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Autore: avril1113    18/09/2012    0 recensioni
L'ultima cosa che Chiara si aspettava di ricevere era l'invito al matrimonio di sua sorella.
Il più temuto.Così Chiara deve tornare a casa e affrontare tutto quello che anni prima l'aveva costretta alla fuga;compreso un fratellastro insopportabile,una famiglia senza pudore e sopratutto tutta una serie di amori impossibili e incofessati che tornano nella vita di Chiara a ricordarle che la verità libera e che gli amori impossibili sono quelli che durano per sempre...giusto?
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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chiara 1

Brucio, come carta vecchia.

Avvolta nel suo fumo, ne divento un’estensione, senza peso, nessuna ribellione.

Non c’è motivo che io rimanga, ma non mi muovo, rimango fra le mie dita a farmi consumare.

Divento piccola, brucio, all’interno, fra i margini frastagliati del mio corpo, mi ripiego su me stessa come un fiore appassito, petalo per petalo, sono cenere.

Buttata in mezzo al mondo.

 

E’ l’ultima sigaretta lo giuro.

La seconda e ultima sigaretta della mia vita.

 

La prima sigaretta è stata una miccia di ribellione, fumata di nascosto dietro alla palestra della scuola.

E’ stata quella prima fragile speranza dal cuore di tabacco a portarmi qui, dove la seconda sigaretta della mia vita incenerisce fra i ricordi e fra le mie dita affusolate e si porta via di nuovo come la prima tutta la speranza;esattamente sette anni dopo.

 

In un anno può succedere di tutto, in sette anni io sono morta e resuscitata.

Come un gatto sono sopravvissuta per sette volte.

Ora devo cercare di sopravvivere per un’ultima volta perché non ho altre chance, devo cercare di tenermela stretta quest’ultima vita o più che altro imparare a starci bene dentro.

Mi è rimasta solo questa.

 

Ho iniziato a vedere la vita come un gioco a livelli quando avevo diciassette anni e frequentavo il liceo.

Quando grazie a Dio il liceo è finito, mi sono resa conto a mio malgrado che la mia vita continuava a essere un’alternarsi di ostacoli da superare e livelli da completare.

Nell’estate della mia maturità, l’estate più torrida che io ricordi ho capito che, non la mia in particolare, ma la vita in generale è un gioco a livelli.

I miei esami andarono di merda ma alla mia migliore amica Emma andò peggio.

In quell’estate maledetta perse sua madre, per una terribile malattia.

Mentre le stavo vicino, capì per la prima volta di non essere la protagonista della mia vita ma solo un semplice figurante, una pedina forse.

E mi andava bene così.

Mi dimenticai di me e passai l’estate a prendermi cura di Emma e della sua famiglia recisa, a spiegare i suoi silenzi a chi non li capiva, a sentirmi utile, viva.

 

 

Esattamente sette anni dopo, l’invito al matrimonio di mia sorella arrivò in un autunno ancora caldo e rosso come una fiamma.

L’elegante e smaltata grafica del biglietto ripiegato con cura all’interno di una busta glicine non lasciava dubbi ma io ci misi almeno un minuto per capire ed elaborare che era chiaramente un raffinato invito a un matrimonio.

Il primo della mia vita.

Il più temuto.

 

Non vedevo mia sorella da due anni ma da quell’invito sapevo che si stava per sposare e che inaspettatamente voleva che fossi lì con lei.

Nessuna telefonata in due lunghi anni, neanche un sms per augurarci buon Natale o buon compleanno e ora m’invitava al suo matrimonio.

Attesi per un lungo istante, che mi sembrò eterno che quel cartoncino color carta da zucchero si sbriciolasse fra le mie mani, ma rimase lì fiero e consapevolmente inatteso ad aspettare una mia reazione.

 

Ma io e la reazione siamo agli antipodi, come il sole e la luna condividiamo il tempo e lo spazio ma non entriamo mai in collisione.

