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Autore: Stella Di Mezzanotte    28/09/2012    5 recensioni
Isabella e Edward non potevano che essere più diversi di come sono. Il sole e la luna, il giorno e la notte, il bianco e il nero. Due opposti che saranno trascinati dalla forte attrazione che sentono l'uno per l'altra. Come una fetta di torta che non si può mangiare... accende solo il piacere di gustarla. Per una ragazza rimasta sola, priva di certezze, un uomo così forte e deciso non può che portare problemi.
- Stop. Sta attenta Chèrie, guarda bene la tua vita e fra tre giorni dammi la risposta che voglio. -
Ci guardammo a lungo, fin quando non mi decisi ad andarmene. Infilai la porta e la richiusi lentamente alle mie spalle.
- Buonanotte Isabella -
La promessa di un futuro solido, sarà abbastanza per convincere Isabella ad accettare l'incredibile proposta dell'avvocato Cullen? Sì, perchè la sua proposta non è affatto scontata.
Genere: Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Alice Cullen, Edward Cullen, Esme Cullen, Isabella Swan, Rosalie Hale | Coppie: Bella/Edward, Edward/Rosalie
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Capitolo Uno

 

 

 

Generalmente la gente era indecisa se scegliere la torta alla melassa o quella al lampone. Inutile dire che erano le uniche mangiabili in quella pasticceria. Sbuffai, guardando svogliatamente le due vecchiette al di là del bancone e facendomi vento con uno strofinaccio. Non che ci fosse caldo fuori, al contrario la neve continuava a scendere lenta fin dalle prime ore della mattina, ma dentro quel piccolo locale, con dietro la cucina, l’aria era asfissiante.
<< Signore, avete deciso? >>
Pronunciai scocciata, piegandomi con il busto sul bancone e appoggiando il viso su entrambe le mani.
<< Oh Signorina! E’ meglio che ci dia una mano lei! >>
<< Siamo sempre indecise su queste due! >> strillarono divertite.
Inarcai un sopracciglio e afferrai la torta al lampone. Quella alla melassa, che di solito era mangiabile, ora aveva un aspetto poco appetitoso.
<< Questa qui. Fidatevi. >>
Perlomeno non avrebbero rischiato un intossico. Com’è che quella pasticceria fosse ancora aperta io non ne avevo idea. Sarà forse che l’antipatica proprietaria era la figlia del vicesceriffo della città? Poteva darsi.
<< Ha fatto un ottima scelta, vero? >>
<< Sì! Era quella che ti dicevo anch’io! >>
Incartai la torta con il sottofondo dei loro borbottii eccitati, che alla fine mi strapparono un sorriso. Chissà se anch’io avrei raggiunto la loro età e mi sarei fatta ipnotizzare da una semplice torta. Era buffo, ma vero, una volta anziani era come tornare bambini e le cose semplici riprendevano la loro incredibile importanza.
<< Ecco a voi >> dissi più cordiale e schiacciai l’occhio a entrambe.
Dopo aver contato i loro innumerevoli spiccioli, che avevano riempito la cassa, se ne andarono ondeggiando. Sospirai e guardai l’orologio alle mie spalle a forma di gufo. Un orribile gufo. Per fortuna mancava meno di mezzora alla fine del mio turno.
<< Belletta? >>
Mi irrigidii immediatamente e incontrai gli sguardi divertiti di un signore di mezza età che stava osservando le torte esposte nel bancone. Cercai di fare finta di nulla e darmi un contegno ma fu tutto inutile. La voce di quella megera mi arrivò di nuovo alle orecchie. Non solo alle mie.
<< Belletta, cara, sei sorda? >>
Chiusi gli occhi per un attimo e misi a posto un ciuffo di capelli castani, sfuggiti dalla lunga coda. Mi diressi a passo svelto nella cucina e fulminai Mary con lo sguardo.
<< Non mi chiamo Belletta. >>
<< E’ molto carino, comunque dai sbrigati, devi andare da Mike. Mi servono subito altri ingredienti. >>
Guardai la sua figura coperta quasi interamente da farina, cioccolato in polvere e qualche liquido sconosciuto.
<< Stiamo per chiudere e ci sono ancora quasi tutte le torte che hai preparato stamattina sul… >>
<< Non fare storie, Belletta, altrimenti sei licenziata. >>
