Il dramma della lettura
Cammini per casa, i piedi scalzi sulle piastrelle fresche,
la mente nebulosa ma attenta. Domenica. Il gusto della domenica è unico: sa un
po’ di Natale, un po’ di malinconia. Un po’ di promesse dimenticate. E di
aspettativa. Svegliarsi presto, di domenica. Ecco la magia. Rotolarsi tra le
coperte ancora calde, mentre il sonno si sbriciola, il cuore prende a pompare
più forte, pulsa in gola, ti costringe ad aprire gli occhi e ad annusare l’aria
grigia di freddo. Lentamente una mano, un braccio, si arrischiano fuori dal
sicuro, tiepido rifugio delle coperte. No, non è così freddo. E così eccoti lì,
a camminare in punta di piedi, mentre la casa dorme. Un misto di eccitazione e
paura. Non sai dove i piedi ti stiano portando. O forse sì. Forse, in fondo
allo stomaco, hai già capito. L’hai già pensato, pensato in quel modo un po’
buffo, un po’ miracoloso, in cui si pensano le cose senza parole, senza
immagini. Senza pensieri. Le dita sfiorano il dorso della copertina, un sorriso
affiora sulle labbra. L’hai già letto. L’hai già letto mille volte, ed ogni
volta è come la prima. No. Non come la prima. La prima è una, una sola. Un po’
rimpiangi il momento in cui hai scorso quelle pagine ancora sconosciute. Quando
non sapevi. Ed ogni volta è diverso. Ogni volta la stessa parola vuol dire
qualcosa di nuovo, ogni volta tu sei
nuovo. Ogni volta è un altro libro. Il divano è comodo, la luce del sole
mattutino filtra morbida dalla finestra svelando i misteri di quelle pagine
consumate. E inizia. Inizia il sogno e tutto scompare. Il silenzio si riempie
di suoni meravigliosi, suoni dolci e delicati. Il suono delle parole, di quelle
parole che il tuo cuore conosce a memoria, che non hai bisogno di leggere,
perché sono già lì, in attesa del tuo ritorno, pronte a suonare e a riprendere
vita. Gli occhi le scorrono, lentamente, le assaporano. Scivolano sulla lingua
senza essere pronunciate, rimbombano nella mente in una melodia soffusa, che sa
di casa. Non ci sono più parole da leggere. Ci sono colori, tenui tinte
pastello che sfumano una nell’altra, si fanno brillanti e accese, turbinano,
cambiano, si evolvono. E seguirle è facile, è come nuotare. No, è come
galleggiare, stare sospesi in un altro mondo e vedere, vedere davvero, vedere
come non hai mai visto prima. Perché non ti servono occhi. Non devi guardare,
non devi fissare lo sguardo su un punto, non devi cercare. Non serve la vista
di un falco per vedere il più piccolo dettaglio, perché quello è lì, a portata
di mano, sempre a fuoco. Nessun angolo cieco, nessun punto che non si possa
raggiungere. Nulla che non possa essere toccato, annusato o assaggiato. E tutto
è vero, reale come non l’hai mai sentito. Tutto è intenso, tutto è vivo e
acceso. Tutto è presente. Ogni emozione. Ognuna, in ogni sua sfumatura. Non le
vedi passare, no. Non scorrono gelide su uno schermo di vetro. Sono in te, ti
inondano e sommergono fino a lasciarti sfinito. È un sentire nuovo, e vecchio
come un caro amico. È un sentire diverso. E non importa che sia gioia, una
gioia così luminosa da lasciarti accecato, o una sofferenza tale da farti
sentire che non emergerai mai più da quel baratro nero. È forte, è vero. È vero
perché ogni cellula del tuo corpo reagisce e vive quel mondo come se vi fosse
immerso. E allora non può non essere reale, come potrebbe? Come potresti vedere
la luce bianca del sole in mezzo al cielo, come potresti sentire l’odore della
terra umida, sentire sotto le dita dei piedi il morbido solletico dell’erba?
Come potrebbe il tuo cuore battere così affannosamente, straziato dal bisogno
di esistere in quel luogo lontano? Ed è proprio quel battito, quel martellare
furioso nel petto che ti riporta indietro, solo un istante. E vedi la pagina.
Vedi i caratteri neri sul bianco del foglio. Senti la ruvidezza della carta tra
le dita. Un vago senso di delusione, mentre ti rendi conto di leggere quelle ultime righe. L’incanto è
momentaneamente svanito. Sollevi la testa, il soggiorno è quello di sempre. Il
resto della famiglia gira per casa da chissà quanto. Un languore appena sotto i
polmoni, un fastidioso vuoto che rende strano respirare. Raggiungi il frigo
senza quasi vedere ciò che ti circonda, addentando la prima cosa che ti capita
per mano. Nausea, ma continui a mangiare. Non era fame. Non quella fame. Ti agiti come un moscerino
intrappolato in una ragnatela, sapendo che non ha senso. Non ha il minimo
senso. Conosci la storia. Ma sai anche che non puoi lasciarla. Non così. È come
lasciare casa di un amico senza avvisare, senza salutare. Prendere la porta e
tanti saluti. Quasi di corsa ti ci rituffi, ed eccoti di nuovo completo. Di
nuovo avvolto da un altro mondo. E
confusamente senti che è il posto giusto in cui essere, che non puoi farne a
meno. Che il mondo è quello. Il tuo mondo, la tua vita. La tua morte. Leggere l’ultima
frase è un po’ come morire, sì. È lasciare dietro si sé un pezzo importante, un
pezzo senza il quale non ti senti a posto. Uno strano imbarazzo, ti sembra di
aver dimenticato qualcosa. Qualcosa di importante. Credo somigli a quella
curiosa sensazione che ti spinge a controllare se hai davvero indossato i
pantaloni o se stai girando per strada in mutande. Una sciocchezza, è certo.
