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Autore: Pichichi    18/09/2012    3 recensioni
La prima cosa che Alice Maas faceva ogni mattina, dopo essersi alzata e aver spalmato il gel idratante sulle guance e sulla fronte, era pensare ad un nuovo modo per uccidere suo padre. Questo, naturalmente, prima che accadesse tutto quello.
Genere: Dark | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Nonsense | Avvertimenti: nessuno
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L’ULTIMA SETTIMANA DI ALICE MAAS

 

 

La prima cosa che Alice Maas faceva ogni mattina, dopo essersi alzata e aver spalmato il gel idratante sulle guance e sulla fronte, era pensare ad un nuovo modo per uccidere suo padre. Questo, naturalmente, prima che accadesse tutto quello. Ci pensava nell’arco di tempo fra le otto e il mezzogiorno – il periodo in cui restava a casa assieme a lui – affinando mano a mano la tecnica e aggiungendo dettagli su dettagli; dopo qualche settimana di rodaggio aveva già ideato ben sei modi differenti per commettere il delitto, uno per ogni giorno della settimana – eccezion fatta per la domenica, ma su questo c’era ancora da lavorare.

La cosa più straordinaria stava nel fatto che era del tutto consapevole. Le domande non la spaventavano, a stento la irretivano; anzi, quasi non vedeva l’ora di confidarsi con qualcuno.

«Come ti chiami?»

«Sono Alice Maas.»

«Dove abiti?»

«A casa mia, certo. Spesso sto in cucina.»

«Che cosa hai fatto?»

«Ho ucciso mio padre.»

«Sul serio? E quando?»

«Oh, uno di questi giorni.»

«Ma perché?»

Si scoprì che questa era la domanda che Alice Maas detestava più di tutte; ogni volta che si cominciava ad indagare riguardo le motivazioni tentennava, ammutoliva, si mordeva le labbra.

«Non ti interessa mica il come?»

«Il perché, Alice, il perché. Perché l’hai ucciso?»

«Non lo so.»

«Stai dicendo una bugia.»

«No, sul serio.»

Date le reticenze e le continue domande dell’interlocutore, Alice giunse ad un compromesso.

«Va bene, ti racconto com’è andata. Che giorno è oggi?»

«Sabato.»

«Ah, è uno dei miei preferiti! Be’, sta’ a sentire. Il sabato sera, di solito, esco con le mie amiche. Devi sapere che ho una minigonna che mi piace tantissimo e che metto quasi sempre, quando devo uscire; be’, ho anche delle belle scarpe, devo dire. Mi piace molto la mia mise della sera.»

Avendo intuito il calo dell’attenzione si affrettò a riportare il discorso sui binari giusti.

«Prima di uscire passo a dare la buonanotte a mamma e indirettamente anche a lui. Mamma mi dice di aspettare un attimo, va a prendere un po’ d’acqua benedetta; è un po’ fanatica per queste cose. Restiamo soli. Io non dico una parola e lui fa altrettanto. Siamo in camera da letto e non parliamo, aspettiamo mamma. Passa il tempo e non sono tranquilla: sento qualcosa addosso, qualcosa di strano. Do un’occhiata veloce e lo colgo proprio mentre mi sta guardando le gambe, da sopra a sotto, da sotto a sopra. Una volta, va bene. Distolgo lo sguardo, reprimo il disgusto, ma sento che mi fissa ancora. Una volta, due volte, tre volte; comincio ad incazzarmi, ma non dico nulla.»

Sembrò che l’aver provocato un diffuso disagio sul viso del suo ascoltatore la rendesse compiaciuta, orgogliosa.

«Mi guarda le gambe, sì, proprio come un vecchio maiale. Fino ad allora niente, torna mamma, mi fa il segno della croce e via.»

«Non hai fatto nient’altro?»

«Quando sono tornata a casa dormivano tutti e due. Nella camera da letto mia madre dorme rivolta all’armadio, lui verso la porta, così la lampada del corridoio gli illumina la faccia. Io mi avvicino, lo guardo: dorme su un fianco, le braccia conserte, rigido come un tronco; fa pure un po’ ridere e quasi me ne tornerei a letto. Ah, ho dimenticato: quando sono entrata in casa mi sono tolta le scarpe, per non fare rumore, e le tengo in mano, così.»

