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Autore: Reaper_Hel    19/09/2012    3 recensioni
In vita sua Chloe Marshall aveva avuto due interessi: la narrativa e Peter Denbrough.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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In vita sua Chloe Marshall aveva avuto due interessi: la narrativa e Peter Denbrough.
 
Sebbene la narrativa sia una branca di assai ampio respiro e in essa si possano includere passioni secanti, come scrittura e lettura, difficilmente si sentiva Chloe parlare di due distinte entità. La prima ragione era perché, di fatto, non lo erano. La seconda era che ne sarebbe emersa una questione spinosa, poiché i suoi interessi dovevano essere solamente due.
 
Chloe aveva da sempre racchiuso ogni cosa per lei rilevante nel numero due. Nel suo numero perfetto. Attribuiva un valore simbolico e magnifico al numero due. Quasi magico, si sarebbe potuto dire. Ma Chloe non credeva alla magia. Non credeva nello zodiaco, nel sesso tantrico, nei viaggi astrali, nella reincarnazione e nella Coca Cola dietetica.
 
Molti fattori sono importanti nella vita di un individuo, ma nessuno di loro è così determinante come il numero 2. Due erano stati i suoi genitori; un bambino che nasca in una famiglia di un solo genitore se lo porterà dietro per tutta la vita, come un fardello che non si può mai lasciar cadere per terra. Due erano state le sue case: la casa della madre e la casa del padre. Una in città, a Phoenix, l’altra a Washington DC. Un bambino che nasca in una famiglia che possiede una casa sola, si annoierà certamente molto. Due erano stati i suoi animali da compagnia: una tartaruga ed un inseparabile. Per quanto Chloe si era presto resa conto che le due razze fossero tra loro incompatibili, erano pur sempre due. E’ scientificamente provato che un animale, da solo, si annoia. Non lasciate soli i vostri animali da compagnia.
Due erano stati i suoi fidanzati, Fred e Joe – contemporaneamente, lo sbaglio di una ragazza alle prime armi con la complessa dualità del numero – e due erano i lavori che in questa fase della sua vita stava facendo per sbarcare il lunario.
Alla mattina lavorava allo sportello in una banca del centro, e dopo le 17 faceva consulenza per una piccola agenzia assicurativa. Consulenza finanziaria.
 
I numeri erano per Chloe qualcosa di immutabile. Di controllabile. Di fisso.
 
Ogni mattina si svegliava e si guardava allo specchio, vedendoci l’immagine riflessa di una ragazza di trentadue anni, tutto sommato pregevole, dai capelli castani e gli occhi scuri. Dopo ventidue colpi di spazzola procedeva a lavarsi i denti, e le sue gengive sanguinavano sempre.
 
Poi si metteva il suo tailleur. Sempre diverso, eppure sempre stranamente uguale al giorno prima. E dire che nella luce della boutique sembrava così originale. A questo punto prendeva una delle sue due automobili (una Ford berlina bordeaux, una Chevy decapottabile grigia) e si recava a fare colazione.
 
Il viaggio verso la tavola calda era il sempre uguale momento più bello della giornata. Non cambiava mai, ma era sempre bello.
Nella vita di un essere umano esistono pochi momenti di routine del genere. Ricordatevelo, anche se forse non servirà a niente. Capirete la loro bellezza solo quando li avrete già persi.
 
Chloe Marshall aveva un cronometro interiore insindacabile che non faceva sciopero neanche la domenica. Neanche con la febbre. Il suo orologio non era solo un ornamento sul polso, ma un ingranaggio senza il quale probabilmente il suo corpo avrebbe smesso di vivere. Il suo cuore aveva sempre scandito nient’altro che i secondi, e la sua anima aveva viaggiato a nient’altro che il ritmo delle ore.
 
Ogni giorno, alla stessa ora, Chloe arrivava al semaforo all’incrocio con la ventitréesima strada e si fermava. Ogni giorno alle ore 8:22 Peter Denbrough attraversava il passaggio pedonale, a pochi metri dal muso della sua auto, e Chloe beveva ogni singolo dettaglio di quel ragazzo che sembrava uscito dalle favole.
 
Il semaforo diventava spesso verde mentre ancora stava attraversando. A quel punto, scattava il secondo rituale: Peter alzava il braccio sinistro in direzione del mio parabrezza e mormorava una scusa che non potevo sentire da dietro i finestrini. Poi accelerava il passo e spariva dietro l’angolo.
 
Fine.
 
Ecco l’istante più bello della giornata di Chloe. Un istante da cui è divenuta dipendente; un istante sempre uguale, sempre in modo diverso. A volte capitava che una macchina si trovasse in prossimità dell’incrocio proprio alle 8:22, quando il semaforo scattava. Allora era questo avventore fortunato il ricevitore dell’attenzione di Peter Denbrough, e tante volte Chloe aveva dovuto resistere all’impulso di tamponarlo.
Alcuni giorni uno di questi individui senza schemi – un povero demente alla deriva in un mondo dove minuti e numeri (2 entità) erano strettamente necessari al successo – parcheggiava alla stessa tavola calda di Chloe e scendeva per fare colazione. Individui mai visti, mai conosciuti prima, con la macchina acquistata a Phoenix in Arizona. Di certo, non turisti.
Come si poteva essere così disorganizzati nella vita da essere costretti a cambiare improvvisamente il luogo dove fare colazione, il pasto più importante della giornata?
 
