1.1:
8
FEBBRAIO 2029 (Los
Angeles)
«Desidera
qualcosa, signore?» Gli chiese una voce femminile.
La
domande gli era stata posta da una giovane cameriera del Bar in cui
si trovava da oltre un’ora.
Ancora
oggi, dopo tutto questo tempo, gli suonava strano essere chiamato
“signore” come un comune essere umano, data la sua
condizione. Probabilmente nel
corso degli anni la gente si era abituata a quelli come lui
più di quanto lui
non lo fosse per se stesso.
«Hm?
Ah, no… non ancora, la ringrazio. Sto aspettando una
persona»
guardò l’orologio digitale appeso alla parete
sopra il bancone del bar «solo
che è un po’ in ritardo.»
Sbuffò.
«D’accordo.
Allora passerò da lei più tardi, va
bene?» Propose la
cameriera con un tono di voce sicuro e professionale.
Lui
annuì.
Mentre
la cameriera si allontanava dal suo tavolo per dedicarsi agli
altri clienti, lui la osservò, cercando di mantenere un
atteggiamento discreto.
Era una ragazza giovane, probabilmente ventenne o poco più,
capelli bruni,
corti e ricci, che teneva raccolti a coda di cavallo.
Aveva
l’età per poter essere una studentessa
universitaria, forse dell’
U.C.L.A.
(“Università
della California, Los Angeles” n.d.a.).
Chi
sa, magari era pure una delle sue studentesse. Forse gli si era
avvicinata nella speranza che lui la riconoscesse. Poi però
la osservò meglio.
No, quella ragazza dava più l’idea della
studentessa di Giurisprudenza, lui
invece insegnava Psicologia, e comunque, se era andata da lui era solo
perché
in questo consisteva il suo compito nella locanda.
Comunque
era proprio una ragazza carina e piacente. Se non fosse stato
per il fatto che era già sposato, probabilmente si sarebbe
concesso di fare
qualche ulteriore commento su di lei, ma ora come ora non poteva
più permetterselo.
Come se non bastasse, lui e sua moglie avevano compiuto da pochi mesi
il loro
decimo anniversario di matrimonio, perciò, a maggior ragione
non voleva
lasciarsi coinvolgere in pensieri frivoli e sconvenienti nei confronti
di
un’altra donna, soprattutto, viste e considerate le enormi
differenze che lui e
la cameriera avevano sul piano fisico.
Alla
fine decise di distogliere l’attenzione dalla ragazza, e
tornò a
fissare l’orologio. In effetti la persona che stava
aspettando era parecchio in
ritardo.
«Il
lupo perde il pelo ma non il vizio» commentò tra
se e se
bisbigliando dopo aver sbuffato dalla noia.
Si
pentì di non essersi portato dietro un quotidiano o qualcosa
da
leggere nell’attesa e cominciò a guardare verso la
vetrata, osservano le automobili
e i mezzi pubblici che scorrevano nelle trafficate strade di Los
Angeles.
Era
l’ora di punta, quando la gente finiva i propri turni
mattinieri di
lavoro e si dirigeva nelle propri abitazioni o in qualche locale per
pranzare,
e le strade erano quasi intasate dal traffico. Forse era per questo che
la
persona che stava aspettando era così in ritardo. La sera
prima al telefono gli
aveva detto che sarebbe arrivato in taxi subito dopo essere giunto
all’aeroporto e aver trasportato i bagagli a casa di
papà.
Forse
era già per strada, imbottigliato da qualche parte nel
traffico,
magari intendo a imprecare con il taxista per il ritardo che gli stava
costando.
Due
donne entrarono nel bar e furono subito accolte dalla cameriera coi
capelli ricci, le chiesero se era disponibile un posto per due e la
ragazza
guardò verso i tavoli, soffermandosi per un tempo maggiore
sul Nostro, che
abbassò lo sguardo imbarazzato, poi si voltò
verso le due potenziali clienti e
fu costretta a dire loro che erano al completo.
Come
biasimare quello sguardo che gli era stato rivolto? Ormai era
un’ora che occupava il posto, e non aveva nemmeno ordinato
nulla.
Si
disse che per lo meno avrebbe dovuto ordinarsi un caffè
nell’attesa,
fece quindi per chiamare la cameriera quando d’improvviso,
nel marciapiede
proprio all’infuori del locale, gli parve di vedere la
persona che stava
aspettando.
