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Autore: lalla    05/04/2007    6 recensioni
Ho voluto inserire questa fic tra i film, visto che è ispirata, come "300" al tragico episodio delle Termopili. Ma siccome ho sempre ammirato la grandezza dell'antica civiltà Persiana, non aspettatevi 300 eroi contro ventimila mostri...
Genere: Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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PRIMA CHE SIA TEMPESTA

Passo delle Termopili, Tessaglia, 480 A.C., estate

I più giovani blateravano di mostri, di demoni vomitati dall’Ade, tanto numerosi da prosciugare i fiumi, tramutare i boschi in un deserto, rendere nera e sterile la terra con le ceneri dei loro bivacchi. Il Re fingeva di non sentirli, dicendosi da sé che era solo per darsi coraggio, come fanno i bambini quando, gli occhi spalancati nel buio della notte, si raccontano storie terrificanti sussultando al frusciare leggero d’ali di falena, al miagolio lamentoso della civetta nascosta dentro un vecchio rudere. Li ascoltava, e li guardava tremare, avvolti nei mantelli, durante gli interminabili turni di guardia. Non sono mostri, figli di Tifone e di Echidna, idre, centimani e ciclopi divoratori di carne umana, ma barbari dalla pelle scura e dai lunghi occhi truccati, Medi, Bactriani, Arabi dai barracani svolazzanti, Assiri dalle barbe ricciute, Egizi, Caldei, Etiopi e Nubiani neri come la notte, Seri* dalle carni gialle come i deserti della loro terra aldilà delle montagne. Il poderoso esercito che Khshayarsha* , il Re dei Re, ha radunato sotto il suo comando per vendicare l’onta inflitta dieci anni prima a suo padre da quel piccolo popolo litigioso e disunito, da quelle insignificanti formiche che, invece di sottomettersi, avevano osato impugnare le armi contro il possente Darayawus* infliggendogli una sconfitta che avrebbe bruciato il suo orgoglio per l’eternità, non fosse stata lavata nel sangue, incatenata nella schiavitù. Il poderoso esercito che si sarebbe riversato sulle pianure gialle di grano, sulle colline e sui boschi, sulle montagne dove avevano dimora gli dei, sui villaggi e sulle città, fino a giungere al mare. Avrebbero divorato il loro pane e i loro armenti, bevuto il loro vino, stuprato le loro donne, ridotto in schiavitù i loro figli…Se gli uomini di guardia al Passo avessero ceduto alla stanchezza, alla paura e al disinganno, sarebbe stata la fine.

Sono mostri, demoni vomitati dall’Ade per portarci rovina e morte. Sono barbari selvaggi votati a distruggerci e ad annientarci. Diecimila? Ventimila? E noi solo trecento, di guardia al Passo, per fronteggiare la loro avanzata. Ragazzi a cui è appena spuntata la prima barba, che ancora non hanno giaciuto tra le braccia di una donna e vecchi soldati con i corpi devastati dalle cicatrici come tronchi scabri di antichi ulivi. Trecento, e non uno di più, perché la possente razza dei guerrieri di Sparta dagli occhi azzurri e dai capelli biondi come gli avi calati dal Nord all’alba dei tempi non rischi di estinguersi o d’imbastardirsi. Trecento guerrieri voltati a morte sicura per salvaguardare la libertà di avidi mercanti corinzi, di debosciati ateniesi, di superstiziosi tebani, di vigliacchi che li avevano lasciati da soli a fronteggiare l’impossibile, da soli a battersi contro una morte che, come la luce del primo mattino, sarebbe arrivata da Oriente. Trecento, contro ventimila. Che non sono mostri, e nemmeno barbari selvaggi.

Fuori dalla tenda, il fuoco del bivacco illuminava di una luce tenue le tenebre di una notte senza luna, e la brezza che mitigava la calura dell’estate spettinava i lunghi capelli rossi del Re. Il lamentoso ululato di un lupo solitario echeggiò per tutta la vallata e Leonida, la testa china, i gomiti appoggiati sulle ginocchia, si abbandonò ai ricordi.