Avrei voluto scaraventarle addosso la ciotola con lo zucchero che avevo davanti e poi scappare da quella terribile pasticceria, ma non potevo permettermelo. Ero indietro di quasi due mesi con l’affitto e se non avessi pagato entro la settimana, la proprietaria mi avrebbe buttato fuori. Come avevano fatto tutti gli altri in questi anni.
<< Vado subito >>
<< Ecco brava, Belletta. >>
Mi prendeva in giro, lo sapevo benissimo e odiavo la mia situazione, per dovermi adattare a una cosa simile. Mi strappai di dosso il grembiule e chiamai Jordan, che stava nel retro.
<< Sostituiscimi per qualche minuto. La megera vuole altri ingredienti. >>
Jordan mi diede una comprensiva pacca sulla spalla e prese il mio posto dietro il bancone. Uscii di fretta e raggiunsi il rifornitore della pasticceria, in fondo alla strada. Presi tutto e tornai indietro.
<< Eccomi, puoi andare Jordan. >>
<< Agli ordini! >>
Gli sorrisi appena e lasciai il sacchetto sul piano di lavoro di Mary, con il risultato di alzare di colpo la farina su cui stava lavorando che gli finì in faccia.
<< Oh, scusami tanto. >> dissi candidamente, per poi uscire di nuovo.
Servì altri due clienti e poi mi tolsi, definitivamente, il grembiule.
<< Mary io me ne vado. >>
Nessuna risposta. Ero abituata, per cui presi la mia vecchia borsa in tela, che in realtà apparteneva a mia sorella e uscì nell’aria gelida della sera. Aveva smesso di nevicare e vidi dei bambini che facevano un pupazzo di neve. Anch’io e mia sorella lo facevamo con nostro padre, quando eravamo bambine. Il vicesceriffo era un uomo tutto d’un pezzo, ma riusciva a sciogliersi di fronte alle sue due piccole pesti. Sorrisi di quei ricordi ormai lontani. Misi le cuffie del mio vecchio e scassato mp3 alle orecchie e mi alzai il cappuccio della felpa. Il giaccone che mi aveva comprato la mamma mi sarebbe venuto ancora, ma lo avevo dovuto vendere a un barbone di strada, in cambio di quei pochi spiccioli che mi servivano per far mangiare me e Birba, la mia unica amica. Arrivai dinnanzi al piccolo portoncino della palazzina della signora Brenny, che in quel momento era affacciata al balcone del primo piano a parlare con la signora Green, della casa di fronte, la stessa che mi aveva cacciato di casa quando non le avevo dato i soldi dell’affitto. In quel periodo non lavoravo e quelle poche ore che passavo in qualche pub non bastavano. Feci in modo di non farmi vedere e mi fiondai dentro. Salii le due rampe di scale e feci fatica per aprire la vecchia porta di legno del mio mini appartamento. Una volta dentro, mi accolse la ormai anziana Birba, la mia gatta.
<< Ciao piccola. >>
Stavo morendo di freddo così accessi il piccolo fornello che avevo a disposizione e ci misi davanti le mani. Cercai di arginare le lacrime che impietose cominciarono a rigarmi il viso, fin quando Birba non si strusciò tra le mie gambe. Spensi il fornello e accessi il televisore in bianco e nero che il marito della sinora Brenny mi aveva gentilmente concesso. Si prendevano solo due canali e dovevo armeggiare con le due antenne dietro all’apparecchio per riuscire a vederli. Non che me ne importasse, ma mi faceva compagnia. Ero abituata a vivere in una famiglia rumorosa e quel silenzio opprimente, che conosce solo chi sa cosa vuol dire essere soli, rischiava di farmi impazzire.
Presi la scatoletta di Birba dal frigo e con un cucchiaio raccolsi il fondo e raschiai la lattina per racimolare i pochi rimasugli sparsi qua e la.
<< Mi dispiace Birba, è rimasto solo questo. Domani ti farò mangiare la mia pasta col brodo. Se ne parla dopodomani per comprarti di nuovo la scatoletta. >>
Speravo ardentemente che Mary non mi facesse scherzi, altrimenti non solo non potevo comprare nulla al supermercato ma potevo anche lasciare la casa. Rinunciai quindi alla cena, amareggiata da quella triste previsione, e sprofondai nella poltrona. Poco tempo dopo Birba si raggomitolò sulle mie ginocchia e rassicurata in qualche modo dalla sua presenza, crollai in un sonno senza sogni.

