II
Non
lo troveranno. Non in tempi brevi, almeno.
Questa
è la sua spiaggia, il suo approdo privato. L’ha comprata per tenerci le
imbarcazioni e perché sia un rifugio, non per intrattenere ospiti. Non invita
mai nessuno e nessuno osa avvicinarlo tranne Sora e Kairi e anche loro di rado.
Non ha mai capito se per fastidio o per rispettare il suo desiderio di
solitudine.
Nessuno,
quindi, sorprenderà Roxas nella sua opera omicida.
O,
almeno, Riku spera che a nessuno venga in mente di venire qui proprio oggi.
Ancora
adesso ha incubi su quello che può fare un singolo nobody superiore d’alto
rango alle sue vittime. Forse
Roxas non è mai stato molto creativo nell’uso dei suoi poteri, non come
alcuni fra i suoi simili, ma potrebbe estinguere l’intera popolazione
dell’isola senza neppure cominciare ad avere il fiato corto.
Riku non prova grande trasporto per i suoi conterranei, ma non ha nessuna voglia di vederli preda del mostro.
Anche se la cosa, ormai, non lo riguarda. Roxas farà
degli abitanti dell’isola, poi dell’arcipelago, poi del mondo, quello
che vorrà. Lui non ha più potere né voce in capitolo.
Si
sente…
frizzare
svaporare
disperdere
svanire
morire
Tentacoli,
volute e spire di Oscurità si intrecciano a formare polmoni e un sistema
respiratorio fittizio per sostituire quello sfondato.
Con
maggior sforzo, si plasmano in neuroni, si diramano in assoni e dendriti,
allacciano e riconnettono sinapsi virtuali. Fili
di Oscurità si tendono e si aggrappano alle estremità dei nervi tranciati e li
riuniscono con un ponte neurale.
Suo
malgrado, Riku urla quando fitte di dolore che provengono da quelle parti del
suo corpo che dovrebbero - che bella parola, dovrebbero - essere isolate riescono
a superare l’abisso del suo sistema nervoso reciso e a raggiungere la
coscienza.
Ma
il tentativo dell’Oscurità di ricostruirgli un corpo efficiente è fallito in
partenza.
Quegli
organi sostitutivi nascono già avvelenati del keyblade e si corroderanno in breve tempo senza risanarlo.
Roxas ha un’espressione di blanda curiosità.
Sa benissimo cosa sta accadendo.
I
nobody sono creature del Crepuscolo. Non appartengono né all’Oscurità né
alla Luce, sono rifiutati dall’una e dall’altra, ma hanno potere su
entrambe. Roxas può vedere il processo chiaramente come vede la sabbia, il mare
e le palme. Meglio, probabilmente.
Riku
lo ha riconosciuto l’istante stesso in cui lo ha visto.
Anche
se lo ha chiamato e ha continuato a chiamarlo Sora, sperando che questo bastasse
a negare la sua esistenza.
Anche
se si sono incontrati oltre dodici anni prima e allora Roxas era solo un
ragazzino.
Anche
se non ha più pensato a lui.
A
parte l’insignificante particolare del suo assassinio - vuole credere che Sora
non avrebbe mai fatto una cosa simile, nonostante un suggerimento ricevuto tempo
prima che non è mai stato davvero dimenticato - ci sono differenze evidenti fra
i due.
In
realtà, non si somigliano molto, anche se i loro volti sono l’uno la copia
dell’altro ed è difficile dire dove differiscono, eccetto quel particolare
così evidente dei capelli biondi di Roxas. I singoli lineamenti sono
pressoché uguali. Nell’insieme, il risultato è del tutto diverso.
Il
viso sarebbe quello di Sora, se solo Sora fosse ridisegnato da un artista fissato con un canone ideale. C’è qualcosa di troppo perfetto e senza tempo nell’aspetto di
Roxas, quella perfezione così tipica dei nobody, non importa quale età
mostrano o quante cicatrici portano sul corpo. Roxas sta a Sora come Xemnas
stava a Xehanort.
Gli
occhi, più di tutto, sono diversi.
Occhi
troppo chiari, troppo brillanti, troppo fissi, senza fremiti.
Ma
è cambiato dal Roxas che conosceva. I nobody non invecchiano, però questo nobody ha trascorso dodici anni come parte di un essere completo e, adesso, di fronte a
Riku non c’è un ragazzino, ma un uomo adulto.
