Adelante II
{ sei mai stato a Baía? }
È passato un mese dal Bar Cachaça – trenta giorni, un’ora e sette minuti.
Il treno fila così
veloce e sicuro che Donald pensa che se i binari s’immergessero di colpo in un
fiume o in un lago o in un mare la corsa continuerebbe imperterrita senza
fermarsi. Non sa bene perché, ma è grato di questa certezza. Immagina le
nuvolette di vapore della locomotiva trasformarsi in bolle d’ossigeno ed è
quasi tentato di scoppiare a ridere, ed è la prima volta che ha voglia di
ridere da molto, troppo tempo. Affacciato al parapetto dell’ultima carrozza
osserva i miliardi di sfumature del Brasile scorrere rapide nella direzione
opposta, eppure è come se quel mondo gli venisse incontro, addosso, travolgendolo.
Forse, se fosse solo, ne avrebbe quasi paura – ma non è solo: un’altra cosa di cui essere grati.
Panchito
ha apparentemente rinunciato al folle proposito di imbrigliare la lunga schiena
lucida del convoglio come quella di un toro scatenato e ora si spenzola nel
vuoto alla destra di Donald. Dall’altro lato José fuma un onnipresente sigaro e
sorride vago alla scia di cenere che il treno si lascia alle spalle mentre li
porta adelante.
È passato un mese da
quel giorno al Bar Cachaça e Donald pensa che è
abbastanza tempo, che non c’è niente di male in fondo, e allora trova chissà
come il coraggio di fare una confessione e sa già che quasi certamente non sarà
l’ultima di questo nuovo, insperato, prevedibilissimo viaggio.
«Mi siete proprio
mancati, amigos.»
Panchito
si tira su di scatto, gli molla una poderosa pacca sulle spalle che rischia di
fargli perdere il berretto tra le rotaie e poi torna allegramente a
spenzolarsi, canticchiando più che mai. José scrolla ancora un po’ di cenere
oltre la balaustra, sorride e non dice nulla.
Tra poco saranno a Baía.
*
È
passata una settimana e oggi Donald è al cospetto dello zio, il berretto
stretto tra le mani come un’arma di difesa, i polmoni pieni d’aria e le guance
rosse per le tante cose che lo zio non può e non deve sapere.
«Mi prendo una settimana di ferie.»
Lo zio Scrooge alza piano gli
occhi dalla pila di monete antiche che sta lucidando personalmente, chiaro
segno di quanto ci tiene. Se ha appena fatto una cosa come distoglierne
lo sguardo vuol dire che Donald lo ha
spiazzato sul serio. Con la stessa lentezza si abbassa gli occhialini rotondi
sulla punta del naso e gli lancia il lungo sguardo penetrante che tutti i suoi
nipoti hanno imparato a riconoscere e a etichettare della dicitura ‘allarme
diseredazione’.
«Chi ti dice che te lo permetterò?»
Donald stringe più forte il berretto, così forte da sentire
le unghie affondare nei palmi attraverso la stoffa leggera. Del resto è un
berretto così vecchio. Tutto quanto nella sua vita è vecchio. C’è stato solo un periodo, solo un breve e
lunghissimo istante in cui il mondo attorno a lui ha avuto profumi e colori e
sentori nuovissimi e lui si è sentito vivere e – forse perché scappava, forse
perché rinasceva – si è sentito una persona diversa. Ma questo è stato prima di
avere paura, prima di tornare indietro.
Sa già che cosa verrà dopo. Sa che lo zio si gonfierà e
arrufferà come un grosso papero e che pronuncerà il nome di Gladstone
a mo’ di ammonimento e che l’ultima fase sarà la minaccia di una sempiterna
lista di debiti. Gli ricorderà che dopo i suoi precedenti – partenze improvvise
e mai annunciate, ritorni imprevisti e neanche voluti – nessuno avrebbe assunto
uno scansafatiche come lui, nessuno se non quel povero vecchio parente
abbindolato dalla faccenda del sangue del suo sangue e carne della sua carne.
Storia vecchia, già sentita. Donald non gli dà il tempo di dire o fare niente.
Ha deciso ormai: vuole continuare a essere quella persona tanto diversa da
fargli paura.
Se sia stata la samba o sia stata la cachaça,
non gli è dato sapere.
«Non te lo sto chiedendo.»
Si volta e lascia l’ufficio.
È passata una settimana e ancora non riesce a togliersi dalla testa la
domanda di Panchito e il modo in cui la freddezza di
José è ruotata tutta intorno a quelle poche parole.