Mimò il gesto, fingendo di avere qualcosa appeso alle dita. Le capitava spesso di  muovere le mani, non si preoccupava di apparire agitata.

«Devi sapere che quando mio padre si arrabbia e urla c’è una vena del collo che gli si gonfia in modo schifoso; ha un collo bello grosso mio padre, sembra un toro, e quando s’arrabbia diventa tutto rosso e questa vena pulsa in modo incredibile. Fa senso, non la si può guardare. Io non la posso guardare, almeno. Fatto sta che me ne ricordo e gli tasto la guancia; sento l’osso della mandibola e vado più giù, sul collo. Lui continua a russare. Le dita affondano nella pelle, la carne è morbida. Un collo non è una parte molto resistente, un collo è cedevole, sensibile, molle. Un collo è tenero, si apre subito. Sai cosa si dice, che i medici sono tutti dei macellai?»

A quelle uscite l’uomo aggrottò le sopracciglia, fissandola con perplessità. Non aveva ancora capito se fosse il caso di spaventarsi o trattarla ancora con diffidenza, dunque preferì lasciarla continuare.

«Sì, lo so.»

«Secondo me è una cosa vera. Forse i primi medici sono stati dei macellai; hanno imparato prima ad aprire gli animali e poi gli uomini. Quando si deve prendere la carne del maiale lo si porta lontano e lo si sgozza. Capisci? Gli aprono il collo. Il collo, la parte più tenera, così quello muore per il troppo sangue che viene fuori. Da un collo viene fuori veramente tanto sangue, sì.»

«Hai aperto il collo di tuo padre?»

«Ci sto arrivando. Ho in mano le scarpe, i tacchi. Nemmeno troppo alti, a dirla tutta, non mi piacciono le cose esagerate.»

«Non ti piacciono le cose esagerate» ripeté l’altro. Sembrava un dettaglio importante.

Sapeva che stava per arrivare il momento di maggior pathos, così si zittì e fissò per bene Alice, tentando di cogliere qualche particolare sfumatura espressiva nel volto. Ma giunta a quel punto la ragazza non proseguì; sembrò che avesse perso il filo del discorso. Lui aspettò pazientemente che continuasse il racconto, ma si accorse che la ragazza si era d’improvviso rannuvolata. Scelse di venirle incontro.

«Allora, cos’è successo poi?»

Alice alzò la testa verso di lui, riavendosi dal momento di stasi; negò col capo più volte e mosse convulsamente le mani.

«Che giorno è oggi?»

«Ma te l’ho detto prima.»

«Che giorno è oggi?»

Quello era il punto del colloquio in cui l’uomo seduto di fronte a lei si spaventava, notando che nel suo sguardo c’era qualcosa che non andava. Doveva essere accaduto qualcosa d’importante in quei minuti di silenzio.

«Oggi ho ucciso mio padre» pronunciando quelle parole, Alice sembrava riprendere la padronanza di sé.

«Dove?»

«In cucina.»

«Come?»

Il momento di tensione passò e il volto della ragazza si distese; era più tranquilla e riprese a raccontare.

«Mi piace molto cucinare» esordì, «lo faccio molto volentieri e mi diverte, mi rilassa.»

«A mio padre piace leggere i giornali» aggiunse, come se stesse prendendo il tè con le amiche. «Leggere i giornali e stare seduto sulla poltrona. Noi in cucina abbiamo una poltrona, è vecchia, la tappezzeria si scuce in qualche punto, però resiste.»

Alice fece un respiro, prima di ricominciare a parlare con sicurezza e decisione.

«Mi piace cucinare, ma di solito il martedì mio padre ha la mattina libera, così sta a casa a dormire fino a tardi, poi si sveglia, esce e si siede sulla poltrona, in cucina, a leggere i giornali. Ne legge almeno tre al giorno. Io sono lì che cucino, gli do le spalle, mi faccio i fatti miei. Devi sapere che mio padre è un goloso: non riesce a resistere quando si tratta di mangiare. Allora comincia con le domande: è pronto? Che pasta metti? Cosa mangiamo per secondo? Io rispondo brevemente, sono seccata, non mi piace che si impicci delle mie cose. Non sopporto che si intrometta.»

«Tuo padre soffre di qualche malattia?»

Alice lo guardò rabbuiata. Non doveva esserle piaciuta quell’interruzione.