Come potresti uscire senza? E infatti eccoli, sempre al loro posto, sulle tue
gambe. È un po’ la stessa cosa. Il libro ce l’hai, è dentro di te. Eppure ti
senti stranamente scoperto, a disagio. Anche un po’ triste. È come salutare gli
amici del mare, quelli che vedi tutti gli anni ma che al momento dei saluti non
sai come lasciare. Saranno lì, come sempre, l’estate prossima. Non è un addio.
Li sentirai, li ricorderai, li penserai. Ma non saranno lì con te. E già ti
manca quel legame speciale. Le avventure. Le risate. I dispiaceri e i drammi.
Persino le cose più sciocche, con loro erano speciali.
Come un fulmine il pensiero ti attraversa la mente. In quel
libro sei speciale. E più ci rifletti, più ti sembra che nelle parole tu sia
speciale. Senza confondersi nel senso della frase. In quel mondo fatto di
lettere, sei più vivo che in quello in cui ti muovi. Un mondo che puoi vivere
quando vuoi. Un mondo un po’ crudele, che ti consuma fino all’osso per poi
sputarti fuori quando con te ha finito. Ma sempre disposto a riprenderti. È un mondo a tutto tondo. Un mondo a
trecentosessanta gradi, in cui non hai uno stupido campo visivo a limitarti, in
cui non ci sono suoni che non puoi sentire. In cui non accadono cose inutili.
Sì, in quel mondo tutto è utile, tutto serve, tutto ha uno scopo. O non sarebbe
lì. Questo è chiaro. E ti senti disorientato nel cercare fuori quello stesso
ordine. E ti sembra strano che tutto sia così disordinato. Il mondo vero è il
caos. Non succede quello che dovrebbe. I problemi sono strani, le soluzioni
anche di più. Ti incasini ed ingarbugli ad ogni passo. Non dici quello che
vorresti dire e non senti quello che dovresti (vorresti?) sentire. Ecco, ecco
il vero problema. Le parole hanno un sapore diverso. Non importa se le
avventure sono diverse. Non importa che la vita non abbia strabilianti colpi di
scena, drammi, personaggi bellissimi, orrendi, spregevoli, nemici da combattere
o amiche da salvare. Il problema è che le parole sono diverse. Che non hanno lo
stesso gusto. Suonano in modo diverso. Ti senti stonato nel cercare di parlare.
Non di scrivere, di scrivere mai. Scrivendo, le parole hanno la giusta melodia.
Certo, non se provi a scrivere a qualcuno.
In quel caso le parole tornano a stridere come un gessetto sulla lavagna. Le
parole del mondo vero sono tutta un’altra storia. E a volte è frustrante. A
volte vorresti mandare al diavolo tutto. A volte sembra che le uniche parole
che possano essere facciano ridere. Non in senso cattivo, nel senso che per
fare una battuta o raccontare un aneddoto sono perfette. A volte lo sono anche
per ascoltare. O per dare un consiglio. Per interessarsi. Per fare domande. No,
non per parlare di te. Per quello sembra di non avere il vocabolario giusto. O
la persona giusta? Questo non lo so. So solo che parlare di quello che sento,
di ciò che voglio di ciò che mi fa paura, mi fa inceppare. Le frasi escono
stentate. Secche, aride. Perché a fare un discorso da libro mi sento in imbarazzo. Perché è il posto sbagliato. Il mondo sbagliato.
Paura. La paura irrazionale di non essere compresi, perché
già da soli non ci si capisce. Perché la voce che parla nella tua testa è
sempre soave, saggia, decisa, e quella che sfugge dalle tue labbra tremola e
scivola sulla lingua. Perché quello che senti sembra appartenere a quell’altro
mondo, quel mondo sublime dove ogni cosa ha il suo posto e una sua logica. E tu
sei intrappolato dalla parte sbagliata di quel vetro, lo vedi scorrere dall’altra
parte, e dimentichi la barriera, ti ci immergi, lo vivi fino all’ultimo
battito, fino a che non ti scopri completamente schiacciato contro quella
magica lente. Ed è delusione, è un vuoto malinconico che ti colma lo stomaco e
ti riempie di fumo la mente. Una tragedia.
No. È una magia. E un sorriso ti affiora alle labbra, mentre la sorpresa si fa largo nel tuo petto. È una magia, di questo almeno sei certo.