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Autore: Blacket    22/09/2012    4 recensioni
“Come puoi, Serenissima, dimenticare il tuo cuore sulla prua di una gondola? Come puoi non udire le marce dei mascherati, di quei nasi a punta a tingere di luce la tua San Marco! Senti i timpani, amore mio, odi le loro grida a Vittoria; che i Potenti ti abbiano in giubilo e fioriscano sul tuo nome, O città delle acque!”
[...] -Per te sono Feliciano, non Valentino.-
Ribadisce con la voce che si fa sfusa, abbandona quel poco di cristallino che ne era rimasto ed avanza di nuovo verso di lui come farebbe un felino; lo raggiunge come preda, i movimenti sinuosi che scivolano sulla sua ombra data dalla flebile fiamma, unica spettatrice del loro approccio malato. [...]
Genere: Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Germania/Ludwig, Nord Italia/Feliciano Vargas
Note: AU, Lime | Avvertimenti: nessuno
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Il carnevale del Giullare Doc- Note: Non è purtroppo precisato il periodo storico, in quanto la Fic stessa è un capriccio e come tale è imprecisato.
Feliciano avrà come secondo nome Valentino, colui che mi ha ispirato la stramba idea; perché inguaribile casanova e –da ciò che ho letto- da alcune fonti persino un assassino.
Il rapporto o i comportamenti dei due possono risultare OC; eppur la cosa è voluta- forse, si noterà la somiglianza di alcuni dettagli (non paesaggistici) con un’altra mia fic.
Ebbene; non mi dilungo, e (spero) buona lettura!












Il carnevale del Giullare.








“Come puoi, Serenissima, dimenticare il tuo cuore sulla prua di una gondola? Come puoi non udire le marce dei mascherati, di quei nasi a punta a tingere di luce la tua San Marco! Senti i timpani, amore mio, odi le loro grida a Vittoria; che i Potenti ti abbiano in giubilo e fioriscano sul tuo nome, O città delle acque!”



La maschera punge.
Punge sui presenti dal becco ricurvo, sibila sotto gli occhi bui e canta dell’avorio con cui è forgiata, con quanta meticolosità hanno arrangiato le pieghe marmoree del lutto- si vanta, di quel bianco imperfetto “così raro”, direbbe, “così raro da vedere in faccia a Valentino!”; e se potesse pronuncerebbe i fiati di menzogna fino a far diventare rossa la pudica San Marco, che pur ospitando attorno a sé le rose del vento non asseisce sulla retorica del mentire.
È una copertura tagliente, che porta gli occhi di Venezia alla volta del padrone bruno, invece che allo sgretolarsi lento del mare; oramai calmo e sopraffatto dallo sfondo scuro e violento dal veloce salutar del Sole, che par voglia scappare e rifugiarsi a posare gli occhi su lidi di nuove e verdi foreste: lascia sola la Serenissima a cantare d’assoli, li interpreta sui pentagrammi scarabocchiati di corone e battute tese.
Cammina sull’arco di un violino, la Volpe Italiana, tira le corde dello strumento mentre calpesta la città sospesa; e la rivolta sotto il suo sguardo di spire gialle e feline, lascia che il travestimento lo annunci facendo sì che scalpitasse il mantello e che la piuma sul suo capo solletichi il cielo portandolo alla notte.
Vuole che quel vestito prenda pelle e forma sul suo corpo, che il Re della capitale della buia Italia si affacci impulsivo sul suo sorriso- affinchè possa afferrarlo e prenderlo e farlo suo, cucendolo sotto ai vestiti ed i gesti calibrati e morbidi.  Ed il Valentino che come sua madre galleggia a pelo d’acqua, si muove e parla come se innanzi si trovasse la sua musa ad attendere i suoi gesti che avevan poco remore di sfidare quel tanto reclamato sentimento dai coraggiosi chiamato amore.
Si aspettava di poter scorgere la figura scura del Generale di Ferro, sì pronto e fattosi umano per giungere alla sua Venezia sotto gli sguardi languidi delle lanterne accese nel blu.
Aspirava nel poter udire il canto gracchiante di una gondola messa fuor remo, e che s’ormeggiasse lenta come avrebbe fatto il suo cuore maturo; strepitava e palpitante accomodava le aspettative celate dietro al finto volto- desiderava annegare dell’oro del suo Reno, far che quel Dio del nord si stupisse davanti alle lente movenze di una sirena, chiamata Serena, chiamata l’ispiratrice della capitale dell’acqua. Che potesse annegare di nuovo, Valentino, nello sconvolgente perire e scontrarsi con l’unica pozzanghera azzurra del cielo di Berlino! Che si ritrovasse a far inciampare i suoi gesti sulla sua pelle, che trovasse il coraggio di udire il battiti del suo cuore e dargli voce e nome; di avere la giusta spensierata arrendevolezza di trovarne dentro una melodia e tesserla; fino a che non ne sarebbe uscita la consapevolezza retta in parte da un lungo filo rosso.
Una paura felina, che ricordava tanto i vagiti di una bestia appena venuta al mondo: udiva nel suo stomaco il terrore di proseguire quei pensieri che invece dell’aspra lussuria stavano lasciando spazio al dolce, di iniziare a vivere il meccanico e languido circolo della vita; eppure era nato –erano nati, entrambi, con il pelo ispido ed irto e scuro, una barriera naturale che si era fatta una folta chioma di un modo di essere e fare.
L’inutile barriera che non cedeva di fronte all’atroce evidenza dell’annientamento di Valentino, di quel casanova denominato assassino che non tremava innanzi alla morte ma al più piccolo gesto d’amore- e per questo se ne beffa di lui, ride e fa lingua mascherate a Cupido; si protegge con il becco d’avorio gridando al Carnevale.
Per questo attendeva Ludwig affacciandosi sul Canal Grande, per non farsi sorprendere alle spalle ed avere il tempo di lasciar andare un sospiro che inneggiava alle verdi colonne di un eden puramente utopico.