«No. Ad ogni modo, sono lì che cucino e ad un tratto lo sento alzarsi, va verso i tiretti e tira fuori il pane; se ne taglia una fetta e, oltre a intralciarmi, ci spalma sopra il formaggio, poi torna a sedersi e mangia. Deve sapere che mio padre mangia utilizzando tutti i muscoli della mandibola, masticando in modo vistoso e riempendosi la bocca quasi ad ingozzarsi. Odio quel rumore, non lo sopporto, lo vedo mangiare e mi verrebbe voglia di…»

«Di?»

Alice si fermò un momento, poi riprese a raccontare senza dar peso alla sua domanda.

«Preparo la tavola e noto che ha finito di leggere; mi rimane da scolare la pasta, condirla e servirla nei piatti. Lui non dice nulla, ma sento che mi guarda.»

«Di nuovo?»

«Sì. Sento quei piccoli occhi azzurri sulla schiena, sento che si sta chiedendo perché ci stia mettendo così tanto, quanto mi ci vuole a servire il primo, posso pure immaginare quanta voglia abbia di affondare la faccia nel piatto e mangiare, mangiare, mangiare. A un tratto si alza. Mi chiede: hai bisogno di aiuto? Io gli rispondo di no, ho le labbra talmente strette che non so come abbia fatto a parlare. Sento le mani che mi tremano mentre prendo la pentola e la porto verso il lavandino, mi tremano di rabbia: lui se ne sta lì, dietro di me, lo vedo afferrare la pentola col sugo e darci un’occhiata e io penso a quelle mani grandi, scure…»

S’interruppe di colpo, proprio quando ci si aspetterebbe una sinistra conclusione.

«Sai quanto è sottile una palpebra?»

«Molto, direi.»

«Moltissimo. Basta un niente per ferirla, anche un colpo di vento. Una volta mi sono scottata, sai? Non era molto grave, ma mi è comunque rimasto un bel segno scuro. La pelle si è raggrinzita, ci è voluto un po’ perché tornasse normale, e mi ero scottata solo di striscio.»

«Lui mi domanda se ho messo il sale nella pasta, se ho controllato il grado di cottura» aggiunse, «mentre io ho fra le mani la pentola e sto per rovesciare tutto nello scolapasta. La tengo sospesa, aspetto. Lui domanda: che cosa stai facendo? Mi sta dietro, lo sento sovrastarmi. Stringo le maniglie della pentola, sono caldissime. Mi giro.»

A quel punto era d’obbligo una pausa; non riusciva più a continuare il racconto in maniera ordinata.

«Com’è che ti chiami?» domandò all’uomo che le stava davanti, pendente dalle sue labbra.

«Mattia» rispose lui.

«Mattia. Sai, non è che ci sia bisogno per forza di un coltello per ammazzare qualcuno.»

«Lo so, lo so.»

Mattia riconobbe il silenzio piombato nella stanza come simile a quello precedente; la ragazza non sarebbe andata oltre da sola, c’era bisogno di darle una spintarella.

«Allora?»

Alice non raccoglieva mai quegli inviti a proseguire la conversazione. Schioccò le labbra come se morisse dalla voglia di andare avanti, di continuare, ma ci fosse qualcosa ad impedirle di proseguire; qualcosa come un ostacolo, probabilmente. Mattia si accorgeva subito che qualche cosa non andava quando la vedeva mutare comportamento: nelle sequenze narrative più lunghe se ne stava composta sullo sgabello, le mani ad afferrare i bordi, la voce calma e tranquilla; era padrona di sé, controllava perfettamente il racconto e l’effetto che produceva sull’ascoltatore. Arrivava però un certo punto oltre il quale non riusciva ad andare; allora liberava le mani e cominciava ad muoverle in maniera nervosa.

«Hai lanciato l’acqua bollente in faccia a tuo padre?»

«No, no, mi sono sbagliata! Oggi è giovedì, ecco, mi sono sbagliata. Scusami, ho sbagliato…»

Mattia non la contraddisse, ma osservò la ragazza riprendere il controllo della conversazione, l’aria delusa. Lei domandò spiegazioni per quello sguardo.

«Mi stai dicendo delle bugie» disse lui.

«No, non è vero!»

«Sì, stai mentendo fin dall’inizio.»