 

 

 

**********************

In qualche modo lo sapevo, ma sentirle davvero pronunciare quelle parole mi fece gelare il sangue nelle vene.
<< Mary non puoi farlo davvero. >>
<< Non solo, ma ti dirò di più. Ho ben pochi soldi quindi non posso più permettermi di avere qualcuno nel negozio. Ce la sbrigheremo io e Jordan, in qualche modo. >>
<< Mary tu hai il dovere di pagarmi. Se vuoi licenziarmi, va bene, ma dammi almeno i miei soldi. Sono due mesi che aspetto. >>
<< Mi dispiace, Belletta. >>
Per la prima volta quel nome orribile non mi fece alcun effetto. In un attimo avevo perso sia i soldi che il lavoro.
<< Non posso permettertelo. >>
<< E cosa hai intenzione di fare? A tutti gli effetti tu non lavori neppure qui, hai forse un contratto? >> mi canzonò, derisoria. Avrei voluto ucciderla. Credevo che mi avrebbe almeno pagato, sapeva benissimo che ero in mezzo alla strada. Lacrime di disperazione, umiliazione e rabbia mi appannarono la vista, ma non le avrei mai dato una soddisfazione simile. Presi un respiro profondo e con attenzione prelevai la torta alla melassa del giorno prima, che avevo sconsigliato a quelle due vecchiette. Poi, sotto lo sguardo perplesso della megera, gliela lanciai in faccia. Le sue urla attirarono Jordan, che arrivò trafelato.
<< Che cosa succede? >>
<< Nulla. Ci vediamo Jordan. >>
Uscii da quella terribile pasticceria e camminai a lungo, non sapendo dove andare. Cominciò a mancarmi l’aria e finalmente le lacrime, fino ad allora trattenute, scesero sulle mie guancie. Mi fermai di colpo, attirandomi le lamentele di un elegante signore al telefono, che per poco non mi era venuto addosso. Mi passò accanto, regalandomi un occhiataccia. Fu un attimo, vidi una fede intorno al dito della mano, che reggeva il cellulare, una busta e la ventiquattrore nell’altra. Immaginai che avesse una moglie e dei figli a casa. Faceva di sicuro una vita tranquilla e non aveva il timore di essere gettato fuori di casa da un momento all’altro. Lo osservai, fin quando non svoltò l’angolo, un sorriso al posto dell’espressione contrita con cui mi aveva guardato. Strinsi la mano sulla bretella logora della borsa in tela di Rosalie e senza neppure rendermene conto arrivai al cimitero. Pescai dalla tasca del jeans un dollaro sgualcito e lo allungai al venditore di fiori, li vicino. L’uomo, avvolto da un enorme cappotto nero ebbe forse compassione della mia figura e mi allungò un piccolo mazzetto di fiori colorati, invece del misero tulipano a cui avevo diritto con un dollaro. Lo ringraziai con un sorriso triste e mi avviai alla lapide dov’erano stati seppelliti i miei genitori. Avrebbero dovuto essere separati ma io e Rosalie avevamo chiesto di metterli insieme. Non appena vidi le piccole fotografie, l’uno accanto all’altra, mi piegai a terra senza forze e dopo aver spazzato via la neve poggiai i fiori sulla lapide. Con una mano, cercai di pulire le loro fotografie e li guardai a lungo, chiedendogli silenziosamente cosa dovevo fare. Ero sola in tutti i sensi. A venticinque anni non sapevo cosa fare della mia vita. Passai ore interminabili, appollaiata in quella posizione, sfogandomi con i miei genitori, fin quando non sentii più le gambe. Un piccolo tocco sulla spalla mi riscosse.
