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Autore: Nia    20/09/2012    3 recensioni
Anno dopo anno i protagonisti dei suoi incubi aumentavano considerevolmente di numero.
Morte dopo morte.
E così aveva trovato infine un’artificiosa soluzione.
Un inconfondibile mellifluo piacere, amaro e liquido, scendeva giù per la gola e annebbiava la sua vista. I suoi ricordi.
Una dipendenza inevitabile per la sopravvivenza di un’anima spezzata. Un involucro che trasudava sofferenza, malgrado cercasse di nasconderla dietro un incessante crudo cinismo.
Oh sì, c’era da aver paura a pensare ad Haymitch Abernathy.

[Seconda classificata al contest "Tim Burton: citazioni" indetto da Alex_J sul forum di EFP]
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Haymitch Abernathy
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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- Titolo: “Sonno artificiale”
- Tipologia: 
One Shot
- Genere: 
introspettivo
- Avvertimenti: 
missing moments
- Rating:
verde
- Frase scelta:
“Il destino ha un modo crudele di chiudere il cerchio e di coglierti di sorpresa”
- Note dell'autore: 
ho lasciato libera interpretazione al lettore riguardo l’io narrante.
È naturalmente più che evidente che a parlare sia uno dei due tributi del distretto 12 (Katniss o Peeta) volutamente, però, ho deciso di non specificare quale dei due.



 

                                                     Sonno artificiale




 


Nelle notti insonni si ritrovava spesso a pensare a Haymitch Abernathy. Ci si poteva sentire attanagliati dalla paura, in quei momenti.

Sentiva la morte vicina, l’arena la sua ultima meta. Non poteva essere altrimenti, del resto.
Non si trattava solo della corsa per sfuggire la morte. Non era la morte l’unico fattore da prendere in esame. Né la sopravvivenza.
Analizzando la situazione, il futuro non era certo dei più rosei: vivere una vita da vincitori, una vita senza aria, quello avrebbe dovuto essere il suo scopo finale? Era quello il raggiungimento della vittoria?
L’unico consentito a ben pensarci.
Una vita senza aria. Ecco come si chiudeva il cerchio.
Osservava Haymitch più spesso di quello che lui poteva immaginare, e aveva capito ormai da tempo che l’alcool era il suo unico modo di respirare.
Una dipendenza inevitabile per la sopravvivenza di un’anima spezzata. Un involucro che trasudava sofferenza, malgrado cercasse di nasconderla dietro un incessante crudo cinismo.
Come avrebbe potuto, un vincitore degli Hunger games,  riuscire anche solo a dormire, portandosi dietro anni e anni di esperienza da mentore, anni e anni ad assistere ragazzi – di ogni età – morire sotto la sua guida?
Era possibile dormire? Eppure era di quello di cui Haymitch avrebbe avuto bisogno. Dormire. Estraniarsi, non pensare più a niente. Una via di fuga. Si trattava ancora di quello infondo: trovare una via di fuga.
Era un cerchio senza fine, un cane che si mordeva la coda. La vittoria, e l’annientamento.
Haymitch saliva sul palco, schiacciato dagli sguardi dei nuovi tributi del distretto dodici. Anno dopo anno, notte dopo notte li rivedeva tutti.
Nel fluire incalzante dell’oscurità, sentiva il fiato venirgli meno. Si svegliava di soprassalto, urlando e vagando per la casa. Una casa nuova di zecca, una casa destinata a chi si era ritrovato intrappolato in quel cerchio senza via d’uscita.
E così eccolo, oggi. Anni e anni di allenamento a trascinare i passi in un miraggio creato dal veleno che si insinuava nel suo corpo, giorno dopo giorno.
Haymitch non dormiva più. Perdeva i sensi, le forze - la forza di volontà più di tutte - abbandonandosi sul divano, sul letto, e a volte – più spesso del desiderabile in realtà – sul pavimento gelido.
Nella sua testa rimbombava l’inno, il suo nome accostato alla parole “vincitore”. E non vi era lutto che contasse in quell’istante.
L’istante – uno solo sia ben inteso – in cui la consapevolezza della vittoria trovava dimora in lui. Quante emozioni potevano vivere in un solo fugace attimo?
Gioia? No, non gioia. Sollievo, ecco sì: sollievo. Salvezza.
Casa.
È tutto finito, va tutto bene ora.”
Ma la sorpresa era lì ad attenderlo. Esattamente nell’istante successivo alla chiusura del cerchio.
Gli incubi, le notte insonni, il volto degli altri tributi ad accompagnarlo in ogni momento della sua nuova vita. E il peggio sarebbe arrivato al suo primo anno da mentore. Cosa si poteva provare nel guardare negli occhi due ragazzini, due nuovi prescelti, bisognosi di consigli e di aiuto prima di affrontare l’arena? E, soprattutto, cosa si poteva provare nel vedere anno dopo anno due nuovi tributi, morire sotto i suoi occhi, sotto la sua guida?

Mentore.
Era questa la sorpresa macabra che il destino da vincitore gli aveva offerto.
Una vita da mentore.
Anno dopo anno i protagonisti dei suoi incubi aumentavano considerevolmente di numero.
Morte dopo morte.

E così aveva trovato infine un’artificiosa soluzione.
Un inconfondibile mellifluo piacere, amaro e liquido, scendeva giù per la gola e annebbiava la sua vista. I suoi ricordi.

Haymitch non vedeva più gli occhi dei tributi al momento della mietitura. Saliva sul palco nascosto nel suo involucro spezzato e osservava i due nuovi ragazzi selezionati. Forse uno o due istanti prima di cadere svenuto davanti a tutti quanti.
Eccolo il vero traguardo.

Il vuoto. Il buio totale. Haymitch non sognava più da anni ormai, e quelle rare volte che succedeva era qualcosa di indistinto e talmente lontano da non toccarlo minimamente.
Aveva letto da qualche parte, una volta, che chi non sogna non fa altro che dormire.
E infondo era questo che succedeva ad Haymitch Abernathy.


La fuga. L’estraniarsi.
 
Nel sonno avrebbe dovuto trovare conforto. Non si diceva, forse, che nel sonno l’anima si rifugia in un luogo eterno e distante?
E visto che questo ad Haymitch non sarebbe stato più concesso, l’unica vittoria a lui consentita, l’unica vittoria che si era preso dopo gli Hunger Games, era il buio totale.
Niente più incubi, solo un vuoto artificioso da lui voluto.


Eccola la sua unica via di salvezza dal cerchio in cui l’avevano rinchiuso.  Da chi non l’aveva avvisato del dopo. Da chi non gli aveva rivelato la terribile sorpresa celata nella vittoria.

Oh sì, c’era da aver paura a pensare che l’estrazione dei nomi celava ben più terrori e problemi della semplice sopravvivenza.

C’era da avere paura a pensare ad Haymitch Abernathy.

   
 
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