Ma sarebbe bastato allungare un poco l’orecchio, stando in silenzio e vigile attesa; giusto come gli infanti strepitanti e dagli’occhi vispi in attesa di sentirsi narrare di quella storia consunta e mal pulita dalle lingue; che però srotola suoni potenti ed efficaci, che più d’altri sviolinano maestri sulla fantasia d’ognuno- ed avrebbero appunto udito un sussurro dedicato al Casanova, sfuggito alle grinfie delle mura di San Marco.
Dicevan che la sua fama come i mortali non avrà lecito di dominare per sempre, ma quel poco che poteva fare ancora per scrivere una storia l’aveva in mano con tutti gli attributi; che fosse il Valentino delle notti infuocate e ricercato dai tremolii del Leone Alato, che i retroscena abbiano la decenza di rendersi tali.


Ludwig portava la divisa del suo distretto; impuntata di un blu che neppure poteva far finta di essere tale, avrebbe fatto prima a mescolarsi al nero del lucido catrame, così come l’appiglio del cappello chiamato fregio, aggressivamente accompagnato dal moschetto tenuto in guaina e giunta rivolta in giù.
Non l’aveva controllata, Valentino, mentre si avvicinava sornione a toglierla e nasconderla dalla sua vista; perché per quanto la legge si sarebbe dovuta inchinare innanzi ai suoi baffi di volpe, addosso al Generale assumeva il colore rigido della colpa e di una gabbia che non imprigionava la sua fisicità, piuttosto quel legame che attraversava spietato le Alpi che pur malato che fosse non ne aveva ragione di spezzarsi.
Vedeva in Ludwig quell’aquila che lo arpionava alle sue origini, il terribile modo che aveva per farsi sanguinare di confusione; quell’aspetto fiero, così sveglio ed acuto e puntato a priori in avanti (perché del passato, quel  tedesco non ne voleva sapere; lavorava e alimentava la sua organizzata protezione per il domani ),la veloce pericolosità, immaginava il manto piumato farsi la pelle candida e chiara- ma lo spavento veniva dai suoi occhi. Dei, che belle rose, se solo venissero colti!
Una tentazione umana, che si era piantata in modo raccapricciante nella sua mente, un’ossessione che gli aveva fatto dimenticare quante spine di potessero essere sullo stelo del fiore.
-E’ molto che non ti vedo.-
Quelli erano incontri sporadici, casuali, che sfociavano in un qualcosa che nessuno dei due aveva l’ardire di capire; se non l’istinto che li portava a rimanere uniti per quanto potevano. Era una loro volontà, certo, ma quale ambito poteva occupare?
Il semplice sfogo, lussurioso- la tenera voglia di una compagnia con cui condividere quell’unico pensiero che altri non avrebbero potuto capire.
Forse.
-Me l’hai già detto, Valentino.-
E l’italiano evita il suo sguardo, si concentra sulla candela fioca; che lieve andava ad accarezzare i suoi lineamenti rigidi, su quell’atelier inutilizzato dove per miracolo giaceva un letto ancora sfatto e dipinto del blu che cercava di emulare dalle sue iridi  e nei suoi vecchi quadri; una passione che man mano si era fatta secca ed inutile, il vecchio schizzo di un giovane pieno d’aspettative.