Erano
passati dieci lunghi anni da quando l’aveva visto
l’ultima volta.
Si
erano parlati per telefono, scritti innumerevoli mail, in un paio di
occasioni, tre anni prima, si erano persino parlati in una video chat,
ma di
persona, quella era la prima occasione da ormai un decennio.
Era
leggermente diverso da come se lo ricordava. Più atletico,
con un
discreto orecchino sull’orecchio sinistro, ma era
inequivocabilmente lui. Altri
non poteva essere.
Indossava,
dei piccoli jeans neri, una maglietta rosso cremisi a maniche
corte con una collana d’oro al collo e con un ciondolo a
forma di nota musicale,
e si proteggeva dai raggi del sole con un paio di Ray-Ban su misura.
Era
giunto dinanzi alla locanda a piedi, quindi il Nostro, mentre lo
fissava da dentro la sala, ipotizzò che avesse deciso
congedare il taxista e di
proseguire da solo per non tardare ulteriormente a causa del traffico
stradale.
Si
guardò prima intorno e poi in alto, nell’insegna
del Bar, forse per
verificare che si trovasse nel luogo giusto, poi, appurato di essere
arrivato
alla sua destinazione, si diresse con fare sicuro verso
l’entrata.
Quando
aprì la porta, si trovò l’attenzione di
tutta la clientela su di
lui.
Come
non dar loro torto, del resto lui era Alvin Seville, uno dei
più
famosi talent scout d’America, oltre a essere stato una
rock-star di fama
mondiale da giovane.
Quel
giorno Alvin avrebbe finalmente dovuto rincontrarsi con suo fratello
Simon, il quale non lo incontrava di persona da ormai dieci anni.
Quando
lo vide entrare, Simon tirò un sospiro di sollievo, pensando
che
finalmente, dopo oltre un’ora di attesa, aveva la
possibilità di rivederlo.
Adesso
i due fratelli avevano entrambi trentacinque anni a testa, ma ai
tempi in cui erano ancora dei ragazzini che amavano giocare e
divertirsi, Simon
ricordava che uno dei principali piaceri di suo fratello, oltre che
provocare
guai, era di crogiolarsi delle grida e dell’amore dei fan. Si
aspettò, quindi,
che come minimo, al vedere tutta la gente circondarlo per conoscerlo e
chiedergli l’autografo digitale sui proprio tablet personali,
avrebbe iniziato
uno dei suoi tipici discorsi da egocentrismo smisurato come ai vecchi
tempi. Invece
Alvin si limitò a firmare autografi a chi glielo chiedeva e
a rispondere
semplicemente con un «Grazie» ai pochi commenti e
complimenti che gli venivano
fatti.
In
seguito, dopo aver dedicato loro quei pochi istanti di attenzione,
superò la folla, tra gente soddisfatta
dell’autografo e gente delusa per non
aver potuto dirgli quello che avrebbero voluto, e cominciò a
guardarsi intorno
alla ricerca di suo fratello.
La
solita cameriera dai capelli ricci lo accolse educatamente, senza
dare di matto alla sua vista, e quando lui le chiese quale fosse il
tavolo di
Simon Seville, lei glielo indicò con l’indice
della mano sinistra e dicendogli
qualcosa che il fratello, dal suo tavolo, non udì.
A
quel punto gli occhi dei due finalmente s’incrociarono. Simon
avrebbe
voluto fin da subito farsi notare da lui e chiamarlo, ma non ci
riuscì, preda
delle emozioni che stava provando in quel momento.
Alvin
camminò verso il tavolo di Simon e si levò di
dosso i Ray-Ban
mentre si avvicinava, l’altro chipmunk, nel frattempo,
saltò giù dal tavolo su
cui stava seduto e aspettò.
Quando
i due fratelli si trovarono finalmente l’uno di fronte
all’altro,
non riuscirono a dirsi alcuna parola.
Avevano
già parlato in diverse altre occasioni, una delle ultime,
quando
dovevano organizzare quell’incontro, eppure questa volta il
fatto di potersi
finalmente ritrovare a tu per tu, li ammutolì.
Simon
azzardò un sorriso impacciato, Alvin ricambiò con
uno molto più
sicuro e pronunciato.