*
Trenta
giorni, un’ora e ventisei minuti.
La prima immagine di Baía
è un incrocio, un punto qualsiasi in cui, dopo aver lasciato la stazione, José
li ferma e mostra loro le semplici armonie architettoniche e i colori, soprattutto, quei colori che da
quando sono arrivati in Brasile sembrano aver preso possesso di tutto il mondo,
molto più dell’ultima volta. Donald ricorda bene che a bordo della
trecentotredici il suo umore era così nero da spingerlo sempre avanti senza mai
guardarsi intorno – è anche per questo che stavolta ha voluto che fosse
diverso, ha eliminato quel filtro di metallo e gasolio tra sé e i cari vecchi compañeros e ha
lasciato che l’assolato Sud scorresse libero attorno a loro. Ha subito capito
che un treno preso al volo grazie all’ultimo sudato stipendio e una passeggiata
a piedi tra Panchito e José l’avrebbero portato non
avanti, ma adelante.
Non avrebbe mai immaginato, però, che José si
animasse tanto.
Quasi non sono ancora entrati a Baía e la sua lingua già si è sciolta, volge intorno uno
sguardo sorprendentemente luminoso e quel sorriso vero che Donald ha imparato a
conoscere nei momenti più impensati, complici le canzoni strillate da Panchito o la tequila più forte del Messico e dintorni;
punta quel suo inseparabile ombrello nero verso tutto ciò che vede e parla a
raffica e lo tocca così spesso, prendendolo sottobraccio,
circondandogli le spalle, addirittura pizzicandogli le guance – e questo,
davvero, Donald non se lo sarebbe mai aspettato, e dev’essere la sorpresa, solo la sorpresa a fargli sussultare lo
stomaco ogni volta che le dita affusolate di José lo colgono impreparato e che
le risatine di Panchito assumono di colpo significati
oscuri e intimidatori.
«Vamos sair por aí, vai conhecer o Baía! Vamos a todos os lugares!» José
si volta di colpo ed è vicinissimo, vicino come è stato solamente una volta
negli ultimi due anni, ma adesso non c’è il velo di una sbornia a offuscargli
la vista e Donald può constatare che i suoi occhi sono verdi e vivi e non hanno
proprio niente di misterioso. Se sia stato il tempo o sia stata Baía, non gli è ancora dato sapere. «Ora, pato, ti mostrerò
il paese della samba.»
E lo prende ancora sottobraccio e ripartono
vicini, e Donald sa benissimo che quell’invito non ha espresso Panchito perché probabilmente quei due sono già stati qui
insieme, ma non può impedirsi di provare di nuovo, per un attimo, quella fitta
di fastidio e quella vecchia e sconosciuta paura che solo un mese fa è riuscito
ad affogare nella cachaça.
Ma oggi si va
adelante.
La
ragazza è comparsa all’angolo dell’incrocio dopo che la sua voce aveva già
raggiunto i porticati e le mura di pietra. José si è illuminato di un altro
sorriso, ha continuato a trascinare Donald per il braccio e ha agganciato
quello di Panchito con il manico dell’ombrello. Si sono
fermati sotto una volta e l’hanno vista comparire.
Sul momento, Donald non può non pensare che è
bellissima.
Porta un vassoio in equilibrio sulla testa e veste
di quello che sembra un abito tradizionale che le lascia scoperte le spalle dorate
dal sole. Si muove lungo quel marciapiede come se danzasse su una lastra di
ghiaccio. Canta una canzone lenta e dolce di cui lui non capisce una sola
parola, ma che fa sorridere José e Panchito più che
mai.
José incontra il suo sguardo. «È Yayá» dice, come se bastasse un nome perché il mondo intero
risponda con un ‘oh, certo!’.
Inarca le sopracciglia. «Chi è Yayá?»
Panchito ridacchia e mormora
qualcosa del tipo «muy bonita», ma ‘Yayá’ ha sentito la voce di Donald. È un po’ difficile non
sentire la voce di Donald, ovunque egli vada e chiunque lo conosca – Daisy lo
diceva sempre e persino ai nipotini piaceva scherzarci su. È strano; pensare a
loro è diverso adesso, quasi ovattato.
La ragazza si volta, li vede, punta gli occhi su
José ed è costretta a una morbida piroetta perché il vassoio non riversi a
terra quello che si rivela essere un carico di dolcetti di uno sgargiante color
giallo.
«Avrei dovuto capirlo» dice in inglese, un
sorriso molto simile a quello che ancora illumina il viso di José, «solo tu mi
chiami così.»