Avrebbe voluto continuare ancora per mostrarle tutte le incongruenze in cui era incappata fin dal momento in cui aveva iniziato a parlare, ma a quel punto Alice scattò in piedi e lo fissò con rabbia. Il gesto improvviso lo spaventò, tanto che indietreggiò e per poco non cadde dallo sgabello.

«Non è vero che sono una bugiarda!» gridò Alice, le braccia rigide lungo i fianchi. «Se non credi a quello che ti ho raccontato puoi anche andare a controllare! Io l’ho ammazzato, io ho ucciso mio padre e l’ho fatto tutto da sola, e sai com’è successo?»

Alice fece una pausa e prese un respiro, curandosi di non diminuire per questo la portata del suo sfogo.

«Sai cos’è successo? Era venerdì sera, io e lui ci stavamo preparando per andare a dormire; mi sono infilata il pigiama e sono andata verso il bagno per lavarmi e lui era già lì, con in mano lo spazzolino, che ci passava sopra il dentifricio. Detesto dividere il bagno con lui!»

Mattia abbassò gli occhi e notò come, a furia di andare avanti, Alice stringesse sempre più i pugni e tenesse le braccia in una posizione talmente rigida da farle tremare; sembravano due stanghette di legno in procinto di spezzarsi.

«L’ho visto che cominciava a lavarsi i denti, che guardava lo specchio… non aveva una presa forte, teneva la mano quasi abbandonata, e allora sai che ho fatto? Sono andata lì vicino, gli ho stretto forte il pugno con la mia mano e gli ho ficcato lo spazzolino tutto in gola, premendo a più non posso.»

Alice s’innervosì ancora di più notando che il suo interlocutore non dava segni di meraviglia o terrore.

«Non ha avuto nemmeno il tempo di gridare, di spingermi via, l’avevo colto in un momento di debolezza, non aveva la forza di allontanarmi… si è stretto una mano sulla gola e con l’altra faceva pressione contro la mia, ma non ce la faceva più. Non ce l’ha fatta. A un tratto ha perso i sensi, mi è caduto fra le mani e per poco non si fracassava contro il rubinetto. L’ho spinto per terra. L’ho soffocato.»

Alice si risedette, mettendo su un sorriso trionfante e allo stesso tempo plastico, statico, quasi una smorfia beffarda per celare il precedente scatto di rabbia. Attese una risposta, un commento qualsiasi. Mattia aspettò qualche secondo, poi affermò:

«Questo non può essere vero.»

Vide gli occhi della ragazza sgranarsi e la smorfia divenire un’espressione sorpresa.

«Perché no? Cosa ne sai?»

«Non può essere vero, non può.»

«Ma perché?»

Mattia tentennò un po’, poi riprese a parlare.

«Allora dov’era tua madre?»

«Cosa?»

«Sì, tua madre. Dov’era mentre tu l’ammazzavi? Non si è accorta di nulla?»

«Mia madre?»

Alice strinse le palpebre, perplessa.

«Mia madre se n’è andata un po’ di tempo fa. Cosa stai dicendo?»

Mattia a quel punto non poté proprio trattenersi.

«Ma allora che cosa dicevi prima, all’inizio? Prima l’hai menzionata.»

Sulle prime Alice si limitò ad ammutolire, schiacciata dall’evidenza di quella prova. Spostò gli occhi dal ragazzo al pavimento e cominciò a stringere le labbra finché non si ridussero ad una fessura. Mattia notò che le sue mani avevano ripreso a tremare e stavano stringendo i bordi dello sgabello.

«Lo sai perché non può essere vero?» domandò Alice, alzando lo sguardo su di lui. «Perché ci sei tu. Perché sto parlando con te. Ecco perché non può essere vero.»

Sembrava furiosa e Mattia provò un brivido di paura; era quasi pronto ad alzare le mani per difendersi da un’eventuale sfuriata e la stessa Alice era sul punto di saltargli addosso, quando entrambi furono distratti dal suono lento di una campana, ripetuto per due volte, prima a distanza ravvicinata e poi con un’ampiezza maggiore.

Entrambi tacquero per ascoltare i rintocchi e non dissero più nulla finché anche l’ultimo di questi non si spense nell’aria. Alice fu la prima a parlare.

«Li senti? Dev’essere morto qualcuno.»

«Inquietanti, vero? A me danno un po’ i brividi» aggiunse.