Simon
porse al fratello la mano destra, con l’intenzione di
stringere la
sua, Alvin invece, dopo un paio di secondi di attesa, gli si getto
incontro e
lo abbracciò. Il gesto colse di sorpresa Simon, ma subito
dopo lo ricambiò.
«Grazie
per essere qui Alvin, sono davvero contento di rivederti.»
«Anch’io, Simon. Non immagini quanto.» Rispose Alvin, commosso.
1.2:
7
FEBBRAIO 2029 (New York)
Un
rumore svegliò d’improvviso Alvin.
Si
strofinò gli occhi e cercò di tornare lucido per
capire cosa fosse
stato e da dove provenisse.
La
prima cosa che fece fu di guardare alla sua sinistra, verso la parte
di letto dove abitualmente dormiva Brittany. Non c’era.
Guardò
sul comodino di fianco alla sua parte del letto e costatò
che
erano l’una di notte.
Sette
ore dopo avrebbero dovuto svegliarsi per raccogliere le valige che
avevano già preparato e dirigersi all’aeroporto,
dove si sarebbero imbarcati
per il volo New York – Los Angeles delle 10.00.
Scese
giù dal loro letto (a una piazza, ma che per le loro ridotte
dimensioni era come e anche meglio di un matrimoniale), si stiracchio i
muscoli
sbadigliando e uscì dalla camera da letto trascinando i
piedi a ogni passo.
Dal
corridoio vide una luce provenire dal bagno e senti lo scroscio
dell’acqua che usciva dal rubinetto.
Sentiva
anche un flebile rumore di passi che andavano avanti e indietro
nel bagno e si tranquillizzò.
Percorse
il corridoio fino ad entrare nella stanza, e lì vide
Brittany
intenta ad asciugarsi il viso con un asciugamano su misura per chipmunk.
«Stai
bene, Britt?» Le chiese con voce stanca.
La
domanda era un po’ sciocca, non era la prima volta che le
succedeva
quello, ma gli sembrò comunque educato chiedere.
«Sì,
Al, non preoccuparti. E’ solo nausea notturna, mi ci sono
abituata.»
Lo tranquillizzò lei.
Brittany
era incinta di sette mesi del loro primo figlio.
Aveva
sofferto di alcuni leggeri disturbi durante i primi periodi, per
poi stare meglio a partire dal quarto mese. Arrivata al sesto,
però, la nausea
tornò, e secondo quanto aveva detto loro il medico, sarebbe
continuata anche
nei successivi due mesi che le rimanevano.
Esistevano
in commercio dei medicinali in grado di annullare del tutto
ogni malessere legato alla gravidanza umana, ma dal momento che lei era
comunque uno scoiattolo, e non si sapeva come il prodotto avrebbe
potuto
reagire sul suo organismo o su quello del nascituro, il dottore
sconsigliò loro
il trattamento.
Accettare
il consiglio non fu un problema per Brittany, del resto erano
pur sempre animali e in natura le future madri non hanno certo bisogno
di
prodotti chimici per terminare le loro gestazioni. Avrebbe lottato e
tenuto
duro fino alla fine con il sorriso sulle labbra.
Da
ragazzina Brittany si comportava il più delle volte come una
piccola
smorfiosa egocentrica, ma crescendo, un po’ come tutta la sua
famiglia dopo
quello che era successo loro, era diventata molto più
responsabile e matura.
Un
atteggiamento, il suo, che aiutava moltissimo Alvin in quel periodo,
il quale era agitatissimo all’idea di diventare padre. Anche
se gli ultimi mesi
erano stati più sopportabili che non agli inizi.
Forse
anche lui, come Brittany, ormai ci aveva fatto l’abitudine
all’idea, ma sapeva che l’agitazione sarebbe
tornata a travolgerlo come un
fiume in piena nel momento in cui avrebbe tenuto per la prima volta in
mano il
suo piccolo e avrebbe capito che da quel momento in poi sarebbe toccato
a lui
educarlo al meglio.
«Coraggio,
andiamo a letto. Domani ci aspetta un lungo viaggio.» Le
disse.
«Sì,
hai ragione.»
Cominciò
a camminare verso di lui, quando Alvin la fermò.
«Aspetta,
ti aiuto!»
«Oh,
no caro. Non disturbarti… » gli disse dolcemente.
«Nessun
disturbo, piccola.» Insistette lui amorevolmente.