Dubita
che la cosa lo abbia reso più trattabile.
E’
stato cauto e prudente, Roxas. Di una cautela inutile, perché nello stesso
momento in cui sono stati Roxas contro Riku, Riku è stato spacciato ed è
abbastanza onesto con sé stesso da ammetterlo.
Non
esiste potere che gli avrebbe permesso di sconfiggere Roxas, a meno che non
avesse voluto farsi possedere ancora da Xehanort. E quello lo avrebbe escluso
anche se il vecchio demone non fosse mortosvanitosvaporato o qualsiasi altra
cosa facciano i demoni una volta fatti fuori. Quando non decidono di fare una
visita inaspettata a un vecchio amico, naturalmente.
A
meno che non avesse voluto usare ancora il potere dell’Oscurità. E questo lo
avrebbe invece più che considerato. Peccato solo che non usa quel potere da
quasi dieci anni e manipolare le Forze è sì una faccenda di essere, ma è
anche una scienza applicata e un esercizio. Dopo un decennio di inattività, gli
sono rimaste quelle doti inestricabilmente connesse al suo organismo, come
vedere al buio, ma se si fosse messo una benda per camminare con le tenebre
avrebbe solo finito per inciampare nei suoi piedi e correre sulle pareti
verticali di un grattacielo è qualcosa assolutamente da escludere.
Combattere
contro un guerriero nobody - contro Roxas, nientedimeno - rientra nei reami
dell’impossibile.
Non
può ragionevolmente pretendere che sarebbe riuscito a ritrovare l’antica
abilità in quella frazione di frazione di frazione di secondo passata tra
l’essersi accorto di una presenza alle sue spalle e il momento in cui il
keyblade lo ha praticamente tagliato in due.
A
ogni modo, Roxas non si è annunciato. Si è materializzato e lo ha colpito alla
schiena. La
lama laterale del keyblade si è incassata profondamente nella sua spina
dorsale, separando vertebre e fibre nervose. Mentre cadeva, un secondo colpo lo
ha preso al petto e ha mandato in briciole il torace.
Fine
della storia.
Sora. Maledetto te e le tue paure… Maledetto me per averti ascoltato.
Forse
non è giusto e i rimpianti sono inutili, ma al momento non si sente molto
giusto e i rimpianti sono le sole cose che gli restano, a parte osservare
l’essere che lo ha assassinato e tremare all’idea che sia di nuovo
sguinzagliato per i Mondi.
Per
adesso, il mostro ha la placida serenità di un arcangelo di pietra. Non ha
pronunciato parola da quando Riku si è rassegnato a riconoscerlo. Appare
trasognato, quasi.
“Non
mi uccidi?”
“Ti
ho ucciso.” mormora Roxas in tono lievemente sorpreso, come offeso all’idea
che Riku possa anche solo sospettare che proprio lui, il perfetto nobody, non
porti a termine una missione omicida una volta deciso di intraprenderla.
Non
vantarti troppo, ragazzo d’oro. Già per due volte non sei stato abbastanza pronto
a eliminarmi.
Ma
allora, tanto per cominciare, Roxas non aveva intenzione di ucciderlo.
Era stato attaccato e aveva solo cercato di difendersi.
Adesso,
invece, è stato lui a cominciare la caccia, quindi la finirà. Quelli della sua
stirpe portano sempre a termine quel che decidono di fare, qualunque cosa sia, e
non li si può convincere, pregare, impietosire, suggestionare, sottomettere.
Per fermarli, bisogna ucciderli.
E’
stata la prima lezione che gli ha impartito DiZ, quella.
I nobody sono incarnazioni della volontà ed è solo la volontà che li tiene in essere.
Però
Roxas ha ragione e lui non si sente in grado di contestarne l’affermazione,
neppure per illudersi. Ha
visto e causato troppe morti per non sapere che niente lo salverà.
Se
fosse umano, il primo fendente lo avrebbe tranciato a metà e il secondo sarebbe
stato solo un'inutile esagerazione, ma Riku non è umano da un pezzo. Non del
tutto, perlomeno.