Mattia la guardava fissamente, tanto che dopo un po’ lei gli domandò il motivo; lui non rispose.

«Che hai ora? Perché non parli più?»

Lo spavento che si prese la ragazza fu proporzionale alla forza con cui la porta della sua stanza si aprì. Entrò un uomo dalla camicia sbottonata e le ciabatte consumate, l’aria preoccupata.

«Con chi stavi parlando?»

«Io? Con nessuno.»

Suo padre non le domandò per quale motivo stesse seduta su uno sgabello al centro della stanza e non insistette riguardo la provenienza della voce che aveva udito fino a poco prima.

«Perché hai spalancato la porta? Non c’era bisogno di entrare con tanta violenza» disse lei.

«Non ho spalancato la porta, Alice» obiettò lui, l’aria ancora più preoccupata.

«Sì che l’hai spalancata. Mi hai fatto prendere un colpo.»

«No, non l’ho fatto. L’ho semplicemente aperta.»

Alice Maas spostò lo sguardo dal volto del padre alla mano che questi teneva ancora ferma sulla maniglia; la porta era aperta solo per metà e la ragazza non trovò nulla da ribattere. Quando suo padre fece per uscire si accorse che Mattia era svanito nel nulla.

«Che giorno è oggi?» domandò al padre.

«È domenica, tesoro.»

 

La parte più difficile, alla fine di tutto, fu stabilire quale fosse stato l’attimo di maggior lucidità, ovvero in che momento ed in quale misura Alice Maas fosse stata cosciente di quel che stava facendo. Nemmeno la ricostruzione dei fatti fu semplice, data la scarsità di testimoni e lo stato esagitato in cui si trovava il padre della ragazza. Ad ogni modo, le versioni raccolte iniziavano più o meno nello stesso modo.

La domenica il padre di Alice Maas non lavorava e solitamente restava seduto sul divano, nel primo pomeriggio, a guardare la giornata di campionato in ciabatte e vestaglia. Tutti erano concordi nell’affermare che fra le dieci della mattina – quando l’uomo aveva sbirciato nella stanza della figlia, da cui assicurava provenissero delle voci – e le nove e un quarto di sera Alice e suo padre non avessero avuto alcun contatto; fin qui non c’era niente di strano, la ragazza preferiva passare la maggior parte del tempo in camera sua. A quanto pareva, tutto era iniziato quando Alice aveva sentito il bisogno di scendere in salotto e accendere la televisione, pensando che a quell’ora suo padre fosse uscito per andare al circolo a bere birra con i suoi amici.

«Suo padre beveva spesso?» le avevano domandato.

«No. Non so, non saprei dirle.»

Poiché alle domande che le furono poste in seguito Alice fornì risposte contraddittorie, la sua testimonianza non ebbe molto credito; si pensò che avesse avuto una crisi di nervi e non ricordasse molto bene quello che era accaduto. Quando suo padre si fu calmato e fu in grado di ripercorrere gli eventi della serata, raccontò di aver effettivamente afferrato il soprabito e di aver avuto l’intenzione di uscire di casa, ma di essere stato trattenuto all’ultimo momento da una certa morsa all’altezza del petto, per cui era tornato a sedersi al tavolo della cucina.

«Come mai aveva tutto quell’alcool in casa?»

Louis, il padre, provò a ridimensionare la cosa, parlò di certe feste che organizzava con i suoi amici e sostenne che le bottiglie che erano state trovate facessero parte della scorta; non aveva certo intenzione di scolarsele tutte in una volta. La sua testimonianza fu trattata con parecchia diffidenza e si sospettò che ci fosse dell’altro sotto tutta quella faccenda, ma poiché era l’unico testimone oculare della prima parte dei fatti le sue parole furono prese per buone.

«Come mai non è più uscito di casa? Non si sentiva bene?»

«In un certo senso… non è che avessi molta voglia di starmene a casa tutto solo, sapevo di dovermi distrarre e ho preso il primo bicchiere.»

«Avevate già cenato?»

«Sì.»

«Allora aveva rivisto sua figlia, prima delle nove e trenta?»

«No. Ceniamo separatamente. Lei fa presto, io avevo appena terminato e non sapevo decidermi fra l’uscire e il rimanere a casa.»

«Allora perché è rimasto?»