Era buio, la luna non aveva il coraggio di entrare a guardarli; sarebbe stato meglio che ammirasse le gondole grame di innamorati al posto di  un qualcosa che avrebbe fatto fatica ad approvare; un’abnegazione che non si sarebbe capacitata.
-Per te sono Feliciano, non Valentino.-
Ribadisce con la voce che si fa sfusa, abbandona quel poco di cristallino che ne era rimasto ed avanza di nuovo verso di lui come farebbe un felino; lo raggiunge come preda, i movimenti sinuosi che scivolano sulla sua ombra data dalla flebile fiamma, unica spettatrice del loro approccio malato. Sorride, ha ancora addosso la maschera ed i componenti sfarzosi del vestito; lascia che il mantello lo accarezzi, spera quasi che lo svolazzare pigro invogli Ludwig a toglierglielo e che quella luce non gli permetta di leggere nei suoi occhi- crede che siano d’uno scuro aranciato denso ed ombroso, nuvoloso a tratti e piano di cirri spumosi; ma come poteva nasconderli a quel cielo sconfinato ed immenso imperscrutabile e a tratti freddo, un tratto di fascio celeste che stava ancora sopra di lui, lo ingannava.
-Chiamarti ad un modo diverso non ti rende tale.-
Feliciano ne vede la bieca serietà sul volto di lui, appostato in piedi ed attende di sentirsi dire dalla coscienza  o dall’istinto quello che si sente di fare; e l’italiano lo sa, che la mano che gli porge Ludwig si poserà sulle fibbie e ci giocherà impietoso, le farà pattinare fra le sue dita fino a che non avrebbero detto altro.
Ludwig aveva un senso macelato ed introverso della passione; la svegliava improvvisamente quando forse nemmeno lui voleva- si trattava di un animale ancora da addomesticare per lui: non poteva tenerla in gabbia, non sapeva quando si sarebbe destata, riusciva rare volte ad intuirla vagamente presente. Feliciano la vedeva a quel modo, e si caricava del fatto che l’esito di ogni suo gesto avesse un potere molto più intimo di quello che avrebbe potuto pensare lo scaltro casanova, che era abituato a far sciogliere i cuori delle povere donne che gli capitavano fra le mani ma erroneamente evitava anche solo di entrare in contatto con quello del tedesco.
Aveva timore di scrutarci dentro.
Magari di affacciarsi su un pozzo lungo e buio ed infinito; se si fosse sporto troppo cadendo, non sarebbe più tornato a galla anche solo per poter respirare.
-So che non mi approvi. Ma forse oggi non dovresti ripeterlo. –
Il Generale non poteva mettere mano fra gli archivi scuri della Serenissima. Conosceva la storia dell’italiano stesso, il sorriso sghembo appostato dietro ad una malefatta che correva così veloce da non poter essere vista con chiarezza nemmeno dallo stesso imputato.
Ludwig era un poliziotto, Ludwig faceva della legge un suo onore, Ludwig aveva chinato la testa a quest’ultima quando lo aveva accarezzato la prima volta.
-Non vedo il perché.-