Proprio
l’Oscurità, che gli dona una forza sorprendente, fornisce ai keyblade il
terreno per agire con la loro magia oltre che con le lame fisiche. Al tempo
stesso, la sua fondamentale umanità rallenta, ma non interrompe, l’azione
delle armi.
Che
fortuna.
Certo,
Roxas potrebbe decidere di dargli il colpo di grazia e mettere fine alla sua
agonia fin troppo consapevole, ma non è detto che una cosa simile
funzionerebbe.
Se
anche lo facesse a pezzi e dividesse il suo corpo in frammenti, forse
l’Oscurità manterrebbe viva la sua coscienza fino a quando non avrebbe più
potuto contrastare l’effetto del keyblade.
Immagina
che è questo il motivo per cui il giovane è qui a fargli la guardia.
Assicurarsi che muoia, anche se il processo dovesse metterci ore.
Oppure
non ha altro da fare.
Cerca
di non pensare alla faccenda dell’essere fatto a pezzi. Roxas potrebbe
leggergli nella mente e considerarlo un suggerimento.
“Sei
già morto, Riku. Il tuo corpo deve solo rendersene conto.” esita un attimo,
prima di continuare “Stai tranquillo. Per te non saranno mesi.”
Solo
Riku, ormai, è in grado di cogliere la malignità e l’amarezza di quella
frase.
E’
la cosa più simile a un’emozione esplicita ottenuta finora dal nobody. E’
una affermazione di odio puro. Una dichiarazione di guerra.
Spera
solo che non sia una sentenza di morte per i Mondi.
Per
creature che si suppone essere prive di emozioni, i nobody sono passionali in
modo inquietante. Perseguono i loro scopi con mezzi esclusivamente razionali e
cerebrali, ma lo scopo può essere benissimo di origine emotiva. Anzi, si può
dire che agiscano solo per soddisfare necessità di tipo emotivo. Ragione,
intelletto e concentrazione assoluta applicati al solo fine di esaudire passioni
egocentriche.
Riku
li ha visti distruggere universi per nostalgia. Cosa potrebbero fare per rabbia,
è qualcosa che non vuole neppure considerare.
*
* * * * * *
Il
funerale è finito e se ne sono andati tutti, eccetto lui e Sora
Kairi
è stata sepolta su una collina affacciata sull’oceano, un luogo dove soffia
sempre il vento.
Un
bel posto. Per quello che adesso può servire o importare a Kairi.
Ma
è il modo di fare dell’isola, questo. A vivere in un luogo simile, gli
abitanti hanno sviluppato la passione per il panorama. Tutto deve essere
perfetto, scenografico, spettacolare. Tutto deve essere fissato
nell’inquadratura giusta. Tutto deve essere ricondotto alla giusta estetica.
E’
il modo di fare di questo mondo.
Un
mondo troppo stretto.
Il
pianeta è quasi completamente ricoperto dagli oceani. La terraferma è
rappresentata solo da arcipelaghi di piccole isole, tutte confinate nella fascia
temperata e tropicale. Molte delle isole non sono che scogli disabitati. C’è
una sola cultura ed è anche troppo.
La
razza umana non è neppure autoctona del pianeta. Gli abitanti possono dire o
pensare quello che vogliono, non c’è spazio né condizioni sufficienti perché
si siano evoluti esseri come gli umani, né ci sono mai stati.
L’umanità
è arrivata da qualche altro mondo o qualche altra dimensione. Forse come
naufraghi o fuggiaschi, come la stessa Kairi. O come turisti, magari. Quella dei
turisti sembra a Riku l’ipotesi più probabile. Un gruppo di facoltosi e ben
equipaggiati turisti spaziali. Questo può spiegare l’alto livello tecnologico
della loro civiltà, la mancanza di progresso che sembra caratterizzarli da che
la loro storia ha memoria e li ha congelati in un’eterna scampagnata, la
sonnacchiosa soddisfazione che permea i suoi conterranei e l’indulgere pigro e
superficiale all’aspetto scenografico della vita, quella cosa a cui nessuno dà
vera importanza, ma a cui nessuno vuole rinunciare.
Devono
avere cercato attentamente per trovare un posto adatto all’ultimo riposo della
principessa venuta dal cielo, l’eroina delle guerre dei keyblade. E chissà
come ne romanzeranno la storia quando la racconteranno.
Tra
una o due generazioni, della vita di Kairi, quella vera, non resterà traccia.