Le
si avvicinò e le appoggiò un braccio sulle
spalle, aiutandola a
uscire dal bagno e a tornare in camera da letto.
Gesti
come questi facevano sentire Britt una donna molto fortunata.
Negli
ultimi anni e in particolare da quando lei era in dolce attesa, le
era capitato spesso di sognare il periodo in cui loro due erano stati
costretti
a far ritorno sull’isola a causa del suo malessere
improvviso.
Nel
sogno lei affogava, delle catene di metallo la trascinavano
giù nel
profondo degli abissi e quando ormai sentiva che sarebbe annegata, la
mano di
Alvin, grande e forte, la afferrava e la tirava fuori
dall’acqua. D’improvviso
lei si trovava sulla spiaggia, con Alvin che le stava vicino e che
guardava
qualcosa in mare.
Brittany
si voltava nella sua direzione e lì il suo sogno si
trasformava
in un incubo. Vedeva qualcun altro annegare al posto suo. Una persona a
lei molto
vicina e che ora non c’è più. Nel
sogno, prima di affondare tra i flutti del
mare, questa persona si voltava verso di lei e urlava una frase
“Non è giusto!
Questo non doveva succedere a me!”. A quel punto Brittany si
svegliava sempre
con le lacrime che le colavano sulle guance e piangeva ripensando al
ricordo di
quella tragica perdita.
Forse
era vero, forse toccava davvero a lei. Se Alvin non l’avesse
salvata, forse quella persona sarebbe ancora viva.
Ogni
volta che quel pensiero le balenava in testa e tentava di prendere
il sopravvento su di lei, Brittany cercava di combatterlo ricordandosi
degli
enormi sacrifici che il suo compagno aveva compiuto per trarla in
salvo, e si
ripeteva tra se e se che perseverare con quell’idea era una
profonda mancanza
di rispetto nei suoi confronti.
No,
Alvin non aveva colpe di nessun tipo. Era il compagno perfetto,
migliore di quanto avesse mai desiderato, e anche se non erano sposati
come sua
sorella Jeanette con Simon, presto avrebbe avuto un figlio da lui.
Avrebbero
formato una famiglia e avrebbero vissuto felici per sempre. Quel che
era successo
diciotto anni prima, per quanto doloroso, faceva parte del passato,
Brittany
ora doveva pensare al suo futuro e lasciare che i sogni fossero solo
sogni.
1.3
Alvin
la riaccompagnò in camera loro.
Erano
una coppia ricca. Grazie al successo di entrambi erano riusciti ad
arricchirsi quanto basta per permettersi un lussuoso attico nei pressi
dell’aeroporto di New York. Un appartamento che avrebbe fatto
invidia agli
stessi umani, figurarsi a due scoiattoli come loro.
Con
lo sciogliersi del gruppo dei Chipmunks e delle Chipettes a causa
dell’incidente e dopo essersi trasferiti a New York
lasciandosi tutto alle
spalle, avevano continuato a incidere alcuni dischi da solisti o in
coppia per
una manciata di anni, dopo di che avevano intrapreso strade diverse.
Brittany
era diventata un’insegnante di ballo per bambine e con la sua
abilità, unita alla fama accumulata nel corso degli anni,
aveva fondato una sua
scuola di ballo di straordinario successo, tanto da poterle presto
permettere
di assumere nuove istruttrici per ampliare il numero di corsi e di
ingrandire
l’attività tanto da renderla praticamente
autosufficiente anche in assenza
della Chipette.
Contemporaneamente
Alvin, dopo aver proseguito da solista per un anno in
più rispetto a Britt, si era ritirato dalla scena per
diventare un talent
scout.
Girava
per il Paese alla ricerca di giovani stelle nascenti della
musica, e la sua abilità nello scovare nuove star lo rese
una delle personalità
più celebri degli USA, restituendogli un po’ della
notorietà internazionale che
aveva perduto con lo sciogliersi del gruppo.
Disponevano
quindi di molti soldi da parte, che gli permettevano il
mantenimento di quel lussuosissimo attico.
La
decisione di trasferirsi lì l’avevano presa
insieme.
Jeanette
e Simon, nonostante anche loro avessero intrapreso delle ottime
carriere di successo e vivessero come essere umani in un discreto
appartamento
di Los Angeles, non davano certo nell’occhio come Al e Britt,
la coppia più
paparazzata di tutta l’America sia nel passato che nel
presente.