Si corrono incontro e si abbracciano e José la
fa volteggiare in aria come una bambina. Il vassoio è prontamente salvato da Panchito che atterra con una mezza capriola accanto a
Donald, che guarda la scena e si chiede perché, se tutti ridono tanto, di colpo
gli sembra di essere stato tagliato fuori.
«Obrigada» ride Yayá, o qualunque
sia il suo nome, quando José la posa di nuovo a terra con delicatezza e Panchito le rende i dolci sani e salvi. «Volete un quindim? Gli amici
di José sono miei amici.»
Panchito ringrazia con un inchino
sfarfallante, uno di quelli che a José vengono naturali e che lui riesce solo a
trasformare in spettacoli comici, ma Yayá continua a
sorridere come alla cosa più bella che abbia mai visto – poi offre un dolce a
Donald, e lui è un po’ incerto se ritenerla un’insopportabile smorfiosa o
prendersi all’istante una cotta per lei. Nel dubbio, si limita ad accettare il quindim e scopre
che sa di cocco e di limone e che è una delle cose più buone che abbia mai
assaggiato, buono quasi quanto le torte della nonna.
José circonda con una mano la vita della ragazza.
«Yayá, conheça o meus amigos,
Donald e Panchito.»
Lei
solleva un lembo del vestito e si esibisce in una riverenza; Panchito scherza sull’aria di Baía
che evidentemente non è fatta d’ossigeno ma di elegancia; José incontra di nuovo
gli occhi di Donald e di nuovo sorride. Per quanto lo riguarda, lui non riesce
a smettere di pensare che è la prima volta che Joe lo chiama per nome.
Tutto
sommato, dev’essere proprio Baía.
*
È passata appena un’ora e al Bar Cachaça si è sostituita la House of Mouse, il pub aperto da
Mickey giusto qualche mese fa, quello nel quale Donald va a dare una mano
quando i miseri salari dello zio Scrooge non bastano
a portargli sulla tavola neanche un trancio di pizza surgelata. Gli piace quel
posto perché è nato come lui vive: per scommessa. Casa del
Topo, rideva Mickey i primi giorni,
proprio perché con tutte le ristrutturazioni che andavano fatte non era da
escludersi il rinvenimento di una colonia intera di ratti. E d’altro canto
Mickey non è come lo zio, non fa mai troppe storie quando lo vede trascinarsi
al bancone col muso lungo, ed è ben felice di fargli lavare i piatti in cambio
di una cena degna di questo nome, e finge sempre di non sentire quando la
cucina echeggia delle sue imprecazioni brontolate tra uno schizzo di detersivo
e l’altro.
Eppure anche Mickey resta
sorpreso nello scoprire che per una volta Donald non è qui per un pasto, ma per
qualcosa che neanche lui è ancora riuscito a definire.
«Te ne porto un altro?»
Donald spinge via il
bicchiere vuoto e scuote la testa. Ha bevuto abbastanza per oggi. Per quanti
litri d’acqua possa ingurgitare, il sapore aranciato della cachaça
è ancora un calore indelebile in fondo al suo stomaco arrabbiato.
Senza accorgersene comincia
a parlare e con le parole arrivano anche le immagini, vivide come se le avesse
appena vissute, come se non fossero passati due anni – due anni eterni,
lunghissimi, vuoti di tutto, dannazione, di tutto – e a poco a poco diventa sempre più facile ricostruire quelle
immagini per gli occhi attenti di Mickey che lo seguono passo passo ma che non erano lì, non erano lì a guardare la prima aurora dell’universo, non erano lì a
vedere la polvere entrare in macchina insieme a Panchito,
non erano lì a specchiarsi letteralmente dentro quelli di Joe,
José, quel fumatore incallito che blaterava sempre le stesse domande senza
senso. Mickey non era lì e allora Donald cerca di portarcelo, perché forse il
suo amico così accorto, così acuto, quello che gestisce un pub ma fa anche il
consulente investigativo e che vede
tante cose che lui non potrà mai vedere – forse sarà lui a fargli capire perché la cachaça brucia
ancora così tanto nel suo stomaco e perché la domanda di Panchito gli abbia fatto un
male diverso da quello che si aspettava e perché, soprattutto, perché la freddezza di José gli abbia
fatto venire tutti questi strani pensieri.
La storia finisce e Mickey
non apre bocca. Donald gliene è quasi grato, in realtà. Ha l’impressione di non
voler davvero sentirgli dire nulla.