Gli piace la sua voce, forse troppo.
La sente profonda, può vederla avvolgerlo, dargli una sicurezza ben lontana dall’intimidazione marziale che poteva dare ad altri.
Valentino era stato troppo orgoglioso di sé per tremare davanti allo strepito dei timpani della sua gola, era quindi stato capace di cogliere quella nota capace di sciogliersi, un suono che aveva imparato ad apprezzare.
Quel suo parlare lo prendeva da dentro, rimbombava placido fino a rilassarlo di nuovo, e nascondere quell’agitazione cauta che era venuta a bussare fin troppo presto, quella sera.
Preferiva se ne andasse.
-Tu lo sai che ci han visti.-
E Valentino pensa che Ludwig sia bello, forse più di quanto ricordasse- glielo dicono i capelli biondi, quel grano fermo ad incorniciargli il volto, una delle tante macchie che si portava a dietro dal nord; e gli occhi, i cui paragoni che si faceva andavano facendo vergognare libri di poesia, la pelle chiara, quel fisico che chiedeva d’esser abbracciato. Infine i lineamenti che avrebbe seguito di lì a poco con le labbra, la sua bocca che a tratti si schiudeva spontanea e di nuovo quella passione per l’arte si risvegliava prepotente disegnando sopra al suo volto mille bellezze che si rispecchiavano nella sua.