Già
era difficile e rischioso per un divo umano sfuggire ai pericoli dei
fan impazziti e ai malfattori affamati del loro successo e della loro
ricchezza, figurarsi come sarebbe potuta essere la vita da ricchi per
due
chipmunk, senza più la supervisione e la tutela di un umano
responsabile come
ai tempi in cui vivevano a casa di Dave.
L’attico
da loro scelto faceva parte di un complesso nel quale
risiedevano molte personalità di spicco della
città, pertanto era dotato dei
più avanzati sistemi di sicurezza e antifurto disponibili
sulla piazza nel
2029.
In
poche parole, era l’ideale per loro!
In
più di un’occasione Brittany aveva avuto la
possibilità di compiere
trasferte a Los Angeles, quindi aveva avuto modo di vedere come
vivessero la
loro vita Simon e Jeanette.
La
loro coppia doveva far fronte al problema di vivere in una casa le
cui proporzioni non si adeguavano per niente alla loro taglia. Un
inconveniente
di non poco conto a cui però non erano incappati Alvin e
Brittany.
Grazie
alla loro ricchezza, erano riusciti a permettersi la costruzione
di impianti ed elettrodomestici su misura, che permettevano loro di
svolgere
una vita praticamente indistinguibile da quella degli esseri umani.
Minuscoli
servizi igienici, piccoli fornelli dall’altezza di quindici
centimetri e
frigoriferi di trenta, tavolo e sedie ideali per permettere loro di
mangiare
senza sforzi. E per quando era necessario fare ordine e pulizia in
quello
spazio sconfinato che era il loro attico, Brittany si faceva aiutare da
alcune
assistenti umane pagate affinché svolgessero il compito di
donne delle pulizie.
Anche
Alvin disponeva di un paio di autisti personali, che a comando li
portavano a lavoro o dovunque volessero in qualunque momento, visto che
non
avrebbero mai potuto guidare un veicolo umano.
Quando
Brittany era andata a far visita a sua sorella e al marito Simon,
si era sempre offerta di dar loro i soldi per potersi permettere quelle
comodità che semplificavano di molto la loro vita, ma anche
Jean nel corso
degli anni era cambiata come tutti gli altri. Era diventata
più sicura di se e
orgogliosa, forse persino più severa e irascibile. Non
voleva accettare quegli
aiuti da parte di Brittany e reagiva sempre all’offerta
alzando la voce e
ribadendo che non avevano bisogno dei loro soldi per cavarsela.
Si
volevano ancora bene e andavano d’accordo, ma Brittany era
convinta
che sotto sotto non l’avesse ancora perdonata del tutto per
essere partita
insieme ad Alvin per New York e averli lasciati da soli ad affrontare
la loro
situazione.
Alla
notizia che Alvin sarebbe andato a vivere dall’altra parte
del
paese e che Britt l’avrebbe seguito, Simon si
sentì profondamente tradito dal
fratello, e nel tentativo di convincerlo a non andare
scoppiò un acceso litigio
tra i due che si concluse con un amaro saluto che per molti anni era
sembrato
un addio.
Passarono
sei anni prima che Alvin e Simon decidessero di riparlarsi.
La
prima volta fu Alvin a inviare una mail al fratello, che ricevette
prontamente risposta e a cui ne seguirono diverse altre nei mesi e
negli anni
seguenti.
Talvolta
riuscirono a vedersi in video chat, benché nel frattempo la
nuova carriera di Alvin lo teneva impegnato più del previsto.
Viaggiava
costantemente per gli Stati Uniti alla ricerca di nuovi
talenti da lanciare nel firmamento musicale. Per ogni nuovo cantante o
band che
scopriva, la casa discografica per la quale lavorava, secondo il
contratto che
si erano accordati, gli pagava una piccola percentuale sulla base dei
guadagni
che gli artisti da lui scoperti fruttavano alla Major.
Fu
proprio questo continuo spostarsi da un posto all’altro che
lo tenne
molto spesso lontano da Los Angeles, e anche le poche volte in cui il
suo
pellegrinare lo riportava nella città in cui era cresciuto,
a causa di
imprevisti di vario tipo non era mai riuscito a rivedere di persona il
fratello.