È passata appena un’ora e già
gli sembra di impazzire.
*
Trenta
giorni, tre ore e quarantotto minuti.
Yayá ha indicato loro un ristorante
e Donald non ha potuto fare a meno di tornare indietro con la mente a quella
mattina, quando quello che fino ad allora gli era sembrato il ricordo di un
sogno ha pensato bene di squillargli forte nelle orecchie per ricordargli che i tre Caballeros erano davvero tornati a
cavalcare.
Ha cercato
in tutti i modi di non dare a vedere nulla, di tenersi tutto per sé, ma a ogni
passo si è rivelato più difficile.
Baía è una città in cui persino
i lampioni, le cassette delle lettere, le case, i balconi e gli idranti ballano. Se socchiude gli occhi gli
sembra di trovarsi nel cuore di un acquerello vorticoso, una macchia blu
confusa tra il rosso e il giallo, e il fatto che Yayá
li abbia accompagnati per un tratto di strada danzando letteralmente al braccio
di José gli ha fatto girare la testa – ma non quanto il fatto che José abbia
trovato il modo di coinvolgere in quella stupidaggine anche lui, cogliendolo di sorpresa mentre Yayá volava incontro a Panchito e
tornando a insinuare il braccio attorno al suo nella più sconcertante quantità
di contatti fisici che si siano mai instaurati tra loro. Quando raggiungono la
meta consigliata, dal nome tutt’altro che inaspettato di Café
do Samba, Donald si blocca sul marciapiede e scopre di avere il fiato corto.
«Stai
bene, pato?»
Ignora la
domanda divertita che José gli soffia nell’orecchio. È tentato di mangiarselo
seduta stante, ma preferisce tacere. Fa dannatamente caldo in Brasile.
Dalla porta
del locale sbuca di colpo un bizzarro personaggio. Non può essere più giovane
né più vecchio di loro, ma ha la faccia sorniona di un adolescente pronto a
combinare guai. Donald lancia un’occhiata ai suoi capelli rosso fuoco e poi a
quelli di Panchito, e si chiede se per caso non siano
parenti. Anche le due smorfie sogghignanti si somigliano come gocce d’acqua.
«Bem-vindo! Bem-vindo!»
Lo sconosciuto zompetta verso di loro agitando una
biro e un taccuino. Non si è mai visto un cameriere meno cameriere, pensa
Donald. «Ma guarda, è il nostro vecchio José! Há quanto tempo que eu não
o vejo! E hai portato degli amigos con te! Encantado, encantado!»
José alza
gli occhi al cielo e poi si china ancora a sussurrare nell’orecchio di Donald. «Sinto muito, pato. Noi lo chiamiamo Aracuán,
como o pássaro, perché
non sta mai zitto. Ele é meio maluco... Un vero
stupidone.»
Donald si
porta le mani alla bocca e soffoca sul nascere una risata. Non ha capito tutte le parole, naturalmente, ma si
concentra su quelle comprensibili e riesce così a ricacciare in un posto
inaccessibile il disagio che tutta questa inedita vicinanza gli fa tremolare
nello stomaco assieme al quindim
di Yayá.
Aracuán, o qualunque sia il suo
nome – José deve avere un problema con i veri nomi della gente. Magari è per
questo che gli ha sempre permesso di chiamarlo Joe –
è intanto impegnato con Panchito in una poderosa
stretta di mano della quale non si riuscirebbe a stabilire quale dei due sia il
più entusiasta. Si parlano fitto fitto in una lingua a metà tra lo spagnolo e
il brasiliano, e José guarda di nuovo Donald muovendo un dito in cerchio accanto
alla tempia e facendolo scoppiare in una nuova risatina che si sforza in ogni
modo di non far suonare isterica. Il tentativo richiama l’attenzione dello
strano cameriere, che per qualche assurdo motivo appare deliziato da ciò che
vede.
«Bem, bem, bem. Un tavolo per due, pombinhos?»
A Donald
non è chiaro il significato di ‘pombinhos’, ma il senso del tono e della domanda è
inequivocabile. Si sente avvampare e si ritrae da José come se si fosse
scottato. Dal canto suo José sorride amabile, ignorando a bella posta la risata
di Panchito che è evidentemente sul punto di crollare
a terra rotolando su se stesso.
«Muito obrigado, Aracuán, ma Donald ed io non siamo una coppia. Un tavolo
per tre andrà benissimo.»