Chloe non se lo figurava in alcun modo, e la sua rabbia ribolliva con la bile. Una mattina in cui le sue gengive avevano sanguinato parecchio, in cui la sveglia era suonata con trenta secondi di ritardo e le mestruazioni la affliggevano con i crampi, uno di questi automobilisti che si affidavano al caso si era trovato tra lei e Peter Denbrough.
Quando si era fermato alla tavola calda, Chloe era scesa dalla vettura e gli aveva scritto sul cofano, con la chiave: SONO UN CANE MERDOSO.
L’atto era stato talmente soddisfacente – ma così fuori dal piano di minuti e numeri – che l’aveva spinta, quella stessa sera, ad annullare il pilates per trascorrere il tempo sul suo divano, a bere vino e a guardare Pulp Fiction. Ormai la giornata era deragliata.
Se Dio era mai esistito, pensava Chloe, probabilmente aveva inventato le auto e le strisce pedonali per consentirle di incontrare Peter Denbrough. Ma siccome probabilmente Dio era frutto di un perdigiorno senza nessuna comprensione della società moderna, solo raramente Chloe si abbandonava ad un pensiero così femmineo. Così debole.
 
Peter Denbrough era moro. A Chloe piaceva pensare che avesse l’aspetto di un anacronistico gladiatore. Di come sarebbe stato adesso un combattente da arena, se la pratica fosse ancora diffusa come un tempo. I suoi dreads erano sempre raccolti da una coda di cavallo disordinata, il suo naso era piccolo e la sua bocca sottile. Appena un accenno di barba, nei giorni vicini al weekend, ed occhi che traboccavano con l’infinita benevolenza della sua anima.
Emanava una radiazione di testosterone. Vibrava su una frequenza che faceva stringere le cosce senza accorgersene. Operava sul livello subliminale per mandare impulsi sessuali ad alto potenziale alle donne che lo incrociavano.
Tutte lo guardavano così. Chloe le odiava. Dalla vecchietta insoddisfatta alla quattordicenne insoddisfabile.
 
Nei pochi momenti di pausa che Chloe si concedeva, l’argomento dei capelli di Peter risultava sempre il predominante fra i suoi pensieri. Era forse un ribelle, o un anticonformista conformato? Un vegano salutista o un tossicodipendente?
Nei suoi sogni più sfrenati Peter Denbrough era un gigolò, e tutte le sere lei lo aspettava davanti al semaforo rosso, gli allungava cento dollari e nelle due ore successive – dualità di minuti e numeri, minuti e denaro, denaro e piacere – lo aveva regolarmente acquistato per servirsene nei modi più impensabili.
Nei pensieri inespressi, invece, un brutto giorno Peter Denbrough avrebbe sollevato gli occhi oltre il parabrezza, avrebbe guardato Chloe dritto negli occhi ed avrebbe fatto una smorfia disgustata, riconoscendo in lei l’omologazione da cui i suoi capelli tentavano pateticamente di distaccarsi.
 
La questione che Chloe, nonostante questi fugaci incontri e scoppi d’amore, non conoscesse il nome del pedone delle meraviglie, era stato oggetto di un mucchio di preparativi
Non era stato facile.
O meglio. Non era stato discreto.
 
Una domenica mattina alle ore 8:02 Chloe aveva accostato l’automobile al marciapiede in prossimità delle strisce pedonali, aveva sorseggiato un caffè macchiato ed aveva atteso.
 
Alle ore 8:21:44 Peter usciva dal cortile di un villino con lo steccato bianco, mentre il semaforo per i pedoni diventava verde. Alle ore 8:22:25 raggiungeva il passaggio pedonale ed alle ore 8:22:26 il semaforo era già arancione. Allora lui, a metà strada, sollevava il braccio per somministrare quella sua calda medicina di scuse e raggiungeva l’altro lato. Poi spariva dietro l’angolo.
 
Senza pensarci troppo, Chloe era scesa dall’auto ed aveva raggiunto i cancelli del paradiso. Aveva inspirato l’aria a pieni polmoni, avvicinandosi al campanello per poter assaporare il profumo delle sue dita su di esso.
Purtroppo, era scomparso.
 
Il cartellino diceva “Wilhelmina Denbrough”. Wilhelmina. Non si sentiva dal 1492.
Chloe aveva suonato e, diversi istanti dopo, una voce anziana aveva risposto.
 
«Sì?»
 