Louis spiegò che tutto era dipeso dal fatto che quella sera si era lasciato prendere dalla debolezza; debolezza di cuore, asseriva. Raccontò di aver sentito, ad un certo punto, dei passi provenienti dal corridoio e di essersi trovato davanti la figlia.

«Si ricorda qualcosa di particolare?»

«No, nulla. Niente di niente. Sembrava normalissima.»

Louis ci pensò un momento, poi aggiunse:

«Non è che l’abbia guardata per bene. Cercavo piuttosto di nascondermi.»

«Nascondersi? Perché?»

Alice Maas affermava di essere scesa in cucina, attirata da alcuni lamenti, e di aver trovato il padre che, la testa raccolta fra le mani, singhiozzava. Ricordava anche una bottiglia ed un bicchiere posati sul tavolo, ma non era in grado di riferire se fossero stati pieni o vuoti.

«Papà, stai piangendo?» aveva domandato, avvicinandosi.

Louis spiegò che nel sentire la voce della figlia si era premuto ancor di più le mani sul volto e aveva compiuto un gesto brusco per intimarle di allontanarsi.

«Sua figlia si è avvicinata?»

«No.»

«Se n’è andata via?»

«No. È rimasta lì, sulla soglia.»

Di questo Louis era sicuro. Aveva intravisto Alice restare lì a fissarlo senza dire una parola e lui, forse umiliato dalla sua presenza, aveva avuto un nuovo attacco di singhiozzi, più violenti di quelli di prima. Quando Alice si era avvicinata al tavolo stava ormai piangendo a dirotto. Gli aveva domandato perché fosse in quello stato e lui, una volta compreso di non poter più negare l’evidenza, aveva risposto:

«Non è niente, è il vino. È il vino.»

Nel frattempo continuava a piangere e lei, non convinta dalla spiegazione, aveva insistito; gli aveva domandato se avesse qualcosa a che fare con la mamma. Alice disse di aver capito subito che suo padre stava piangendo per via della mamma; non era un mistero, non era passato troppo tempo dalla sua morte ed in fondo mancava un po’ anche a lei, sebbene non così tanto da scoppiare in lacrime di punto in bianco. Insistette con dovizia di particolari sul fatto che il padre le fosse apparso molto scosso.

«Non l’avevo mai visto piangere così, sembrava inarrestabile e tremava tutto. Parlava a scatti e non lo si capiva bene, parlava della mamma e al contempo mischiava i suoi ricordi con quelli vissuti con Magda.»

«Chi è Magda?»

«Una con cui si vedeva. Sì, ma non era una cosa seria. Lui non voleva vedere più nessuno; anzi, credo che stesse ancora più male per quello. Continuava a parlare e piangeva sempre più e io ho pensato che fosse una cosa davvero patetica. Davvero, davvero patetica.»

«Perché patetica?»

«Come perché?» Alice Maas aveva concesso, a quel punto dell’interrogatorio, il primo sorriso. «Ha mai visto un uomo piangere? Dico, piangere sul serio?»

«Non c’era nulla di male, però.»

«Mi sono quasi vergognata.»

«Non sei andata a consolarlo?»

«No. L’ho guardato e ho aspettato che la smettesse.»

Il racconto di Louis si fece sempre meno nitido, da quel momento in poi; si confondeva, cambiava idea e sembrava restio a dilungarsi sui dettagli. Disse di essere improvvisamente rinsavito e di essersi calmato, parlò di come Alice gli avesse offerto un pezzo di carta con cui asciugarsi la faccia.

«Ha cominciato a dire cose strane» rivelò la ragazza, «che la sua vita faceva schifo e non era riuscito a combinare un bel niente… che non avrebbe mai dovuto tradire sua moglie, cose così.»

«Sua figlia le ha detto qualcosa?»

Louis ad un certo punto alzò le mani e guardò il tipo che gli stava ponendo tutte quelle domande con occhi sgranati.

«Voi non dovete pensare… voi non dovete pensare chissà che, lei mi ha visto in quello stato –quanto me ne vergogno! – lei mi ha visto piangere, ero sconvolto, è stato un momento di debolezza… quanto rimpiango l’essere rimasto a casa! Lei voleva fare il mio bene, lei non poteva sopportare che piangessi! Capisce cosa significa?»

Fu molto difficile per lui proseguire. S’interrompeva, tirava dei sospiri e si prendeva la testa fra le mani; era evidente che il grosso della questione stava tutto lì e che cercava disperatamente di non rivelarlo.

