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Autore: Lisa_Pan    21/09/2012    6 recensioni
Abigail racconta sensazioni mai provate attraverso impercettibili sussurri, Imre sopravvive cercando il ritmo nel silenzio, Emike raccoglie ricordi dentro delle note suonate su una chitarra color miele ed Aaron gioca al gatto e il topo con il diavolo; quattro vite, quattro anime che vagano sotto una pioggia complice alla ricerca di loro stessi.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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prologo

Nicotina

Un movimento impercettibile delle labbra, le palpebre si chiudono lente sulla sua vista, si concentra catalogando ogni odore presente in cabina. Ce l’ha come fissazione da tempo immemore, fa parte di lei quasi quanto quella ciocca nera fra i capelli rossi o gli occhi di un grigio impossibile. Basta un cambiamento qualsiasi che vada da un improvviso temporale ad un radicale mutamento delle sue abitudini e ogni cosa diventa elenco, colori, suoni, odori, occhi, vestiti; non c’è una fine, non c’è limite , può riguardare tutto e niente, determinato esclusivamente dalla sensazione del momento.

Il cambiamento in questione è una partenza, non tanto improvvisa, piuttosto bramata e sognata durante le notti più calde. La sensazione: un odore; appena varcata la soglia della cabina stretta dell’aereo. Nicotina. L’uomo di fronte a lei con la maglietta bianca con una stampa logora sotto il colletto stretto e bermuda larghi a fantasia militare e i capelli gellati tanto da sembrare bagnati, sembrano neri ma magari sono castani, il gel li scurisce terribilmente. Si muove goffamente tra i sedili mantenendosi con una mano il lembo destro della maglietta evitando la vergognosa risalita lungo le sporgenti maniglie dell’amore sfuggite ai pantaloni. Lei pazienta, lo segue silenziosa, sussurrando a denti stretti gli odori nascosti dalla nicotina: vaniglia, quella dell’acqua di colonia che tanti signorotti del suo quartiere usano cospargersi sul corpo nelle fresche giornate di primavera; cioccolato, della barretta che sporge aperta dai pantaloni; pino, del gel che si scioglie sulla nuca a causa delle prime gocce di sudore dovute allo sforzo di evitare chi ha già occupato il suo posto nei sedili più esterni. Finalmente trova il suo posto e scivola incredibilmente silenzioso lungo il sedile morbido, sotto lo sguardo interlocutorio del suo vicino. Lei invece sorride mentre abbandona l’odore pungente della nicotina sostituendolo con quello dolce dell’orzo.

Il suo posto è accanto a un uomo ben vestito, dall’accento inglese che le spiega lo scopo del suo viaggio, scandendo ogni minuto della sua giornata immediatamente dopo il primo scalo. Quasi riesce a seguire l’odore del suo caffè all’orzo nella gola, osserva l’impercettibile movimento del pomo d’Adamo, il petto che si abbassa e si alza riempiendo i polmoni di aria pulita. Quando con lo sguardo incrocia quello dell’uomo si rende conto di non aver ascoltato una sola parola, perciò sorride e, gentilmente, si volta verso il finestrino.

Sul grembo stringe una guida ormai logora dell’Ungheria, ogni pagina è segnata con un colore diverso, schizzi di gufi e cavalli compaiono sulla copertina. Lei osserva e poi traduce in segno ciò che pensa di aver visto, un albero diventa uomo, un occhio diventa radice, una frase diventa occhio. L’Ungheria diventa un gufetto dagli occhi piccoli, il becco sporgente e le penne arruffate.

E’ pronta, come non lo è stata mai.

 

Un cappio rosso lo tiene sospeso tra il finestrino e il cruscotto dell’enorme pick-up bianco, è un rottame più vecchio di lui di almeno una decina di anni, su quello stesso sedile un uomo che si sarebbe potuto dire identico a lui se non fosse stato per la cespugliosa barba rossa dalle punte intrecciate e gli occhi, di un nero più profondo della notte stessa, di quelle senza luna, di quelle da gelo nelle ossa, stringeva il volante in un pugno srotolando sotto le ruote del pesante mezzo chilometri di strada come fossero briciole e guardava suo figlio crescere con il viso fuori dal finestrino, con gli occhi avidi, i più avidi che avesse mai visto in vita sua, diceva, che mangiavano quelle briciole lasciate dietro dal padre assorbendo colori, odori, volti.

Il cappio rosso si stringe in un nodo impossibile attorno all’anello di ferro corroso dai chilometri, dall’instancabile dondolio del cruscotto dovuto allo sbuffo degli ammortizzatori, dalle note di rabbia che dalla radio rimbalzano sul vetro e si propagano al tettuccio consunto.