Probabilmente
seppelliranno qui anche loro due, lui e Sora. Sora nel punto più assolato e
illuminato e lui in quello più scuro e all’ombra, nell’appropriata
rappresentazione simbolica delle loro esistenze.
Quando
arriverà il loro momento.
Il
più tardi possibile, grazie.
O,
forse, lo faranno solo con Sora. Come Eroe, Riku deve ammettere di essere un
po’ improbabile. E’ un po’ improbabile per qualsiasi definizione, a meno
che non ci si voglia riferire a lui come al semi-heartless addomesticato di Sora.
Per
quanto ne sa, una volta morto potrebbe benissimo svaporarsi in nebbia nera.
Riku
comincia a sentirsi morboso. Anche più del solito.
Il
cuore di Kairi ha ceduto, è quello che hanno diagnosticato medici e
taumaturghi.
Il
suo fisico è stato troppo provato negli anni in cui lei ha combattuto nelle
guerre, hanno detto.
Ne
ha passate troppo. La perdita del Cuore, la ricombinazione con Naminé, l’uso
del keyblade, che si nutre della vita del portatore, i residui energetici
accumulati con i viaggi tra i Mondi. Gli effetti si sono già mostrati in modo
orribile negli anni, questa è solo l’ultima e definitiva conseguenza.
E’
l’altra faccia della medaglia. Il corpo umano non è fatto per
incanalare quelle Forze senza danno. Lasciare scorrere in sé simili energie non è
diverso che lavorare con elementi radioattivi o tossici.
Kairi
aveva un Cuore possente, più di quello di chiunque, ma nel fisico non è mai
stata molto forte.
Sora
è in piedi di fronte alla neo tomba, perfetta icona del vedovo in lutto. Non c'è
traccia di sudore sull'abito nero.
Riku
ha voglia di togliersi la giacca e infilarsi in un paio di calzoni corti o in un
costume da bagno. Il caldo è tale da fondere le pietre, oggi. Nemmeno il vento
lo rende tollerabile. Sente quasi la pelle friggere.
Si
sfrega lievemente le tempie. Gli fanno male. Colpa degli occhiali da sole. Dove
le stanghette si appoggiano alle orecchie, partono fitte di dolore che, poco per
volta, si sono diffuse all’intera testa.
Li
toglie un attimo e, con una bestemmia sottovoce, li rimette subito, mezzo
accecato dalla luce.
Se
mai avesse bisogno di un’ulteriore riprova al fatto che la sua razza non è
originaria di questo mondo, gli basterebbe guardarsi allo specchio. E’ del
tutto privo di difese biologiche contro le condizioni ambientali del pianeta e,
pur con la variabilità individuale, gli altri abitanti dell’isola non sono
diversi da lui. Occhi chiari, pelle priva di pigmentazione, scarsa capacità di
termoregolazione alle alte temperature. La loro intera specie non è adatta a un
mondo inondato di radiazione solare, luce e caldo.
I
suoi pensieri se ne stanno andando per i fatti loro. Non starebbe dissertando
con sé stesso sull’evoluzione umana, altrimenti.
E’
che non sa cosa dire o cosa fare. La morte di Kairi è qualcosa che si è
trovato spesso a considerare probabile. In certe occasioni anche molto
probabile, proprio come la morte di Sora e la sua stessa morte, ma, di sicuro,
non ha mai pensato a lei stroncata dalle coronarie a ventotto anni. Non dopo
essere sopravvissuta alle guerre e a Saïx.
Magari
è quello che vuole pensare per non ricordare che è stato lui a darle il
keyblade.
“Se
hai bisogno di qualcosa…” comincia Riku, giusto per rompere il silenzio.
“No.
Va tutto bene.” ribatte seccamente Sora.
Riku
non insiste.
Si
avvicina di qualche passo alla parete della collina che scende a picco verso un
mare blu scuro con chiazze bianche di schiuma.
Conosce
la spiaggia che sovrasta.
E’
proprio lì che, anni prima, lui, Kairi e Sora si recavano spesso, prima del
sorgere del sole, rubavano il motoscafo a qualcuno dei residenti - e questa era
sempre un’idea di Riku - e lo portavano fuori dalla baia, in mare aperto, per
spingerlo alla massima velocità e gridare pazzamente e gareggiare con i pesci
volanti che fuoriuscivano dall’acqua come stormi di uccelli iridescenti,
alterando la superficie specchiante del mare all’alba.