«Ero ubriaco, forse, e non ricordo bene cosa è successo… che cosa mi abbia detto.»

«Che cosa le ha detto, che cosa?»

«Perché non ti ammazzi?» gli aveva domandato Alice, l’aria serissima.

Louis si era passato una mano sulla guancia.

«E come?»

Ci aveva pensato su, per poi aggiungere:

«Non ci riuscirei mai, non ne ho il coraggio.»

«Potresti bere un po’ di questo.»

Fu la stessa Alice Maas a rivelare di aver offerto al padre la confezione di insetticida e, di fronte alla sua perplessità, averne versato due dita in un bicchiere.

«Penso che potrebbe funzionare» aveva detto, «questo lo puoi fare. Fa’ finta che sia della birra.»

Louis aveva preso in mano il bicchiere, fatto roteare il liquido all’interno, e annusandolo gli era sfuggita una smorfia di disgusto. Raccontò di aver considerato seriamente quell’idea per pochi istanti, in realtà, ma non aveva voluto deludere subito sua figlia; aveva pensato che il momento di debolezza che si era concesso l’avesse fatto apparire ai suoi occhi come un perfetto idiota.

«Be’, posso provare. Ma se non funziona?»

«Funzionerà.»

Le domandarono per quale motivo fosse stata così sicura, ma Alice non rispose a quella domanda. Louis si era portato il bicchiere alle labbra e il cuore della ragazza aveva cominciato a battere più forte; era stata in segreta fibrillazione fin da quando l’aveva visto chino sul tavolo e la sua mente era stata attraversata dal pensiero che sì, quella sera ce l’avrebbe fatta, quella sera sarebbe riuscita ad andare oltre.

«Sei sicura di voler restare qui?» le aveva chiesto Louis, cominciando a preoccuparsi. «Potrebbe volerci del tempo. Avrò le convulsioni, mi metterò a sputare e vomitare… non sarà un bello spettacolo.»

«Io resto qui.»

Alice non gli avrebbe mai permesso di farla finita senza assistere personalmente, dall’inizio alla fine, alla sua dipartita. Così, quando suo padre aveva posato il bicchiere sul tavolo e aveva preso a guardarla con occhi straniti, si era irrigidita come le era capitato di fare nella sua cameretta.

«Lo devi bere. Te lo faccio bere io. Non devi avere paura.»

«Ma non voglio berlo.»

«Vuoi continuare ancora? Vuoi continuare a vivere? Sei sicuro che è questo che vuoi?»

Louis oppose le sue migliori resistenze fisiche e mentali per non rivelare anche quell’ultima parte; eppure la sua testimonianza diventava a quel punto fondamentale, poiché sua figlia, ogni volta che si giungeva a quel punto, diventava riottosa e alzava la voce contro l’inquisitore.

Aveva dunque risposto che no, non era certo quello che intendeva, non voleva continuare a vivere così, ma non capiva quale fosse il senso del togliersi la vita, che cosa avrebbe risolto; e soprattutto, perché sua figlia ne stesse parlando in quel modo.

«Deve capire che è importante stabilire che cosa è successo. È veramente sicuro che sua figlia le abbia detto così e così?»

«Così e così.»

Louis era di nuovo in lacrime, ma gli strapparono la confessione a piccole parti.

«Ha perso il controllo, completamente. Ha detto che non mi decidevo, che non mi decidevo a morire e che lei le aveva provate tutte, che non capiva per quale maledetto motivo io fossi ancora vivo, che avrei dovuto essere sepolto sottoterra da più di due settimane e che aveva anche deciso il punto preciso del giardino in cui scavare la fossa, ma che ogni volta che andava a controllare io non c’ero, non c’ero, la terra era al suo posto!»

«A quel punto ha cominciato a gridare?»

«Sì. È stato terribile. Non ci ho capito davvero più niente.»

«Non si era mai accorto di queste… stranezze?»

«No, mai. Ma forse è colpa mia, forse è stata tutta colpa mia… devo essermi lasciato sfuggire qualcosa.»

«Quand’è che ha capito che ormai non c’era più nulla da fare?»