Tiene lo specchietto retrovisore tra le dita regolandolo in modo da riuscire a vedersi riflesso in quei pochi centimetri di superfice. Le sopracciglia disegnate, anche troppo disegnate per un volto come il suo che lo faceva sembrare uno di quei personaggi usciti fuori dai fumetti di Pratt, dal volto marcato dal pennello carico di china nera. Profonde occhiaie scavano intorno agli occhi un burrone di ore private al sonno e dedicate ad Aaron. Sembrava un sorta di volontariato il suo, una roba stile servizio civile, rincorreva le sue idee fuori dal comune per rinchiuderle dentro a quattro pareti bianche ed anemiche, in modo che potesse misurarsi una volta per tutte con una società fatta di persone normali. In realtà questo è quello che pensavano le poche migliaia di persone che vivevano in quel buco sperduto, Aaron era il suo Dean Moriarty, gli piaceva farsi portare in giro, gli piaceva essere vittima delle sue follie. Sentirsi diversi per tutta la vita ma nasconderlo agli altri per quella dannata certezza di non esser capiti, non riusciva a vestire l’idea del “meglio soli e se stessi”, era frustante.

Aaron lo aveva semplicemente trovato, come quando si trova sul ciglio della strada uno di quei cuccioli di cane bagnato fino alla punta delle orecchie, con quegli occhi spauriti, come fa uno a lasciarlo lì? Allora lo prendi con te e gli offri una casa, una cura, lo nutri e lo cresci. In quel bar, sul bancone lucido e appiccicoso, sullo sgabello con le gambe penzoloni e il sedere per metà fuori dalla seduta, la camicia slacciata e sporca di Jack, Aaron ha riso, si è messo a ridere guardandolo negli occhi. Gli ha sfilato la camicia e l’ha lanciata al barista, urlando, gli occhi iniettati di euforia. Non ci ha capito più nulla, si è ritrovato in una macchina dagli interni completamente logori, su un sedile di spugna gialla, di quelle che usava col padre per lavare la macchina. Ubriaco, in un rottame, con un totale squilibrato mentale. Ha riso, pensava che avrebbe dovuto avere paura ma..ha riso. E ha riso della sua risata, si è detto stupido ma continuava a sghignazzare da solo sul sedile di spugna mentre guardava quel folle premere a tavoletta l’acceleratore verso il totale buio; sì perché davanti a sé vedeva esclusivamente la scia gialla che i fari proiettavano sull’asfalto, che poi è diventato sterrato e poi breccia e improvvisamente sabbia.

Dà un’occhiata veloce all’ingresso dell’aeroporto mettendo a fuoco a fatica la miriade di volti che entrano, no escono, entrano ed escono dall’edificio. Un oggettino minuscolo penzola davanti alla sua visuale, lo distrae ma non lo degna di un’occhiata. Il cappio rosso lo tiene saldo a penzoloni nel vuoto, sembra stanco ma non cede. L’anellino arrugginito sfrega contro il laccetto, come un carcerato scava la roccia dura. La miniatura del pick-up dondola nel vuoto ignara della lotta da cui dipende la sua caduta.

Una sfolgorante chioma rossa esce di corsa dalle porte a vetro dell’aeroporto e si ferma a pochi passi dal pick-up; perfettamente in orario.

***

Non ripopolo queste pagine da una vita, almeno così mi pare. Buogniorno tutti, è appena metà settembre e io vi do il benvenuto mangiando un piatto di pastina col formaggino, il mio stomaco è su di giri e pare sia l'unica cosa che riesce a digerire, ma non ve ne pò fregà de meno perciò..passiamo a cose più interessanti. Il titolo :3 parliamone: se non sapete da dove nasce andate a soddisfare la vostra curiosità sul tubo! C'è tanta pioggia in questa storia, è una mattonata che si scioglie lentamente sotto la pioggia, tipo biscotto nel latte.

Non sono più capace di scrivere note, vorrei spiegarvi perchè l'Ungheria ma il mio cervello non collabora. Perciò ci rinuncio vi dico solo che il paese misterioso di cui non parlerò mai è lui -->yessa proprio lui, il perchè ve lo spiegherò in un momento migliore sia per il mio stomaco che per la mia mente poco collaborativa.

Ci sono due tipe grafomani in questa storia ed entrambe hanno preso la loro ossessione da una tipa che scrive robe assurde, vi giuro proprio assurde, e meravigliose che si chiama Elle. Ciao donna meravigliosa, come sta? Non so nemmeno se leggerà mai queste pagine ma le devo un minimo di ringraziamente per l'ispirazione che la sua persona mi ha dato. Ottio parlo aulico e sto sparando scemenze senza limiti. 

Chiedo umilmente perdono per questa vergongosa nota delirante. Voglio salutare ancora una personcina che mi fa da beta e che si sorbisce il mio delirante sclero pre e post scrittura ovvero..la mia Giuls! Tante coccole pioggerellose a tutti voi!

Lis

   
 
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