Ci scansiamo a vicenda.

Così la mia reazione fu nulla, quel biglietto finì sotterrato dal disordine del mio appartamento così come la sua comparsa nella mia vita già abbastanza tragica.

Una settimana fa mentre il rosso si stemperava, ritornò a galla.

 

 

Quell’invito fu solo l’inizio di quella che si potrebbe definire un’anabasi: una spedizione verso l’interno, l’interno di me stessa, della vita che avevo scelto, di ciò che temevo di più o al contrario di ciò desideravo ardentemente.

Una notte quando il silenzio del sonno era pericolosamente minacciato da una festa nell’appartamento accanto al mio, avevo ripensato a mia sorella e all’invito al suo matrimonio.

Parteciparvi non significava solo lanciarsi senza paracadute nel nostro rapporto problematico ma anche tornare nella città in cui ero nata e vissuta sino ai miei vent’anni:Bari.

Provai a immaginarmi di nuovo a casa ma sono un’abitudinaria, una che si culla nelle consuetudini e certezze quotidiane, e il mio letto sicuro ora era lontano anni luce dal posto in cui ero nata, solo il pensiero di ritrovarmi catapultata nella mia vecchia vita mi lasciava inquieta e nervosa.

Quella notte dormii pochissimo e così quella successiva e l’altra ancora.

Intanto il mio capo mi aveva dato le ferie che avevo chiesto da almeno un anno e che ora sembravano spuntare fatalmente.

Il destino a volte fa dei giri immensi per farci ritrovare esattamente dove dovremmo essere e così il mio destino specialmente nelle notti insonni mi convinse che quello che dovevo fare era scritto da qualche parte nell’astro e che qualsiasi cosa avessi fatto per sfuggirlo, sarebbe stato inutile. Era scritto.

 

Così l’invito ricomparse, un po’ impolverato ma sempre carico di aspettative e di timori.

Una mattina, nel dormiveglia dei risvegli sognai mia sorella vestita di bianco che attraversava la navata e ad aspettarla non c’era lo sconosciuto dell’invito ma c’ero io, in smoking.

Mi svegliai di soprassalto e capì che dovevo affrontare quel maledetto matrimonio.

 

Quando la voce metallica annunciò l’apertura del check-in per il mio volo, fui costretta senza neanche troppa disperazione a buttare la sigaretta che tenevo goffamente tra le mie mani e a spostarmi dalla sala fumatori al gate di partenza, trascinando con me il bagaglio a mano che già consideravo di aver riempito troppo.

Emma mi aveva costretto a portare tante cose inutili cui avrei fatto volentieri a meno ma che lei considerava fondamentali, come un barattolo di una crema costosissima al mango e aloe o la piastra da viaggio con annessi diversi beccucci per le varie acconciature.

Ripensandoci non riuscii a non sorridere considerando che ero allergica al mango e che i miei capelli in sostanza potevano essere o lisci come spaghetti o gonfi come quelli di Mafalda, nessuna piastra avrebbe potuto cambiare le cose.

Passata indenne il controllo, raggiunsi la navetta per l’aereo conquistando un posto seduta, che un secondo dopo cedetti a una donna incinta alle prese con un marito incompetente e un bambino capriccioso.

Un’anziana mi sorrise per il gesto, accanto a lei un ragazzo mi squadrò per un secondo per poi tornare a maneggiare con il suo blackberry.

Il volo fu abbastanza tranquillo nonostante qualche attacco isterico del bambino capriccio e le lamentele di un cinquantenne riguardo la mancata presenza a bordo della sua marca preferita di biscotti secchi.

Il ragazzo del blackbarry che sedeva qualche fila avanti a me, si alzò una volta per andare il bagno, un’altra per chiedere a una hostess una penna.

La seconda volta che si alzò intravidi nella tasca dei suoi jeans un taccuino arrotolato e il mio animo d’investigatrice si stupì che uno che si porta dietro un taccuino non si porti dietro anche una penna.