Chloe si era immobilizzata. Il suo cuore batteva a tremila. Mai nella sua vita era stata talmente scellerata da suonare a qualcuno di cui non avesse bisogno.
«Signora Denbrough?», aveva detto, schiarendosi la voce. Si guardava attorno con aria furtiva. Una ladra di minuti.
 
«Chi parla? Non la vedo da qui.»
«Sono Sandra. Sandra Turner. Ho bisogno di sapere se secondo lei...» Chloe esitava e si passava la lingua sulle labbra. «Se secondo lei Dio ha abbandonato la società del giorno d’oggi.»
Di tutte le cose patetiche!
Wilhelmina le era sembrata perplessa. Logicamente. «Non lo so. Vado in chiesa tutte le domeniche, e credo che, beh, Dio stia bene. Insomma, l’ho trovato bene lì dove stava, e le assicuro che domenica scorsa era ancora lì.»
 
Chloe aveva sentito una fitta di dolore al fianco. «Mi riferisco a... Crede che Dio abbia avuto un calo di consensi, negli ultimi tempi?»
Wilhelmina aveva considerato la risposta. Poi, ridendo come una vegliarda, aveva chiesto: «Dovrebbe?»
«O forse Dio è conservato così com’è nella struttura della società?»
«Dio è dappertutto. È il profumo di torta di mele. È il ramo che graffia contro la finestra, di notte. È la lacrima di un figlio. La società è piena di testimonianze di nostro signore Gesù Cristo.»
Chloe non voleva più continuare quella conversazione. Sentiva in quella donna la fragilità della fede, la debolezza della vecchiaia. Vetusta e patetica, aggrappata alla vasta gamma di pensieri preconfezionati da albero di natale. Ma ormai era lì, e sarebbe arrivata infondo. «Non pensa che i giovani l’abbiano dimenticato?»
«No, no figliola. Hanno solo dimenticato come si chiama. Ma, beh, lo diceva anche Sean Connery in quel film con i frati. Se non conoscessi il nome della rosa, questa avrebbe forse un profumo meno accattivante?»
«Forse profuma meno quando viene svelato il suo mistero,» aveva risposto stringendo i pugni.
«È la solita questione del bacio di uno sconosciuto o il bacio di un marito.»
«Prego?»
«Entrambi possiedono la loro magia. Differente. Ma uguale.»
«Lei ha dei figli, signora Denbrough?»
«Oh, sì. Uno. Si chiama Peter, il mio bravo ragazzone. Sa, mi porta le medicine per il cuore tutte le mattine alla stessa ora. Spacca il minuto. E quando arriva lui,» Wilhelmina si era fermata un istante, e Chloe aveva colto una nota d’emozione «Ecco, quello è il momento più speciale della giornata.»
Chloe aveva sorriso. «Anche il mio.»
«La prossima settimana si sposa, sa. Si chiama Winnifred, una ragazza adorabile. Si trasferiranno a Chicago e chissà quando li rivedrò. Ma che ne dice di entrare, signorina? Le offro un...»
 
Ma Chloe era già salita in macchina e non poteva sentirla.
 
 
***
 
Il lunedì mattina è di solito un evento traumatico, ma non per Chloe. Per lei non era mai stato un problema.
E poi, quel giorno, era un giorno speciale.
 
Dopo aver indossato il tailleur ed essersi lavata i denti era uscita di casa con un quarto d’ora di anticipo, fischiettando. Aveva attraversato l’isolato fino al fiorista, dove aveva acquistato un mazzo di rose rosse da ottanta dollari. Dopo averle accuratamente riposte sul sedile del passeggero, spaccando il minuto come solo Chloe Marshall, si era recata a fare colazione.
 
Ma quella mattina non partiva da casa.
Partiva da più indietro, dall’isolato prima. Il minuto era corretto, la collocazione geografica, errata. O forse, il contrario. Una dualità discordante è come il vagito di un bambino che non t’appartiene alle tre del mattino.
A questo punto aveva calcato il piedino sull’acceleratore ed aveva alzato la musica. C’erano i Depeche Mode.
 
A Chloe piacevano i Depeche Mode.
La via all’incrocio con la ventitréesima era sgombra. Erano le 8:22 e Chloe Marshall aveva quasi recuperato il ritardo.
 
Era quasi pronta.
Mentre Peter Denbrough cominciava ad attraversare era scattato l’arancione. Chloe aveva accelerato.
 
Il braccio di Peter si era alzato, meccanicamente, e le sue labbra avevano cominciato a pronunciare lo ‘scusi’ di tutte le mattine. Il muso della Ford l’aveva falciato in pieno.
 
Chloe aveva assaporato il rombare ovattato un corpo che si spezza sul cofano e il parabrezza, aveva chiuso gli occhi ed aveva accelerato ancora. Poi, mentre il corpo di Peter ricadeva sotto le ruote, la Ford era uscita dal suo controllo.
 
Le ultime due cose che ricorda di aver sentito erano intimamente connesse con la dualità di due vite che si spengono insieme.
Il profumo del proprio sangue e quello delle rose.
 
   
 
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