<< Scusi Signorina, è arrivato l’orario di chiusura. >>
Silenziosamente, il responsabile del cimitero mi lasciò di nuovo sola e io mi alzai, malferma sulle gambe. Sconsolata raggiunsi l’appartamento e come mi aspettavo la signora Brenny, avvolta in uno scialle di lana, mi aspettava fuori dalla porta.
<< Si può sapere dove sei stata? Devi pagarmi oggi. >>
<< Non posso. >>
<< Che vuol dire non puoi? >>
<< Non ho i soldi. >>
<< Come sarebbe? Sono due mesi che aspetto! >>
Avrei voluto dirle che stavo aspettando anch’io, ma che colpa ne avevo se Mary Odeon mi aveva licenziata e lasciata senza soldi?
<< Sono stata licenziata senza alcun preavviso e non sono stata pagata per due mesi, signora Brenny. >>
La sua espressione arcigna diceva tutto, così entrai e raccolsi le mie poche cose nello zaino nero. Infilai Birba nella sua gabbietta e uscii di casa.
<< Le chiedo scusa signora Brenny. Troverò il modo di portarle i soldi che le spettano di diritto e ringrazi suo marito per il televisore. >>
<< Mi dispiace ragazza, ma io non so più come aiutarti. Ho anch’io bisogno di soldi, mio marito non lavora da anni e io faccio pulizie per quasi tutto il paese per riuscire a mantenermi. Ho bisogno dei soldi dell’affitto, non posso farti stare ancora. >>
<< Lo so. Le darò i soldi. Lo prometto. >>
Lei sospirò e scese le scale, infilandosi nel suo appartamento. Io la seguii e uscì dal portone. Il miagolio di Birba mi richiamò. Mi sedetti sul marciapiede e la liberai.
<< So che hai fame e freddo, tesoro. C’è l’ho anch’io. >> le sussurrai, affondando il viso sul suo pelo. La pioggia scelse proprio quel momento per venire giù, così rimisi Birba nella sua gabbietta e mi ritirai sotto un balcone. Alzai il cappuccio della felpa, desiderando di avere ancora almeno il giaccone e cercai di capire cosa fare. Non potevo rimanere fuori tutta la notte o sarei morta assiderata. All’improvviso il vecchio furgone della mamma mi tornò in mente. Era ancora posteggiato vicino alla mia vecchia casa, ormai abitata dal Signor Brenton, proprietario di una falegnameria. Cominciai a correre sotto la pioggia, cercando di non disturbare troppo la mia gatta. Non ci volle molto per arrivare e con un tuffo al cuore rividi il vecchio Pick Up rosso ruggine sul ciglio della strada. Nessuno l’aveva più spostato da lì, dopo la morte dei miei genitori. Aprii lo zaino e cercai una piccola scatola rossa dove trovai le chiavi. Lo aprii e m’infilai dentro con Birba, la liberai e subito lei si posizionò sul cruscotto. Solo allora ricordai che spesso andava in giro con la mamma, quindi aveva riconosciuto il posto. Naturalmente non c’era alcun riscaldamento, ma era sempre meglio che stare sotto la pioggia. Aprii il cruscotto, facendo drizzare le orecchie di Birba e con mia enorme sorpresa trovai una piccola coperta. La mamma era solita viaggiare con quella sulle gambe, nelle giornate d’inverno, perché non voleva che papà le comprasse una macchina nuova solo per quello. Mi poggiai addosso la coperta, che era pregna ancora del profumo della mamma. Birba ci si infilò sotto e entrambe rimanemmo in quella posizione, osservando la pioggia battere sul vetro.