Avverte la maschera spostarsi, il colore bianco che perde l’onore di intrappolargli il volto e finalmente ritrova il Generale innanzi a sé come lo preferiva; lascia che gli levi quell’impiccio visivo perché brama e vuole che si permetta certe cose con lui- dopo aver digiunato del suo strano comportarsi, pretendeva di poter pranzare con i suoi gesti metodici, e di nuovo aver l’opportunità di una cena d’interi sguardi buttati a capofitto nella più dolce confusione- un rifornimento di “Ludwig” che doveva per forza di cose dilungarsi ed imprimersi ad inchiostro sulla sua pelle, che tracciasse mille e mille volute sul suo corpo affinché lo marchiasse a vita.
Non ne vedeva i suoi occhi, così colmi di denso intenso?
-So cosa pensi di me.-
E lieve, come quell’acqua che gli ricordava a stenti la mattina –una mattina che è un sussulto, una presa di fiato dopo quella che è la possessiva notte- accompagna le parole trillanti con il tracciare circolare dei polpastrelli sui bottoni della sua camicia, le dita che a tratti saettano sotto le fessure facendosi investire da un Generale caldo; e tale era, perché infondo uomo.
“Come gioca, Dio, creando queste strane ed eteree creature!”
Ne osserva poi il volto, recapitando i suoi occhi a quelli di un antico artista, cerca invano il punto di fondo; quello da cui avrebbe attinto quell’azzurro perfetto, eppure non lo trova.
-Eppure anche il malvagio può essere felice.-
Si stava alleando con quella definizione che riusciva ad imbrogliare Ludwig, inceppava quel suo istinto tenuto in un forziere e calato giù in mezzo al mare; quando mai, però, qualcuno disse che non poteva venir trovato, e che la chiave per liberarlo nell’aspre acque marine fosse stuzzicarlo sulla parola?
Aspettava di poter cogliere la reazione all’inizio lieve, come il reclinare il dilaniandolo con lo sguardo, che annunciava solo la sua resa al gioco. Che fosse la prima entusiasmante occasione, oppure il tracciato del capolinea.
-La tua, Feliciano, è un’obiezione alla morale.-
Un bottone guaì un liscio suono torbido di ricordi, mentre sgusciava via dal suo occhiello incitato dalle dita curiose dell’italiano; affabili ma non malleabili, ne approfittavano per liberare anche i suoi gemelli e la sua vista prima costretta dalla camicia.
Non si azzardò a fermarle quando ritornarono ad esplorare un territorio che già conoscevano, un luogo che sapeva troppo di villeggiatura- che magari fosse nel temerario nord in mezzo alla neve, che fosse dello stesso candore della sua pelle.
Rivedeva quel manto bianco coprire dei poco nascosti macchinari di ferro ed acciaio, ne saggiò la sensibilità avvertendo un guizzo di muscoli mentre percorse il sentiero del suo petto. Forse aveva le mani fredde.
-La morale è anche e soprattutto un’opinione, non credi?-
Spunta un sorriso che si fa sornione e largo sul suo viso, mentre muove il capo verso lui sino a doverlo guardare direttamente dall’alto- eppure la colpa era di quelle sue dannate mani, che con la stessa passione che avrebbe avuto un esploratore andavano in cerca delle forme di Ludwig, che per l’appunto a Valentino stesso erano sempre piaciute molto. Non riusciva a capacitarsi come un corpo scolpito a marmo da tanti grandi artisti riuscisse a racchiudere una certa morbidezza di linee, perfette come se fossero state pitturate per rendere anche il più flebile dettaglio piacevole al tatto, ogni curva possibile da accarezzare ma non plasmare.
Ora le braccia andavano ad avvolgerlo, compiaciute dalla capigliatura bionda che si reclinava ad osservarlo- e pareva infuocata innanzi al tremore tiepido della fiammella, lo faceva diventare un elmo dipinto di rissi colori e piccole lingue di fuoco che andavano a lambirgli il contorno del suo capo, solleticandogli curiose il volto.
-Le tue leggi non scritte possono poco schiacciare l’evidenza. L’opinione si ferma davanti alla verità più inconfutabile ed in grado di essere dimostrata.-
Aveva delle labbra morbide, Ludwig.
Non perché lo sapesse, o ne ricordasse la devastante consistenza; lo avrebbe intuito anche solo guardandone il contorno, d’un rosa più scuro della sua pelle chiara che andava a macchiarlo e sfumava più e meglio di un disegno; le vedeva schiudersi e smaniava di poterle scorgerle ancora in quell’eretico gesto, e schiudendosi le voleva.
Sapeva sarebbero state un marchio a fuoco, il tatuaggio invisibile di cui purtroppo avrebbe dimenticato il sapore e sostanza, li avrebbe immaginati assieme sulla sua bocca sbagliando nei dettagli- perché sarebbe stato troppo preso dal ricordarne anche il rumore molle, quell’uomo che si muoveva addosso alla sua pelle e la sfregava; e sarebbe stato un intricato indovinello già risolto solo per metà, di cui mancava la giusta spinta per giungerne alla conclusione.
Accompagna i gesti con un suo sorriso, quello precedente che si regala nuove e ricche espressioni che sperano di essere colte; pare vogliano rassicurarlo per dirgli che non vi sarà un’altra volta, che se proprio voleva renderlo felice, aveva da abbandonare le sue idee e legarle a quelle dell’italico- oppure dimenticarle, azzardare a toccarlo come stava giusto facendo lui, senza aver remore di trovare quella boccetta di Cantarella* tastando voglioso il petto, oppure scovando l’affilata punta di un pugnale stuzzicandolo nel mentre che si stendeva sopra di lui- e peggio trovando una vecchia lettera dove lamentava l’amore di una donna, guaendolo in svariati ricami d’alfabeto.
Se solo la fiducia, la maledetta lei, avesse fatto visita a quel confuso ciarpame d’emozioni, forse avrebbero fatto un passo in più; magari alzandosi di livello, riuscendo forse a toccare il cielo.