Solo
di recente gli si era presentata una buona occasione. Alla notizia
che Brittany aspettava un figlio, decise di prendersi finalmente un
anno
sabatico durante il quale avrebbe sostenuto la sua compagna che
altrimenti non
avrebbe mai potuto cavarsela da sola in una casa così
grande, e fu proprio
durante questo periodo che finalmente Simon riuscì a
convincerlo a tornare a
Los Angeles per un po’.
1.4
Nonostante
la maggior parte del mobilio della loro casa fosse stato
costruito su misura, alcune cose erano ancora della taglia per gli
umani. Una
di queste era il letto.
Quando
vivevano da Dave dormivano abitualmente su materassi così
grandi,
quindi non era mai stato un problema per loro, ma ultimamente, a causa
della
situazione di Britt, dovettero ingegnarsi un po’ per riuscire
a farla salire.
Usavano
una piccola scaletta sulla quale Alvin saliva sempre per primo,
dopodiché, afferrava la sua compagna per un braccio e la
tirava su aiutandola a
salire. Ripetevano questo rituale per tre volte, corrispondenti al
numero di
gradini della scaletta, fino ad arrivare al letto.
Anche
sta volta fecero così, e prima di rimettersi a dormire Alvin
ricontrollò la sveglia per assicurarsi che fosse regolata
per suonare alle 8.00
di mattina.
«Buona
notte, Britt.» Le augurò.
«Notte
Alvin e… grazie.» Gli sussurrò lei.
«Per
cosa?»
«Per
tutto quello che fai per me e… »
abbassò lo sguardo e guardò il suo
pancione «per lui.»
Alvin
le accarezzò il ventre e lo baciò da sopra il suo
pigiama, dopo di
che diede un bacio anche sulla guancia di Britt.
«Grazie
a voi due di esistere.» le disse dolcemente, lei sorrise e lo
ricambiò con un altro bacio, questa volta sulle labbra e
più duraturo, poi
spensero la luce e si addormentarono abbracciati.
1.5
La
mattina si svegliarono puntuali alle 8.00.
Alvin,
dopo essersi fatto aiutare a portar giù le valige da uno dei
suoi
autisti personali, tornò in casa a far una rapida colazione
a base di caffè per
lui e una semplice tazza di latte per lei, poi, quando tutto fu pronto,
si
prepararono e partirono per l’aeroporto, accompagnati dallo
chauffeur.
Si
imbarcarono alle 10.00 in punto senza imprevisti.
Non
erano nuovi a quel genere di viaggi, perciò sapevano
esattamente
cosa fare e in che modo.
Il
viaggio verso Los Angeles sarebbe durato sei ore, ma dal momento che
tra New York e la loro destinazione c’era una differenza di
fuso orario pari a
tre ore, alla fine sarebbe stato come se il loro viaggio fosse durato
la metà
del tempo.
Arrivarono
all’aeroporto di Los Angeles alle 13.00, dove Dave era pronto
ad accoglierli dopo tanto tempo.
Il
loro vecchio tutore e padre umano aveva da poco compiuto il
cinquantanovesimo anno di età e da un paio di anni si era
messo in testa di
lasciarsi crescere una folta barba bianca, che secondo lui, gli dava
l’aria da
“uomo vissuto”.
Brittany,
durante le sue visite si era già abituata a questa sua nuova
tendenza, così come Dave era consapevole della gravidanza di
lei, perciò i due
si scambiarono solo un abbraccio e qualche convenevole, oltre a una
battutina
detta dall’uomo per scherzare sul suo stato interessante e
che la fece ridere
allegramente.
Per
quanto riguarda Alvin, loro due non si vedevano da ben quattro anni.
L’ultima volta era stata quando Dave era venuto a far loro
visita a New York
durante una giornata in cui per un grande colpo di fortuna, Alvin era
riuscito
a restare a casa dal lavoro e a rivederlo.
La
prima cosa che l’uomo notò era
l’orecchino che Alvin portava
all’orecchio sinistro (una novità che il chipmunk
aveva deciso di aggiungere al
suo look un anno prima, e che quindi risultava nuovo a Dave)
Sgranò
gli occhi e si strozzo nel vederlo, e non poté trattenersi
dall’esclamare «Alvin!!». Non si trattava
di vera rabbia, ormai Alvin era
grande e indipendente, ma Dave cercava solo un pretesto per rompere il
ghiaccio
in modo ironico (anche se, sotto sotto, se ne avesse avuto la
possibilità,
glielo avrebbe volentieri strappato di netto dall’orecchio).