Poi si immergevano in apnea, facendo a chi riusciva a restare più sotto e
andare più in profondità. Ed era sempre Kairi quella che vinceva ed emergeva
stringendo una conchiglia piatta delle sabbie per provare che era arrivata fino
al fondo, e li sfidava a batterla, se ci riuscivano, e si reimmergeva subito,
come fosse un delfino, uno di quei delfini maculati che ogni tanto si avvicinano
alla riva.
Erano
lui e Kairi che guidavano. Erano lui e Kairi i primi ad avventurarsi in nuove
imprese, i primi a tentare. E Sora dietro a loro. C’era sempre qualcosa a
frenarlo, qualcosa che non gli permetteva di trasformare quello che avrebbe
potuto fare, in quello che voleva fare.
Eppure,
Sora è il ragazzo che si è lanciato fra i Mondi armato di speranza, sacro
fuoco di giustizia e una chiave gigante. Non era il coraggio che gli mancava,
quando erano bambini. Era la motivazione.
Ma
c’erano loro due, per quello.
La
loro infanzia è stata bella. Ne ha buoni ricordi. Adesso riesce a considerare
buone anche le liti.
Ma
qualcosa è andato male, a un certo punto. Qualcosa si è rotto e, anche dopo
averlo aggiustato, le linee di frattura sono sempre state lì, pronte a
spezzarsi alla minima tensione.
Il
suo legame con l’Oscurità. Quella cosa che Sora è sempre stato incapace di
dimenticare e perdonare, non importa quanto si sia sforzato.
Man
mano che ha imparato cos’è l’Oscurità, Riku ha cominciato anche a capire
che in essa non c’è nulla di male e nulla di bene, se non che è una delle
forze costituenti l’universo, qualcosa senza la quale niente potrebbe esistere, almeno
non nella forma attuale, quindi si può definire buona, ma
questo è il solo significato morale che le si può attribuire. A essa e a tutte
le altre Forze.
Lui
è solo nato capace di manipolarla e questo non lo rende necessariamente un
mostro, non se decide di non esserlo.
Se
invece che in un’isola persa nel nulla fosse nato in un mondo come Radiant
Garden, avrebbe potuto studiare e diventare un grande mago o un grande
accademico. Sarebbe stato aiutato e seguito. Gli avrebbero insegnato a usare
le sue doti.
O
sarebbe stato annegato alla nascita. I manipolatori di Oscurità si portano
addosso le stimmate del male su molti mondi.
Tutto
questo Sora non è mai riuscito a capirlo. E’ sempre stato sicuro che
l’Oscurità sia qualcosa di intrinsecamente malvagio e, alla fine, anche Riku
si è convinto delle sue ragioni. Così, ha deciso di negare la propria natura e
ha passato l’ultimo decennio cercando di liberarsi, per quanto possibile,
delle tenebre e di qualsiasi cosa lo leghi a esse.
O,
forse, non ne è mai stato davvero convinto e lo ha fatto per quieto vivere.
Vuole
solo pensare di non averlo fatto per una specie di assurdo e autolesionistico
sistema per fare ammenda dei suoi peccati.
Ma
l’Oscurità fa parte di lui e non può strapparsela di dosso ed è solo
riuscito a non essere più capace di usare proficuamente i suoi doni. Come un
uomo nato con le capacità di un atleta che smette di fare esercizio, i suoi
muscoli si sono atrofizzati.
La
cosa ironica è che Sora non lo ha mai accusato per quello che ha fatto come
seguace della Strega o per avere aperto la porta delle tenebre sull’isola. Non
gli ha mai fatto pesare le vite perse a causa delle sue azioni. Ma non accetta
il suo legame con l’Oscurità. Non accetta che Riku cerchi di considerarla
parte normale della sua vita. Fino a che la combatte, va bene, anche se poi
finisce per cedere, ma non deve fare compromessi. Non deve vedere in essa nulla
di meno che negativo.
Ma
non può incolpare solo Sora per quello che è capitato. Lui ha fatto la sua
parte. Fosse solo che è stata sua la scelta di accettare una tale restrizione.