-Anche la menzogna rappresenta una verità. Forse ancor più devastante della verità stessa, Generale.-
E non riesce a trattenersi mentre nei suoi occhi ci annega, azzarda ad allungare le mani verso quell’oro, che in quel momento afferrava con le dita e rigirava compiaciuto le ciocche bionde accarezzandole e poi scompigliandole ancora, per poi aggrapparcisi lasciandole libere di scivolargli sopra i palmi aperti.
-Non crede?-
L’espressione dispiaciuta, mortificata; e nemmeno volesse chiedergli scusa del fatto che davvero non poteva farcela ad arrestare la sua voglia, quel bisogno che cercava e sorprendentemente non era solo fisico- quella notte avrebbe voluto gridare il suo nome solo per poterlo sentir fremere, si sarebbe accontentato di averlo accanto la mattina dopo e sentire quel profumo che sapeva di abeti e boschi con il senno di poi.
Non potè evitare di mordere la sua prossima risposta, di mangiarla premendo le labbra sulle sue, ingoiare quelle parole prima che si dilungassero e macinassero di nuovo il tempo facendolo ticchettare di battiti scoordinati- eppure si espresse in un sussulto, che univa i loro respiri e chiudeva piano gli occhi; sopra ad una cantilena che li incitava a continuare e sorpassare le inutili spiegazioni.
Le labbra si mossero, languide, a voler accarezzare quelle di Ludwig- e desideravano imprimersi la loro irreale densità, lo stupore di meraviglia nel sentirle animate e vive a cercare le attenzioni che timoravano a darsi.
Ne uscì un mugolio affaticato, il dover accettare di avere la sua accusa silenziosa appoggiata sulla coscienza: “Sei un assassino, mio Valentino, sei quel predatore che non vuol essere domato, eppur si concede a me; per quanto, per cosa dovrò affidarmi e crederti?”

Seguì a volere le sue mani addosso, i gesti che avrebbero annullato tal nefasto pensiero; e si liberò dalla presa che Ludwig annunciava timido sui fianchi, allontanandosi di poco ma non osando staccarsi dal bacio, incitandolo a seguirlo solleticandolo sotto il mento con i polpastrelli; come se quel Ludwig fosse ancora da ammaestrare- era una bestia più unica che rara, andava raggirata con una buona dose di arrendevole sentimento e determinazione, la giusta voglia di viziarla sperando così di conquistare il suo prossimo far le fusa.
Sorrise nuovamente all’avvicinarsi del soldato non più in divisa,  attese di vedersi guidato dai suoi passi verso lidi più piacevoli;  indietreggiò nel mentre che la gamba destra del tedesco si intersecava e divideva le sue, un gesto che lo devastava nell’apprendere quanto in realtà avesse l’intenzione di unirsi a lui; uno di quei gesti che esprimono una certa soffusa virilità, e fan presagire tutto il resto.
Ed arriva infine l’abbraccio tanto sperato e sospirato che per poco non lo solleva ed innalza, una stretta che aveva desiderato sperimentare più e più volte in sua assenza- ma le braccia di altri non avevano quel sentore di forza trattenuta, parevano mosce e animate d’alcun vero scopo, non nutrivano la stessa determinazione che si sarebbe data ad un drago biondo, mancavano dei muscoli tesi e delineati fatti morbidi a pelle; o semplicemente, non appartenevano a lui.
Aspettò che la sua guida si facesse più prepotente, si rassicurò del risultato quanto la sponda del vecchio letto incontrò i polpacci ora piegati dell’italiano- e si lasciò cadere giù, forse molto più fiducioso ed attento e scaltro persino mentre osava perdersi negli occhi di Ludwig cercando l’espressione di un lupo affamato innanzi al più profumato piatto italico  servito purtroppo freddo.
V’era una nota stonata, amara, s’inceppava sulla lingua senza poter intensificare ulteriormente il sapore acerbo di quelle che erano le parole e non i gesti; s’infilava sotto la loro pelle ancora prima che diventasse calda e bollente di attenzioni.
Assaporò il profumo del suono rauco delle vecchie molle, un acuto livido d’impazienza, uno sfrigolio d’acciaio che ben si adattava al generale perché animalesco e sospeso, appena soffuso della giusta trasgressione passionale dovuta al gattonare deciso del tedesco ad appesantire il materasso, in quel raggiungerlo con un lieve sorriso.
Adorava quel momento, il primo impatto che aveva con la superficie molle, e pareva quasi li attendesse per far si che si chiarissero, che quell’ennesima volta fosse la buona a portare la novella tanto sospettata- e pareva naturale arrivar a pensare al loro rapporto come uno sprint finale prima di arrendersi all’evidenza di aver vinto, di aver oltrepassato il punto di non ritorno già da un pezzo (e ciò valeva per entrambi), eppur seguitare nel chiudere gli occhi e gridare di non vedere, di non vedere quanto si aspettavano.