Alvin
rise divertito e un po’ imbarazzato.
«Eheheh, ciao Dave.» Lo salutò passandosi la mano tra i capelli nervosamente.
L’uomo
gli sorrise.
«Avanti,
vieni qui!» Lo invitò poi.
Alvin
si avvicinò alle gambe dell’uomo, il quale lo
prese in braccio e
lo abbraccio. Poco importava che uno avesse trentacinque anni e
l’altro
cinquantanove, non sarebbero stati certo gli anni a impedire loro di
salutarsi
alla vecchia maniera.
«Mi
sei mancato, papà!» Gli disse.
«Anche
tu, Al. E comunque ti consiglio di farci l’abitudine a quella
parola, perché presto anche tu comincerai a sentirla molto
spesso!» Lo informò
alludendo alla parola “papà”.
«Già,
ehehe… »
I
due si guardarono negli occhi per alcuni secondi, un po’
imbarazzati.
«Ci
hai già parlato?» Gli chiese Dave poi.
«A
chi ti riferisci?» Era una domanda retorica, lo sapeva
benissimo a
chi si riferiva.
«Simon…
»
«Abbiamo
parlato per telefono ieri. Mi ha dato il nome di un locale.
Diceva che non dovrebbe essere molto lontano da qui e mi ha detto che
mi
avrebbe aspettato lì.»
«Hmm,
che ora vi dovrete vedere?»
Alvin
guardò sul suo orologio da polso (un Rolex,
anch’esso creatogli su
misura).
«Bhe,
tra mezz’ora… portiamo i bagagli a casa tua e ci
vado subito.
Prenderò un taxi.»
Dave
ci rifletté un po’. Poi fece segno di no con la
testa.
«Non arriverai mai in tempo» fece una piccola pausa, come se dovesse prendere fiato o si preparasse a prendere una decisione particolarmente ardua.
«Io
porto i vostri bagagli e Britt a casa, tu prendi un taxi da
qui.»
Alvin
e Brittany si guardarono scambiandosi in silenzio alcuni segni
d’intesa.
«D’accordo,
allora faremo così. Vai con Dave, Britt. Noi ci vediamo
dopo.»
Lei
annuì.
«Va bene Alvin, ci vediamo dopo, intanto io sistemerò le nostre cose in stanza.»
«No
Britt, ci penserò io quando vi raggiungerò. Non
devi affaticarti.»
Lei
gli sorrise.
«Non
c’è problema, e poi… »
guardò in alto, indicando Dave «ci sarà
Dave
ad aiutarmi».
Dave
fece spallucce.
«Per
me non è un problema.»
«Ok,
bhe, ora sarà meglio che vada, o rischio sul serio di far
tardi. Ci
vediamo dopo!»
E
così Alvin si congedò dalla sua compagna e da suo
padre, e percorse di
fretta il terminal dell’aeroporto fino alle uscite.
In
un paio di occasioni qualche fan lo fermò per chiedergli
l’autografo
e lui lì accontentò senza perderci troppo tempo.
Raggiunse
finalmente la fermata dei taxi e ne chiamò uno.
Purtroppo,
per quanto fosse andato di fretta e per quanto il Bar del
loro incontro fosse vicino, mezz’ora di tempo non sarebbe mai
bastata contro il
traffico stradale dell’ora di punta.
A
un certo punto chiese al taxista di lasciarlo nei pressi di un
incrocio, aggiungendo che avrebbe fatto molto prima a percorrere il
resto della
strada a piedi.
Il
taxista si scusò rammaricato del disagio e Alvin gli
spiegò che non
ne aveva motivo, che non era sua la colpa, ma del traffico. Detto
ciò, pagò il
pedaggio per il viaggio già compiuto e si fece spiegare la
strada che avrebbe
dovuto ancora percorrere per raggiungere la sua destinazione. Quindi si
avviò
di fretta alla ricerca della locanda.
Tra
il tempo perso imbottigliato nel traffico e quello speso per
raggiungere il luogo dell’appuntamento a piedi, gli ci volle
un’ora per
arrivare, ma alla fine, dopo dieci lunghi anni, finalmente aveva la
possibilità
di riabbracciare di persona il fratello.
E
così fece non appena se lo ritrovò davanti,
all’interno della locanda
in cui si erano prefissati l’incontro.