamo in giardino! -, disse la Kobielsky.
   - In giardino, in giardino! -, dissero tutti.
   E l’intera comitiva di festanti abbandonò il salone, già pieno del fumo delle sigarette e del profumo delle donne, per uscire in massa, all’aperto.
 
La notte era placida.
   La villa della Kobielsky, bianca come una enorme meringa, s’immergeva in una verde schiuma vegetale fatta di querce, cipressi e faggi che, col calar delle tenebre, s’impregnava di ombre e mistero.
   Un vento lieve soffiava a smuovere le fronde. Anch’io, solleticato dalle parole del Besta, ero uscito dal salone e avevo disceso la gradinata dell’entrata principale per immergermi nel giardino.
   - Dove avete legato il mostro? -, domandò, sempre con la sua voce acuta la Kobielsky.
   E il podestà: - Per di qua, seguitemi…
   Io e gli altri invitati, tutti vestiti di gala, aggirammo un enorme piscina vuota, e poi un gazebo, sotto il quale, la padrona di casa e le sue amiche erano solite sentire l’orchestra, in certe domeniche primaverili. Imboccammo un viale e c’inoltrammo in un piccolo bosco.
   - Ecco, è là -, disse il Besta, indicando il mezzo degli alberi.
   Ancora qualche passo e cominciai a distinguere qualcosa di luminoso tra i tronchi e sotto le fronde, come un vago alone bianco smosso da una lanterna.
   Il podestà rallentò improvvisamente il passo e così facemmo noi altri che gli eravamo alle spalle.
   - Venite, venite, a passo di marcia… -, sussurrò, sventolando una mano e facendoci cenno di aggirare una grande quercia.
   L’intera comitiva, in una scia di veli bianchi, rosee trasparenze, code di frack e risvolti di mantelle, aggirò dunque la possente pianta per ritrovarsi davanti a uno spettacolo davvero eccezionale.
   Come il podestà aveva anticipato, legata a un ramo c’era una creatura. Una creatura bizzarra. Piccola come una bambina, luminosa, con due occhi enormi che si aprivano sul viso tondo e dalle lunghe ciglia che sbattevano.
   Pur avendo braccia, gambe, un collo, un viso e tutto il resto e pur possedendo il senso del pudore, dato che era vestita con una specie di tunica, era chiaro che quella creatura non fosse umana.
   - Ma che carina! -, disse la Kobielsky. – Ma che cos’è?
   - Non lo so -, disse il podestà. – Io e certi miei amici eravamo in perlustrazione nei boschi per dare la caccia al lupo, quando ci siamo imbattuti in questa… cosa.
   Il lupo, già. In quei giorni, girava voce che le campagne fossero percorse da un lupo. Una temibile bestia scesa da chissà quali montagne che faceva strage di greggi e galline, nonostante, che io sapessi, nessuna pecora fosse morta di morte violenta, a parte quella fomentata dall’invincibile appetito dell’uomo.
   - Non è una cosa, è un essere vivente, podestà -, intervenne il pittore Giordani. E la sua sensibilità, subito guadagnò il favore delle femmine più delicate che annuirono, rapite.
   Il Besta, spazientito da simili sottigliezze, disse: - Sia quello che sia, non ne conosciamo la natura, quindi ho ritenuto opportuno legarla, renderla indifesa.
   A me non sembrava che quella piccola creatura che aveva qualche cosa di umano e familiare, ma pure qualcos’altro che sfuggiva, di inafferrabile, potesse costituire una minaccia.
   - Che intende fare ora, podestà? -, chiese la Kobielsky.
   - Per prima cosa sarebbe opportuno capire che tipo di creatura è esattamente, catalogarla, sì -, disse il Besta.
   Qui intervenne il Chiarelli. Avvicinandosi, l’enorme professore, alla creaturina, chinando il suo viso sul soggetto in esame, disse: - Sembrerebbe un essere mitologico. Il pallore come di fantasma, questa particolare luminescenza che ne circonda la figura, gli occhi molto femminei e grandi oltre il consentito dall’umana fisiognomica, i capelli lisci come acqua di ruscello, le dita in numero di quattro per mano e piede, anziché di cinque, e guardate, queste orecchie piccole e a punta, sembrano identificarla come una creatura dei miti e delle leggende del passato.
   - Ad esempio, di quale mito o leggenda? -, domandò Mariotti.
   - Non saprei con esattezza -, borbottò il Chiarelli. – Dovrei consultare i testi della mia biblioteca personale… direi però, così a naso, più dei miti appartenenti alla letteratura del Nord che a quella della Grecia classica.