-Non farlo con la consapevolezza di non potermi apprezzare per quel motivo. Se sei convinto che io sia un assassino.-
Sussulta vergognosamente alle fauci aperte sul suo collo, che si chiudono e lo mordono e lo spingono verso il basso; han forse l’intenzione di potersi davvero cibare di lui? E sia perché non avrebbe voluto farlo scappare, perché non voleva lasciarlo andare- eppure il tutto si ribaltava sotto l’esilarante pensiero che la sua voracità fosse anche e più d’uno sfogo per quel suo comportamento che poco apprezzava.
Sentiva il caldo respiro diventare tiepido in sbuffi, il frusciare piacevole di una fisicità che mancava poco per essere creata da quei due denominati alchimisti; e portaron la loro esperienza nell’arte della trasfigurazione sopra al premere voglioso dei polpastrelli, il cercare vano delle labbra di poter lambire spazi sempre più nuovi e ampi; quel voler sentire di sinfonie di sospiri e mugolii mal trattenuti- si cibarono di ingredienti che avremmo potuto elencare come la necessaria volontà di lasciarsi spogliare, un’avvinghiarsi più studiato e marcato delle dita, e i sentieri vorticosamente trascinati dal piacere umido che lasciava la lingua sul petto dell’italiano, che inciampava volutamente per poter suggere e mordere l’ombelico e tirare la pelle del ventre.
-Anzi, non parlarne. Oggi non ci serve.-
Sfugge un ansito mal compreso, la volontà di Feliciano che lo porta a premere sul suo ventre e aggrappandosi lo gira velocemente- come per non farlo accorgere di quel seguito, che non si sentisse schiacciato da quel tipo di carezze.
Incontrò subito lo sguardo micidiale di Ludwig (“E oddio, guardalo, come inizia ad essere languido e deciso! Così preciso e perfetto, che potrei morirci!”) a dubitare delle sue azioni, il tiepido allungare le mani verso il suo interno coscia, la voglia insana che anche solo per quell’ultimo atto si aprisse completamente con lui.
Si dilettava nel tirare la stoffa in lochi più intimi, stringerla dolcemente beandosi delle reazioni che sul viso imporporato salivano spontanee e non potevano essere fermate. In quei frangenti gli piaceva far finta di potersi permettere di toccarlo a quel modo perché lo conosceva bene, di avere una certa simbiosi con la sua mente bloccata da spranghe di ferro.
E la sua mano attende, preme, si sposta sulla sua intimità, attenda assieme al padrone che ribatta. Sa che vorrebbe farlo.
-Italienisch, il plurale non ti appartiene.-

E valeva, valeva davvero la pena aspettare! Quanto somigliava la sua voce al fondere di un rozzo e metallico strumento; che ravvicinato dal fuoco pareva perdere consistenza iniziando a liquefarsi in pozze sempre più ampie e calde, dalle quali però bisognava far attenzione: scottavano e strepitavano per essersi ridotte in uno stato non più virile e forte, soffrivano le trovarsi nella balia del fuoco che le attanagliava da dentro.
Avrebbe voluto sentirlo gridare, quella notte, ed espresse il desiderio in silenzio, per quanto impossibile.
Poggiò come emotivamente stremato la fronte sulla sua, gli occhi che ancora inneggiavano al dispiacere, la presa di Ludwig sulle coperte e lo scambio di fiati tirati a corto.
-Ho sempre sperato che lo facesse.-
Non volle leggere nei suoi occhi, non ci provò perché umanamente impossibilitato a farlo- ricongiunse di nuovo le labbra, fece scivolare le dita dentro alla stoffa grigia dei pantaloni; ne avvertì i muscoli irrigidirsi, un poco muoversi sotto di lui, il susseguirsi che avrebbe voluto al posto di uno sguardo afflitto.
Proprio in quel momento, si rese conto che quei gesti che non poteva più fermare mai avrebbero l’opportunità di tornare; e volle che su di loro scendesse la perfezione, che quella piccola e coraggiosa candelina li lasciasse soli, e gli venisse addosso tutto quell’amore che si ritorceva su sé stesso e s’avvolgeva e faticava a colpirli perché restii ad ammetterlo- voleva raggiungere l’oblio specchiandosi nell’azzurro cielo mattutino, e che quella notte, quella sola, cadessero nel baratro assieme.