«Quando mi ha detto dell’auto. Mi ha guardato in faccia con certi occhi, tremava tutta di rabbia, mi ha urlato addosso dicendo che non era possibile che fossi ancora lì, che avessi ricomprato la macchina. Diceva che non capiva com’era possibile, dopo l’incidente.»

«Quale incidente? A noi non ha parlato di nessun incidente.»

Louis guardava il suo interlocutore con due occhi gonfi e l’aria di chi chiede soltanto di essere lasciato in pace. Cercò di riportare soltanto l’essenziale: ricordare la sensazione che aveva provato nel sentire quelle parole bastava per provocargli le vertigini.

«Ha detto di non capire come mai fossi ancora vivo, dopo che lei aveva dirottato l’auto sull’altra corsia; diceva che eravamo in macchina insieme e lei aveva spostato il volante verso sinistra e ci eravamo schiantati contro un’altra macchina; che io ero morto sul colpo, che lei era stata in ospedale e che ora avevamo una macchina nuova.»

«A quel punto cosa ha fatto?»

«Mi sono alzato e ho indietreggiato verso il telefono. Non so nemmeno che cosa volessi fare, chi volessi chiamare. Non ho fatto in tempo a premere nessun tasto, deve aver avuto paura.»

Louis tacque per qualche secondo, poi asserì cupamente che doveva per forza essere stata colpa sua; non riusciva a spiegarselo altrimenti.

Da quel punto in poi non ci fu più bisogno di lui: il resto era possibile ricavarlo dal racconto della loro vicina di casa che, attirata da urla improvvise, aveva pensato di controllare che cosa stesse accadendo ai suoi dirimpettai. La donna raccontò di essersi fatta aprire la porta ed aver trovato il padre in uno stato di sovreccitazione tale da non consentirgli nemmeno di articolare una frase; seguendo la scia di alcuni rumori poco incoraggianti, si era inoltrata nell’appartamento e aveva trovato la figlia del suo vicino piegata sul pavimento, una mano attorno alla gola e l’altra affondata in una poltiglia giallognola. Alice Maas aveva inghiottito il bicchiere d’insetticida tutto d’un fiato non appena suo padre aveva preso in mano il cordless.

Naturalmente, nonostante tutta la buona volontà, il suo corpo aveva reagito immediatamente e la ragazza aveva sputato quasi subito la maggior parte di ciò che aveva ingerito; il bruciore era stato tale da costringerla a vomitare, ma non riportò danni gravissimi. Il veleno non aveva avuto il tempo di giungere allo stomaco in una quantità tale da risultare mortale e in seguito alla lavanda gastrica la ragazza si ritrovò un po’ scossa e deboluccia, ma fuori pericolo.

Quella scenata nella cucina fu l’ultima occasione che Louis ebbe di vedere sua figlia. Sapeva per certo che doveva essere stata portata in ospedale, ma non volle raggiungerla; qualche tempo dopo tutti quegli avvenimenti provò ad ingerire anche lui un bicchiere di veleno, forse della candeggina o del detersivo per piatti. La sua agonia fu molto più lunga di quella di sua figlia, trovò i dolori insopportabili e non ebbe la pronta assistenza di alcuna vicina, dato che la donna, dopo aver esposto la sua versione dei fatti ed essere venuta a conoscenza di tutta quanta la storia stabilì di non voler avere più niente a che fare con loro.

Per quanto riguardava Alice Maas, lo scoprire di essere sopravvissuta a tutte quegli eventi, a partire dall’incidente in auto per finire con la fuga di gas che aveva invaso l’appartamento e reso privi di coscienza sia lei che suo padre, la convinse ad ammettere finalmente di essere già bell’e morta. Non capiva molto bene quello che succedeva intorno a lei e non sapeva riconoscere il luogo in cui si trovava, ma indicava come ora del decesso le ventuno e quarantasei di una domenica autunnale. L’anno non lo ricordava mai, era passato troppo tempo, ma ne era sicura: aveva sentito anche suonare le campane che annunciavano la cerimonia funebre.





Annotazioni: non so se sono più allucinata io che l'ho scritta o la protagonista. La classificazione mi ha dato qualche problema: è abbastanza surreale, dunque ho scelto il genere Nonsense, mentre sono stata molto più titubante riguardo eventuali avvertimenti (Violenza mi pare eccessivo, Contenuti forti anche). Conto sul fatto che non mi sia dilungata molto sui dettagli più macabri.
   
 
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