   - Quindi, una ninfa? -, domandò il podestà, che a scuola era sempre stato un testa di legno.
   - Ma no, ma no! -, disse il Chiarelli, che il Besta lo aveva avuto come studente e ne ricordava l’impermeabilità totale all’apprendimento. – Le ninfe sono creature della Grecia classica, roba nostra, di noi mediterranei. Io direi, piuttosto, un elfo.
   - Un elfo! -, sussurrò la Kobielsky.
   E l’intera comitiva tornò a convergere lo sguardo sullo strano essere, ora unanimemente ritenuto un elfo.
   - Un elfo femmina, si direbbe da quell’accenno di seno sotto la veste -, disse Menossi.
   - E già, un elfo femmina -, ripeté Giordani, con un sorriso apertosi sotto il ciuffo ribelle.
   - Che ne facciamo di questo elfo femmina? -, domandò la Kobielsky.
   Ruotando sui tacchi dei suoi stivali, il Besta fissò negli occhi il suo ex professore e, per quanto gli scocciasse, sentì l’esigenza di porgli una domanda, ma questa volta non col tono querulo e colpevole dello studente che non ha capito, ma con quello perentorio ed esigente del capo popolo che vuole arrivare alla verità.
   - Per prima cosa dovremmo sapere se la creatura qui presente costituisce una minaccia per la comunità. Lei, professore, che è uomo di lettere e di cultura, cosa può dirci in proposito?
   - Dunque -, borbottò il Chiarelli. – Io, ecco, in quanto professore di lingua e letteratura italiana, lingua e letteratura latina e lingua e letteratura greca, non è che ne sappia molto di lingua e letteratura norrena… Però, ecco, qualcosa, qualche concetto, l’ho appreso qua e là, rubacchiato da certe letture di svago…
   - E allora? Su avanti, ci dica cos’ha appreso sugli elfi!
   Il Chiarelli, con lo sguardo abbassato al mite esserino legato all’albero, rispose: - Dunque… prima di tutto gli elfi sono abitanti dei boschi. Abitano principalmente sugli alberi, nelle profondità silvestri più amene, difficilmente penetrabili al passo umano. Essi amano la natura in cui vivono, diciamo pure che la venerano come fosse una grande madre...
   - Un momento, lei ha detto “venerano”? -, chiese don Mario, parroco della comunità, anche lui presenza fissa alle feste della Kobielsky.
   - Sì, ho detto “venerano”, perché? -, chiese il Chiarelli.
   - Quindi questi elfi non credono in Dio Nostro Signore, Entità suprema, Creatore Unico che risiede nell’alto dei cieli e decide della nostra eterna sorte, a seconda di come ci comportiamo quaggiù. Alla maniera dei pagani, conferiscono agli elementi terreni una spiritualità errata, fuorviante, mi sembra di capire. Insomma, gli elfi non sono cattolici!
   - Oh, no, assolutamente! -, disse Chiarelli, scuotendo il capo. – Come potrebbero esserlo? Sono creature appartenenti al mito e alla leggenda, come ho già detto, non alla religione…
   - Uhmmm, li si potrebbe sempre battezzare -, borbottò don Mario, abbassando l’occhio sull’elfo femmina che continuava a guardarsi intorno con aria pacifica.
   - Continui professore, cos’altro può dirci? -, chiese brusco, il Besta.
   - Un’altra cosa che c’è da sapere è che gli elfi possono essere amici dell’uomo come non esserlo.
   - E cioè?
   - Cioè, signor podestà, sempre secondo la leggenda, se l’uomo li rispetta, essi possono ricambiare il favore, che so, regalandogli unguenti particolari, pozioni utili ad alleviare certi malanni…
   - E se non li rispetta? -, chiese il podestà, puntando i pugni sui fianchi e  abbassando lo sguardo sull’elfo.
   - Se non li rispetta, gli elfi possono diventare assai capricciosi.
   - Ah, capricciosi!
   - Già. Possono allearsi con la natura e provocare piogge o grandini, se non lunghe siccità che minano i raccolti. Possono evocare tornado che sradicano case o nevicate che le seppelliscono. E sono in grado di organizzare piccoli incidenti domestici che finiscono col mettere un coniuge contro l’altro fino a provocare liti famigliari che degenerano in autentici parapiglia!
   - Più che capricciosi, io li definirei dei rivoltosi questi elfi, degli anarchici insurrezionalisti, degli elementi pericolosi per lo stato! – commentò il podestà.
   - Io non direi che questa creaturina sia un anarchico o un pericolo per lo stato -, mi permisi di intervenire, riportando l’attenzione del podestà e dei presenti tutti, sul piccolo elfo che continuava a guardarci con aria dubbiosa. – Guardatelo, vi fa forse paura?