Conclusi che forse cercava solo una scusa per attaccare bottone con l’avvenente hostess.

Dio solo sa quello che gli uomini possono inventarsi per approcciarsi al genere femminile! Io avevo sperimentato sulla mia pelle gli approcci più incredibili e inconcludenti, a volte persino inquietanti.

Emma mi diceva che ero una specie di calamita per un certo tipo di uomini.

Io semplicemente ero convinta di non essere brava con i rifiuti.

Nella mia vita non avevo mai detto no ad un uomo e i miei uomini per qualche strana proprietà transitiva non riuscivano a dire di no alle altre donne, divertente no?

L’atterraggio un po’ brusco mi riportò letteralmente con i piedi per terra.

Scesi dall’aereo e rimasi avvolta per un secondo da un tepore che non mi aspettavo, sembrava che lì l’estate non se ne fosse mai andata.

Mi liberai del trench che appallottolai nella borsa e raggiunsi correndo la navetta.

Questa volta nessuna famigliola in difficoltà mi tolse il posto seduta.

Ero distrutta, in fondo il volo era durato solo un paio di ore, ma solo l’idea di essere tornata a casa mi faceva sentire psicologicamente e fisicamente una pezza.

Davanti al nastro in attesa del bagaglio mi sentivo quasi sotto ipnosi e speravo con tutta me stessa che mi avessero perso il bagaglio, avrei avuto una scusa per ritornarmene a Milano,al grigio rassicurante dei suoi palazzi e del suo cielo.

Un fischio mi distolse dai pensieri e il nastro incominciò a muoversi e a sputare i bagagli.

Mi guardai intorno, fui contenta che l’insopportabile famigliola fosse stata la prima a ritirare i propri bagagli, quel bambino stava iniziando a darmi sui nervi.

Così come fui felicissima nel vedere che il ragazzo con il blackberry si fosse volatilizzato, per tutto il tratto dall’aereo al ritiro bagaglio, infatti, non aveva fatto altro che guardarmi il sedere, sentivo i suoi occhi puntati addosso, e la nuca formicolarmi.

Riconobbi il mio bagaglio color cachi con qualche sfumatura fucsia che spiccava sempre su tutti, era stata Emma a regalarmelo proprio per questo.

-Così Chiara nonostante la tua sfiga, è sicuro che questo non la scambi con nessuno- aveva detto un anno prima, trascinandolo nel mio salotto tutto impachettato.

 

Uscii dall’aeroporto e ancora una volta mi sorprese un caldo inaspettato, un taxi sembrava aspettare proprio me e lo presi al volo.

Il tassista sistemava i miei bagagli quando vidi nel bagagliaio aperto di una macchina dall’altra parte della strada, un trolley identico al mio e un lampo mi attraversò la mente e divenne di disperazione quando vidi sbucare dalla valigia che avevo caricato in macchina una cravatta. Non mia chiaramente.  Cazzo.

 

 

-Segua quella macchina- Scossi la testa incredula di aver appena pronunciato la frase più banale mai stata scritta per la sceneggiatura di un film d’azione.

Eppure ero proprio io a urlare nell’orecchio di un burbero tassista di sbrigarsi e inseguire una macchina qualsiasi nel traffico della tangenziale,all’ora di punta.

Cercai sulla valigia che avevo qualche indizio che m’indicasse di chi fosse ma la volpe che aveva preso la mia valigia era più furba di quanto pensassi e non aveva lasciato nessuna traccia della sua esistenza nel mondo. Doppio cazzo.

Se avessi perso la macchina avrei detto addio alla mia valigia.

 

E mentre quella rivelazione lampeggiava nella mia testa come l’insegna di un casinò a Las Vegas,  il taxi scivolò sulla strada ,il tassista scosse la testa e pronunciò le fatidiche parole –l’abbiamo persa- seguite subito dopo da un mio lapidario –adieu-

 

 

  
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