 

 

 

************************** 

 

Un ticchettio continuo mi svegliò all’improvviso. Mi spaventai quando vidi il viso di Jordan dietro il finestrino. Lo aprii e lo guardai confusa.
<< Bella che ci fai qui? >>
Cosa avrei dovuto rispondergli, a questo punto? Mi stiracchiai leggermente e il muso di Birba spuntò da sotto la coperta.
<< Non sono riuscita a pagare l’affitto. >>
<< Perché non sei venuta da me? >>
Non ci avevo neppure pensato. Avevo conosciuto Jordan nella pasticceria, da subito eravamo andati d’accordo, ma oltre qualche birra, non eravamo mai usciti insieme.
<< Non voglio disturbare nessuno, troverò una soluzione. >>
<< E nel frattempo vuoi continuare a dormire in questo furgone? >>
Aprii la portiera e mi tirò fuori, per un braccio.
<< Jordan non… >>
<< Basta storie! Prendi il tuo gatto e andiamo >>
Avevo troppa fame e sentivo troppo freddo per oppormi ancora, così afferrai Birba e il mio zaino nero. Non sapevo dove abitasse Jordan, ma lo scoprii poco dopo. Era una villetta molto simile a quella dei miei genitori, con un piccolo giardino d’avanti.
<< Scusa il disordine, ma vivo solo da un bel po’ ormai. >> disse non appena entrammo.
In realtà era tutto piuttosto ordinato ma non dissi nulla e posai Birba su una poltrona.
<< Posso, vero? >> dissi indicando il gesto che avevo appena fatto.
<< Sì, sentiti pure a casa tua. Tra l’altro mi piacciono i gatti, ne avevo uno da piccolo. >>
Sorrise e si avviò in cucina. Mi guardai un po’ attorno e constatai che anche la disposizione interna delle camere somigliava a quella di casa mia. Si trovava nella stessa zona, quindi dovevano essere state progettate tutte nella stessa maniera. Questo in qualche modo mi fece sentire più a mio agio in quel nuovo ambiente.
<< Bella, parliamo dopo. Adesso perché non vai di sopra a farti un bagno caldo? Io preparo la colazione, nel frattempo. >>
Jordan non mi dette tempo di rispondere e rientrò velocemente in cucina. Mi morsi il labbro, pensando che era quello che desideravo. Timidamente salii le scale con il mio zaino ed entrai in bagno. Decisi di farmi solo una doccia, per non occupare troppo i suoi spazi. Non c’era acqua calda nell’appartamento della Signora Brenny, quindi rifare una doccia calda fu un immenso sollievo. Mi feci anche lo shampoo, perché i miei capelli erano diventati un groviglio di nodi, con la pioggia e la neve. Cercai di perdere meno tempo possibile nell’asciugarmeli e poi scesi di nuovo giù. Sentii i miagolii di Birba in cucina e sorrisi quando la vidi con il muso all’insù, mentre osservava Jordan cucinare.
<< Eccomi, grazie mille. Jordan non so davvero come ringraziarti. >>
<< Smettila! Saresti dovuta venire ieri. >>
Mi lanciò un occhiata di rimprovero e io solo in quel momento notai il suo buffo grembiule con le orecchie da coniglio.
<< Oh, non farci caso. Questo coso l’ha lasciato quel bastardo, prima di andare via. >>
Inarcai un sopracciglio e ripensai alla sua frase, mentre lui mi metteva davanti un piatto strapieno di uova, bacon e pane tostato.
<< Sì Bella, io sono gay se te lo stai chiedendo. >>
Arrossii e lo guardai colpita.
<< Non me lo stavo chiedendo. >>
Mi guardò divertito e poi si sedette di fronte a me.
<< Ah! Cosa do al tuo gatto? Ho del riso con il tonno in frigo, rimasto da ieri. >>
<< Andrà benissimo grazie, ma non voglio disturbarti. >>
Lui si alzò di nuovo e dopo aver servito Birba si sedette nuovamente.
<< Sei un tesoro, davvero >> dissi di nuovo mentre cominciavo a mangiare.
Erano mesi che non facevo una colazione del genere e cercai di trasmettere tutta la mia gratitudine a quel ragazzo con i miei continui sorrisi di ringraziamento.
<< Bella non posso nemmeno immaginare come è stata la tua vita. So dei tuoi genitori e ho sempre pensato che sei una ragazza incredibilmente forte. >> disse non appena finimmo di mangiare.
<< Grazie Jordan, ma purtroppo non è così. Come vedi non sono in grado di badare a me stessa. >>
<< Questo non è vero. Pochi avrebbero la tua forza. >>
Sorrisi debolmente e pensai a mia sorella Rosalie. Se l’avesse conosciuta si sarebbe reso conto che la più forte delle due era lei. Si era fatta coraggio ed era andata a Chicago per cercare lavoro, io non avevo voluto lasciare questa cittadina, perché non me la sentivo. Non volevo abbandonare i miei genitori anche se sapevo bene che non c’erano più. La cosa migliore sarebbe stata seguire mia sorella, che si era fatta ospitare da una vecchia compagna di scuola e aveva fatto diversi lavori. Dopo due anni aveva incontrato l’uomo della sua vita. A me non piaceva molto, certo era bello fisicamente, ma aveva sempre quell’espressione così severa che quasi mi metteva a disagio. In realtà non l’avevo mai visto di persona, ma solo in foto e una volta l’avevo sentito al telefono. Ricordavo ancora la sua voce profonda augurarmi buon natale. Era stato lui a telefonarmi, non