Il tipo
si limita a guardare Panchito con aria significativa,
facendolo sbellicare ancora di più, ma non dice altro e con un gesto fa strada
a tutti e tre verso il locale.
Donald tiene
lo sguardo ostinatamente fisso sulle proprie scarpe da tennis arancioni e mezze
sfondate, perché ha già constatato la bravura di José nel leggergli le cose
negli occhi e non intende lasciarsi sfuggire una sola fottuta sillaba sui ricordi che le sue ultime parole hanno
risvegliato in lui.
Non è
affatto Baía. È José. È sempre stato José.
*
È passata una notte. E c’è qualcosa che non va.
Probabilmente
è un sogno, perché solamente in un
sogno Donald potrebbe mai immaginare di indossare un vestito bianco munito di
velo.
Si guarda
intorno e scopre le pareti azzurrine dell’House of Mouse, un posto
assolutamente inadeguato per un matrimonio, ma d’altro canto è un sogno, non deve stare a farsi tante
domande. Ci sono un po’ tutte le persone che conosce. Huey,
Dewey e Louie lo salutano
con la mano mentre la nonna porta a termine l’ennesimo dei suoi lavori a maglia
e gli ricorda, con quel suo fare spiccio ma gentile, che «è maleducazione per
la sposa arrivare così in ritardo». Lo zio Scrooge
bofonchia con Gladstone a proposito dell’eredità, e
Donald si dice che non gliene può importare di meno – sul serio, non può
preoccuparsi delle sue misere finanze persino mentre dorme. C’è anche Mickey,
naturalmente, e sta mostrando un registro vuoto a un cliente. Un cliente dall’aria
molto familiare.
«Lei è il
testimone? Firmi qui, per favore.»
«Badi che
ci vorrà un po’. Mi nombre es Panchito Romero Miguel Junipero Francisco Quintero
González.»
«Oh, si
prenda tutto il tempo che vuole, señor, lo sposo deve ancora arrivare!»
Donald
comincia a sentirsi davvero, ma davvero
a disagio. Anche per un sogno questa non è esattamente una cosa all’ordine del
giorno. Quando sta già meditando di scappare via, ecco che una mano sicura che sa di viaggi, di sole, di parole e di tequila
gli si posa su un fianco e lo ferma al suo posto.
«Sinto muito, pato. Ti sono mancato?»
Si sveglia di soprassalto e
si ritrova seduto nel letto in un mare di sudore.
È passata una notte e ora
ha la certezza di
essere impazzito.
*
È passato
più di un mese dal Bar Cachaça – trenta giorni, sei
ore e cinquantatré minuti. Li ha contati tutti quanti.
Baía è un posto bellissimo,
affacciato sul mare più blu che si sia mai visto, e al calare del sole tanto le
stelle reali quanto quelle riflesse nell’acqua tremolano del vibrare della
musica che fa da sfondo al paesaggio come un’imprescindibile colonna sonora. Nelle
strade, nelle piazze, sui moli c’è gente che canta e balla come per un fatto
dovuto, come se semplicemente non si potesse vivere a Baía
senza cantare e ballare, come se senza la musica non fosse Baía
– Donald pensa che sia un po’ stupido, sì, ma anche bellissimo: proprio come
tutti i racconti di Panchito, che si è immerso senza
difficoltà in questa nuova magica atmosfera e ora parla della samba con lo stesso
entusiasmo che ha per el Jarabe Pateño.
Ed è
scomparso al crepuscolo, Panchito, correndo incontro
a Baía con l’aria di chi si prepara ad aspettare
qualcuno che probabilmente non lo seguirà e che se ne diverte enormemente. Pazzo,
stupido pazzo inimitabile Panchito. Donald sente di
volergli bene sul serio – e questa è un’altra confessione che forse vorrà fare,
prima o poi, ma non adesso. Adesso è
seduto su una spiaggia pulita e vuota a guardare una notte che forse non sarà
la prima dell’universo, ma la prima di qualcos’altro
senza dubbio sì.
Sente il
passo lieve di José che lo raggiunge e gli siede accanto in silenzio. Hanno bevuto
ancora, tutti e tre, e non è un segreto il fatto che sia Donald quello che
regge meno di tutti, ma questa volta non balbetta quando gli rivolge la parola.
«Hai
visto? Alla fine ci sono venuto nella tua fottuta Baía...»