***

Prima che fosse tempesta. Venti anni inghiottiti dal niente. Ne aveva sedici, quando il dolore aveva fatto di lui un uomo. Qualcuno soccombeva sotto i colpi dei bastoni, perdeva i sensi e si risvegliava nell’Ade. Gli efori* dicevano che chi non superava la prova era indegno di vivere, come chi nasceva storpio e veniva abbandonato ai lupi del Taigeto*. Nemmeno le madri dovevano piangere sui loro destini, perché Sparta non poteva permettersi il lusso di mantenere individui il cui occhio non era abbastanza acuto da centrare un bersaglio, il cui braccio non era abbastanza robusto da scagliare una lancia con tanta forza da perforare il bronzo di una corazza , il cui petto non era abbastanza saldo da fronteggiare un nemico. Guasterebbero il vigore della nostra razza, aveva sentenziato, un mare di tempo prima, Licurgo, il grande Padre della Patria. Un padre severo fino alla spietatezza, ma se una piccola città priva di mura che la difendessero continuava ad esistere e il suo nome veniva pronunciato con reverente timore ai quattro angoli del mondo era in grazia di quelle leggi spietate.

Da quando non era che un marmocchio lentigginoso, sapeva che gli avrebbero chiesto di essere coraggioso, frugale, morigerato, misurato nei gesti e nelle parole. Gli avrebbero chiesto di ignorare la paura, di soffocare la pietà, di non credere nell’amore. Gli avrebbero chiesto di non piangere mai. E di dimostrarlo davanti a tutti, nel giorno in cui si celebrava Artemide Orthia e il dolore avrebbe fatto di lui un uomo e un soldato finché nel suo corpo temprato dal dolore e dalle rinunce fosse rimasto un alito di vita. Come gli altri e più degli altri, perché era figlio di re e re sarebbe potuto diventare egli stesso.

Il vento di Borea era rude sulla sua pelle escoriata e contusa. Leonida abbassò le palpebre per difendere gli occhi dalla polvere. Aveva stretto i denti e si era imposto di non urlare come una femminuccia, ricordò, anche se l’istinto gli imponeva di cancellare la memoria del dolore, come una donna che abbia appena partorito. C’era riuscito. Suo padre era stato orgoglioso di lui, e sua madre aveva medicato con oli balsamici il ricordo di quel giorno. Quello stesso ricordo che lui stava tentando invano di cancellare. Chissà se sarebbe stato sufficiente allontanarsi a cavallo dalla città, abbandonandosi alla ruvida carezza del vento, alle acque corroboranti dell’Eurota, cercando nella solitudine una risposta che non sarebbe venuta.

Ma che importava? Con un agile balzo scese dal cavallo che montava a pelo e si avviò a passi decisi verso il fiume. Per lavare via dal suo corpo la polvere, il sudore e il sangue. Per rinvigorire le membra con un’energica nuotata in quell’acqua fredda che rifletteva la sua immagine: quella di un sedicenne dinoccolato, dai lunghi capelli rossi raccolti sulla nuca con un lacciolo di cuoio e dai tratti delicati di ragazza,coperto a malapena da una clamide corta, lisa per i troppi bucati, nient’affatto diverso da com’era stato prima che a colpi di sferza e di bastone facessero di lui un uomo e un guerriero.

Il fruscio che percepì alle sue spalle non era il vento di Borea che scuoteva le foglie. Né il brontolare sordo il tuono lontano, presago di un temporale imminente. Era un pericolo, gli diceva l’istinto, e, da guerriero spartiate, doveva fronteggiarlo guardandolo in faccia. Senza tremare. Qualsiasi cosa fosse.