mia sorella che sembrava essersi dimenticata di me. Strinsi la mano attorno al bicchiere, da cui stavo bevendo e lo posai sul tavolo. Era il primo anno che stavano insieme, lei e Edward. I primi anni Rose mi chiamava spesso e per qualche mese riuscì anche a mandarmi pochi soldi in busta. Dopo che aveva conosciuto l’avvocato Cullen non si era fatta quasi più sentire. Mi aveva mandato una foto che ritraeva lei e il suo ragazzo, seduti su una panchina. Lei sorridente, con i lunghi capelli biondi sulle spalle e gli occhi azzurri chiarissimi, lui con un sorriso lievemente accennato ma un espressione quasi del tutto seria. Quella telefonata mi aveva sorpreso, lui voleva farmi gli auguri da parte di entrambi. Ricordo ancora il suono della voce spensierata di mia sorella in sottofondo, rumori di bicchieri, posate, come se stessero apparecchiando una tavola. Io invece ero in un Motel in cui avevo vissuto i primi anni con i pochi risparmi dei miei genitori, lavoravo in un negozio di animali e stavo guardando un vecchio film alla tv, con una tazza di cioccolata tra le mani. Quella sarebbe stata la mia cena di Natale. L’avevo ringraziato debolmente e avevo chiuso la comunicazione. In fondo ero contenta per lei, ma avvertivo un dolore sordo al cuore. Mi sentivo dimenticata dall’unica persona importante della mia vita. Non ero stata invitata nella sua nuova famiglia, cosa che io avrei fatto per lei. Non che volessi infilarmi nella sua vita, questo mai, ma volevo ricordargli che aveva una sorella di ventidue anni da sola in Motel la notte di Natale. Dopo neppure un mese vendetti il telefonino per poter fare la spesa. Nessuna traccia di lei da allora. Alle volte dimenticavo persino la sua esistenza.
<< Bella? >>
<< Sì? Scusami, ero sovrappensiero. >>
<< Ho notato. Senti io ora vado a lavoro. >>
<< E io tolgo il disturbo! >>
<< No, aspetta! Tu non vai da nessuna parte. Prima ti stavo dicendo che ho intenzione di chiamare il mio ex. Lui è il proprietario di un Hotel e mesi fa cercava qualcuno che si occupasse di fare le pulizie nelle camere. Forse ha ancora bisogno di qualcuno. >>
<< Jordan sarebbe fantastico, ma non voglio metterti in difficoltà. >>
Lui venne da me e mi abbracciò.
<< Per te questo ed altro. Tu riposati, io sarò di ritorno per pranzo. >>
<< Jordan, davvero non posso rimanere qui senza far nulla. Cercherò lavoro in giro. >>
<< Non se ne parla! Ti sei vista allo specchio? Hai delle occhiaie terribili, devi assolutamente dormire. Ti do la camera degli ospiti che non è stata quasi mai usata. >>
<< Non so come sdebitarmi. >>
Lui mi schiacciò l’occhio e dopo avermi baciato la fronte andò via. Presi un respiro profondo e portai il mio zaino nella stanza che credetti fosse quella degli ospiti. L’armadio era vuoto, lo scrittoio pure e il letto era perfettamente sistemato. La voglia di distendermi subito era forte, ma decisi di sistemare almeno la cucina. Non era educato approfittarmi della gentilezza di quel ragazzo. Trovai Birba che ancora leccava il suo piatto. Povero tesoro!
Le allungai una fetta di bacon rimasta sulla padella e lei la divorò in un attimo.
<< Solo per questa volta. Sai che ti fa male. >>
Lei mi guardò, leccandosi il muso più volte. Una volta sistemato tutto, tornai di sopra e finalmente mi distesi sotto le coperte. Gli occhi divennero pesanti come piombo e riuscii ad avvertire tutta la stanchezza che fino ad allora mi ero sforzata di ignorare. Ripensai alle parole di Jordan. Se veramente quel posto era ancora disponibile potevo ritenermi fortunata, anche se il solo fatto di aver incontrato qualcuno di così gentile sulla mia strada era un enorme regalo. Uno spiraglio di luce in mezzo alle nubi grigie che popolavano ormai la mia esistenza.

 

 

 

************

Ecco il primo capitolo. Ringrazio tutte le persone che hanno messo questa storia tra le seguite, preferite e le ricordate. Soprattutto mi scuso di nuovo e ringrazio ancora una volta le persone che mi avevano commentato precedentemente. Purtroppo per un errore la storia è stata cancellata, quindi credevo di aver perso i primi recensori. Per il resto… beh, spero che mi farete sapere qualcosa, capisco che spesso il prologo viene commentato poco, però insomma se non trovo riscontro nelle vostre opinioni mi sa che facevo meglio a non ripubblicarla questa storia. In ogni caso, per qualsiasi domanda o chiarimento io sono a disposizione!

P.S= Ho modificato la grandezza del font, perché alcuni di voi mi hanno detto che era troppo piccolo per poter leggere bene, quindi se ci sono ancora problemi mandatemi un messaggio, così posso risolvere. Purtroppo mi sa che ho un problema con il programma dell’HTML perché a me la fa vedere in una maniera e poi quando posto in un'altra, quindi non fatevi problemi a segnalarmelo!

A presto!

 


  
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