José non
risponde. Donald lo sbircia e vede che non ha nessun sigaro con sé, né l’ombrello,
neppure quel mazzo di carte da poker che ogni tanto gli teneva le mani
impegnate quando ancora non c’era stato nessun contatto di nessun tipo tra di
loro. Non sa come deve prenderla. Pensa solo che José ha delle belle mani e un
bel sorriso e dei begli occhi e istintivamente proietta di nuovo i suoi verso
il mare, confuso e nervoso. Non ha ancora imparato a convivere con le consapevolezze
che la telefonata e la visita dei due Caballeros
gli hanno fatto nascere nel cuore – nella testa no, non c’è modo di
assimilarle, è troppo assurdo pensare di
aver bisogno di loro, troppo strano pensare di aver bisogno di – comunque ha il sospetto che José capirebbe tutto, in
questo stesso istante, se solo lo guardasse in faccia. È solo che non ha ancora
deciso se farglielo capire o meno.
Il silenzio
si protrae e alla fine non trova nulla di meglio da dire se non quello di cui
un po’ ha ancora paura.
«E tu...
Lei, ehm – Rosinha. L’hai più sentita?»
S’irrigidisce
e rivive come nel più beffardo dei déjà-vu quel giorno al Bar Cachaça – e non può fare a meno di pensare che forse, per l’ennesima
volta, José lo sta guardando e sta vedendo se stesso. Quel che è certo è che la
sua risposta è nitida e tranquilla, come è stata quella di Donald quando a
chiedere è stato Panchito.
«Rosinha? No, non l’ho più sentita.»
Di colpo,
neanche lui sa dire perché, Donald capisce tutto. Baía
non è soltanto uno stupido ritornello per José. Baía
è la sua Daisy, il suo zio Scrooge, la sua House of
Mouse, è il mondo dal quale è scappato giusto prima di incrociare la strada di
una vecchia cabriolet rossa e blu ed è il posto dove è tornato dopo la fuga –
come ha fatto Donald. Lo guarda e si vede guardato, e così per la prima volta è
lui a vedere riflessa la propria anima negli occhi di un altro, e a capire che
andare adelante
a volte significa anche tornare indietro.
Dura meno
di un minuto. D’un tratto José sorride e torna la persona solare e vivace che è
stato fin da quando ha messo piede fuori dal treno – e magari non è affatto Baía, magari è lui,
Donald, magari è sempre stato Donald.
«Che te
ne pare di Baía, pato? Dimmi la verità.»
Complice l’alcool,
Donald ridacchia. «Tanto lo sai, pappagallo che non sei altro.»
«Certo
che lo so. Non te lo sto chiedendo davvero.»
Il vento soffia aria di
samba. Donald chiude gli occhi. Non sa dove saranno domani e non sa cosa
succederà dopodomani, ma di una cosa è sicuro. D’ora in poi si andrà sempre adelante.
Spazio dell’autrice
Sarò
sincera. Ho favoleggiato su un sequel di Adelante fin dalla pubblicazione
della medesima. Solo che non avevo la minima idea di come scriverlo e di cosa scrivere, anche, finché la mia
stupenda adorabile meravigliosa inimitabile Ray08 non ha pubblicato la sua
versione di ciò che è accaduto dopo. E di fronte a un dono così inaspettato e
così gradito (con il quale ho concordato in pieno) non ho potuto certo restare
indifferente ♥
Così,
eccoci qua. È passato un mese da quel giorno al Bar Cachaça
e ora the three
Caballeros ride again.
Per quanto il contesto sia sempre quello de I3C – come testimonia la presenza
di Yayá – per questa seconda shot
mi sono molto ispirata anche alle scene tra José e Donald integrate invece
negli altri due classici Disney Saludos Amigos e Lo
scrigno delle sette perle, nonché a un paio di episodi della serie animata House of Mouse. Anche e soprattutto
perché mia mogliaH aveva espresso il desiderio di un Aracuán fanboy e di sposo!José e sposa!Donald (qui
capirete il perché). Ancora una volta ho infarcito la trama di riferimenti e di
nuovo vi sfido a trovarli tutti – voglio dimostrarvi una volta per tutte quanto
mi sia FISSATA con questo fandom, ecco la verità XD
Non
so cos’altro aggiungere, davvero. Onestamente questa shot
non mi soddisfa la metà di quanto mi piace la mia prima Adelante, ma presumo sia il
problema di tutti i sequel. Spero non siate severi come me (.__.) Moglia, mi
odierei se ti deludessi.
Ultima
doverosa annotazione: io continuo a vederli come un threesome
perchéssì ♥ però questa volta
la predominanza José/Donald è assolutamente voluta perché loro due sono canon e su questo non si discute, punto.
Adelante.
Aya ~