   - Caro signor scrittore -, ribatté il Besta, fulminandomi con lo sguardo. – lei pensi a fare il suo lavoro, cioè a scriver di guerra senza aver mai bazzicato una trincea, che io penso a fare il mio, cioè pensare al bene e alla difesa della comunità e quindi anche suoi. Questa creaturina, come la chiama lei, stando alle parole del nostro esimio professore, è potenzialmente un pericolo. Provoca tornado. Suscita nevicate. Invoca siccità a tempo indeterminato. Tutto secondo il suo volere. Guardatelo bene questo elfo, io le leggo nello sguardo, in quegli occhioni che sbattono al pari di quelle di una meretrice, una grande falsità. Ci sta prendendo in giro tutti quanti…
   - Il nostro podestà ha ragione, a me non è piaciuta fin dal primo momento che l’ho vista! -, intervenne improvvisamente la donna che sembrava un pipistrello, la stessa che nelle benevole intenzioni della Kobielsky avrebbe dovuto essere la mia anima gemella. – E’ falsa. E poi… che razza di vestito ha indosso?
   Ciò dicendo la donna pipistrello avanzò una delle sue magre mani, simili ad artigli, per palpare il tessuto della tunica indossata dall’elfo. L’elfo male interpretò quel gesto, o forse lo interpretò correttamente, e con un piccolo schiaffetto della mano a quattro dita, abbassò gli artigli della signora.
   - Come osi schiaffeggiarmi! -, urlò la stessa, agguantando, questa volta con presa sicura, un braccino dell’elfo.
   - Ehi, calma, calma, che fate? -, disse il Chiarelli e sembrava sul punto di completare la sua spiegazione sugli elfi, forse per evidenziarne maggiormente gli aspetti positivi, quando il Besta intervenne: - Il mostro si è ribellato, lo ha appena fatto. Vedete? E’ un sedizioso, va condotto in prigione!
   L’elfo, sentendosi stretto da quelle dita secche e unghiate, scalciò e nel farlo, sollevò una zaffata di terra che finì accidentalmente sugli stivali del podestà, rovinandone la paziente lucidatura.
   Questo bastò perché il Besta lo bollasse come nemico totale.
   - Ha tentato di assaltarmi! -, urlò. – Maledetto! -, e, sfoderata da una guaina appesa al cinturone, una disciplina lunga e curva, intrecciata a più nodi, prese a menarla contro le gambe della vittima.
   A questo punto la piccola creatura era completamente smarrita. Cercò di divincolarsi dalla corda che gli teneva legato un braccio senza successo. Intanto la gente che gli stava intorno prese chi a punzecchiarla, chi a menargli dei piccoli calci che diventavano sempre più decisi, chi dei timidi schiaffi che si facevano sempre più prepotenti, chi a gettargli contro dei sassi.
   Io e il Chiarelli tentavamo di sedare la zuffa, senza successo.
   In breve l’elfo divenne il centro della crudeltà altrui. Una crudeltà che, colpo dopo colpo andava sempre più degenerando in una smania assassina. Fu la donna pipistrello, credo, a dare il colpo di grazia. Sganciata una spilla lunga e acuminata come un pugnale dal suo abito spaventevole, la brandì e l’avanzò contro l'essere del boschi, cogliendolo al petto. In altre parole, infilzandolo a morte.
   I festanti, forse aizzati da quel corpo bianco e indifeso e ora senza più vita, continuarono a infierire. Ciascuno volle portarsene via un pezzetto, come un cimelio di quella festa trasformatasi in una battaglia mitologica tra gli esseri umani e le temibili creature del bosco.
   A quanto ne so, la donna pipistrello si prese la tunica che gli pareva d’un candore senza uguali; si dice che la usasse nei suoi incontri privati con il podestà, di cui in seguito divenne l’amante.
   La baronessina de Bernardi, si vocifera che lemme lemme, abbia tagliuzzato con una forbice alcune ciocche della bianca capigliatura.
   Il pittore Giordani, invece, versò qualche goccia di sangue di elfo in una provetta, trovandolo di un rosso sfavillante come non ne aveva mai intinti col pennello.
   L’atto più esecrabile, però, lo commise proprio la Kobielsky.
   Al termine della festa, la leggenda vuole che la signora avesse comandato al cuoco personale di raccogliere quanto rimaneva della piccola elfa, per cuocerla e servirlo in tavola come sformato. E che abbia trovato tale sformato diabolicamente gustoso. 

  
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