Qualsiasi cosa fosse. Eppure, di fronte a un nemico come quello, anche il più prode degli eroi avrebbe tremato di paura, battendo i denti come sistri: un grosso lupo lo fissava immobile, facendo filtrare un ringhio rauco tra le fauci bavose. Gli avevano insegnato che i lupi temono l’uomo e lo fuggono, ma quell’animale…quell’animale era idrofobo. Lo avrebbe attaccato e, anche se lui fosse riuscito a spaccargli il cuore con un colpo del suo pugnale, una sola, piccola scalfittura di quei denti infetti sarebbe bastata a condannarlo ad una morte terribile.

Tratterrai il dolore, ricaccerai indietro il pianto e la paura anche quando il panico ti torcerà le budella, anche quando il sangue che fluirà rosso dal tuo corpo ti lascerà intendere che la morte è pronta a ghermirti, perché uno Spartiate non trema neppure dinanzi al Fato, il dio a cui tutti si inchinano rabbrividendo. Non ci sarebbe stata la gloria, nel suo destino.Neppure quella di una morte eroica, che avrebbe reso eterno nei secoli il suo nome. La follia avrebbe spinto la belva che lo fronteggiava ringhiando ad attaccare, facendo violenza alla sua natura vile ed elusiva…Non gli avrebbe inflitto ferite gravi, ma sarebbe bastato un graffio e la fine sarebbe stata inevitabile. E atroce. Se una lunga freccia non lo avesse trafitto da parte a parte nello stesso istante in cui spiccava il balzo.

Leonida crollò in ginocchio,il cuore il tumulto, gli occhi incendiati dalle lacrime che non doveva piangere, neppure dinnanzi a un dio. A Febo, Signore dei Lupi, che gli aveva salvato la vita.

-Non toccarlo.E’ più pericoloso da morto di quanto non lo fosse da vivo.

Ma non era stato il dio a parlargli, con voce cantilenante e accento straniero. Leonida si vergognò che un altro uomo lo avesse sorpreso a tirar su col naso, come un bimbetto piagnucoloso ancora attaccato alle sottane della madre. E si voltò, sussurrandogli grazie con un filo di voce arrocchita.

Hai una mira eccellente, straniero di cui non conosco il nome. E l’arco che impugni è degno di un dio, per magnificenza e valore. Ma un’arma deve uccidere con efficienza, non ammaliare per la sua bellezza…Avrebbe voluto dirglielo, ma perché mancare di rispetto a colui a cui doveva tanto?

***

-Dimmi il tuo nome, così saprò chi debbo ringraziare. Quel che hai fatto per me non c’è oro che possa ripagarlo.

E adesso mi dirai che tutto l’oro del mondo non vale la vita del più miserabile tra gli schiavi, straniero? Eppure, quelle parole sarebbero suonate strane in bocca a un uomo abbigliato con un fasto che non solo nella sua austera città ma perfino ad Atene o a Corinto sarebbe stato giudicato esecrabilmente sfarzoso, barbarico ed effeminato.

-Mi chiamo Shapur. Passavo da queste parti per caso e…

La voce grave era molto più adulta dell’età che doveva avere. Come i suoi gesti lenti, pacati e solenni. Era bruno e olivastro come i miserabili iloti*, feccia della terra. Oro e argento gli scintillavano ai polsi e alle orecchie, come a una cortigiana. Eppure Leonida non avrebbe avuto dubbi circa la sua natura nemmeno se non lo avesse visto tendere l’arco, scoccare la freccia, uccidere il lupo rabbioso. Perché quel giovane alto,dai lunghi riccioli neri raccolti in una complicata acconciatura era un guerriero. Come lui.

Il suo fato, già. Straniero, quindi nemico, un dogma nel quale gli era stato insegnato a credere senza discutere dacché aveva raggiunto l’età della ragione. Straniero, nemico…E aveva salvato qualcuno destinato ad essere re. Ammesso che riuscisse a crederlo, guardando la sua clamide scolorita, i suoi piedi callosi dentro i logori sandali, come un contadino qualsiasi.

-Mi farebbe piacere dividere il pranzo con te. Come ti chiami?

-Leonida, principe di Sparta.

   
 
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