Fu poi la mattina, e Venezia si alzò livida e poco riposata, annunziò poi il suo tepore riconcigliandosi con il sole che la sera prima l’aveva abbandonata per furberia, ed ora rimediava svegliando gli angoli delle piazze, vibrando sull’acqua tutt’intorno, suonando sui campanili già in movimento.
Il sole venne a spingere con la forza via il cielo scuro, annunziando l’orizzonte che si formava di lunghe code aranciate e calde, e si proiettavano sulle finestre lasciate aperte e spalancate, addosso ai casolari tutti riuniti a pelo dell’acqua- pareva volessero stare così uniti per evitare di cadere nel profondo.
Andarono, quelle strisce soleggiate, a rischiarare una vaga conversazione tralasciata per aria in una camera sfatta- che infine prima si trattava di un piccolo atelier, inutilizzato dallo sconosciuto proprietario. Si stupirono non poco di potervi vedere dentro vita, e scorgere un viso rassegnato ad un amaro sorriso, che invece di prestare attenzione  allo sposalizio fra cielo e mare s’interessava della seconda presenza all’interno del locale, con cui levava note disperatamente molli, d’un discorso di cui –per volontà, per lasciare quel giusto alone d’impavido mistero- si raccolsero solo poche battute.


-La prossima volta che ci vedremo sarà per pura coincidenza.-
-Ne hai presente il significato?-
-Ho chiaro quello che io ci attribuisco. Si tratterà di un destino che io stesso organizzerò. Che ce ne sia bisogno o meno.-
-Sai, Feliciano. La possibilità che qualcosa di improbabile accada, è di per sé molto probabile.-



“Che giudizio potrei dare, ad un uomo così impreciso e malfatto! Che birberie, che insolite vaghezze, qual talento lascivo!
Non son sicuro che si tratti d’un assassino, ma di odi sul suo esser Casanova ne ho udite, tante da farne libri di sgangherate poesie. Per questo mi par un fatto risoluto, un comportamento azzardevole quanto strano,
che il più grande falso attore di tutti i tempi non sapesse dir Ti amo!”










*Cantarella= particolare veleno nato (o almeno, il nomignolo stesso) proprio nella città di Venezia.















Blacket’s Time:

So che in questo periodo aggiorno poco.
Che dire, ho avuto discreti problemi con questa patacca che mi ritrovo come Pc, la voglia che per quel poco che ho fatto doveva essere inseguita e bloccata con la forza.
Credo, che nel periodo di scuola (perché è mentre fai filosofia e matematica che vien l’ispirazione!) riuscirò a sfogarmi meglio scrivendo, e continuando tutte le mie altre Fiction.
Che dire invece, di questa.
E’ particolare, lo ammetto, si tratta di una semplice one-shot che nasce da un capriccio. Non son sicura che possa essere fantastica o bellissima, ma se davvero, uno di voi mi lasciasse un commentino potrei frizzare come un petardo.
Non fanno mai male.
E soprattutto, sono sempre graditi.
Orbene, la pianto—un enorme grazie a tutti i lettori che sono arrivati fino a qui, che hanno apprezzato o meno questo scritto; grazie a chi inserirà nei preferiti o ricordate; apprezzo sempre tantissimo chi spreca un pensiero per una mia storia.
Spero quindi, di non avervi  tolto del tempo :)

Dedicata alla compagnia dei banchi. –ekk, tralasciate questo punto.
Bavosi Baci, Blacket.
  
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