Adesso,
si ritrova qui e non riesce neppure a dire qualcosa al suo migliore amico
riguardo alla morte della moglie, che è stata, incidentalmente, la sua seconda
migliore amica, ex amante, ex alleata nelle guerre, ex avversaria, ex un sacco
di cose.
Irrispettoso
o no, Riku deve togliersi la giacca e slacciare i primi bottoni della camicia a
collo alto, o corre il rischio di sciogliersi.
Sotto
di lui, le onde appaiono immobili, come se l’oceano fosse pietrificato. Solo
quando fissa lo sguardo su una delle creste di schiuma e la osserva a lungo
senza distogliere l’attenzione, riesce a cogliere il suo lento avanzare.
Non
si è mai accorto che l’altezza crei simili strane distorsioni sensoriali.
E’ un po’ come se, da un punto di osservazione tanto lontano, lui non faccia
parte della stessa sequenza temporale del mare.
Qualche
volta, sogna che le navi atterrino di nuovo.
Qualche
volta, sogna altri esseri, forme che suscitano risa o disgusto, ma sempre,
sempre meraviglia.
Non
vuole credere di sognare che si frantumino ancora i muri fra i Mondi.
Non lo fai?
Di
certo, ogni tanto, sogna di poter riaprire i corridoi delle ombre.
Facile,
no?
Tocca
una superficie. Si può fare anche nell’aria o in un liquido, ma a contatto
con un solido è più semplice. Un solido a reticolo cristallino è il meglio di
tutto.
Ora
devi risolvere una certa equazione a molte incognite - e devi farlo a mente
- fino a che non c’è uguaglianza fra la materia sotto le dita e il pensiero.
Adesso che sono in fase, puoi vedere la disposizione atomica.
Centra
e zooma l’immagine.
Gli
atomi sono formati da elementi costitutivi, che sono a loro volta formati da
altri elementi costitutivi. Se riesci ad aumentare l’ingrandimento a
sufficienza, ti accorgi che, alla fine, tutto si riconduce a filamenti di cinque
elementi fondamentali e dei loro contrari. E’ un po’ come guardare un
giornale. Se ti avvicini abbastanza, ti accorgi che quelle che a distanza
sembrano immagini e scritte, sono in realtà una miriade di minuscoli puntini di
pochi colori base.
Bene,
a questo punto cerca di guardare fra i puntini. Bisogna proprio focalizzare la
vista, per questo, ma si può fare e quando ci riesci… sorpresa! Tra un
puntino e l’altro, ecco apparire la matrice grigio-nera. Il luogo che sta
dietro agli universi. Il teatro che contiene il palcoscenico dove c’è la
rappresentazione.
Se
sei così in gamba da essere arrivato sin qui, allora lo sei per intrufolare una
sottile sonda di pensiero fra i puntini e toccare la matrice, e usare questo
filo di pensiero come leva per allargare il passaggio - niente paura se
compaiono spirali, fumo e sbuffi neri. Sono tutte lagne che fa l’universo
- per attraversarlo e ritrovarsi al di là. Dietro al palcoscenico.
I
nobody, con il loro straniante senso dell’umorismo e la mania per i nomi
altisonanti e vagamente poetici, lo chiamano - lo chiamavano - il Mondo
in Mezzo e Altrove. Un po’ eccessivo, sicuro, visto che non è un Mondo, non
sta in mezzo a niente e altrove a nulla, semmai il contrario, e questo lo hanno
scoperto proprio i nobody. Ma, in fin dei conti, i nobody sono stati i primi
esseri senzienti a conoscerlo, a studiarlo così approfonditamente e adoperarlo
così estensivamente. Era un po’ in loro diritto dargli il nome. Anche un nome
tanto ridicolo e fuorviante.
Adesso
che sei di là, viene la cosa difficile. Davvero difficile. No, non
sopravvivere. Strano a dirsi, ma ci si sopravvive benissimo, freddo permettendo.
Il difficile è arrivare da qualche parte e arrivarci sani di testa.
Non
ci sono veri sistemi di riferimento. Hai un punto di partenza, si presume che tu
ne abbia uno di arrivo. Devi tracciare una rotta che unisca i due punti e devi
farlo senza compasso, senza astrolabio, senza sestante, senza GPS, senza nessun
sistema di navigazione tranne il tuo cervello, senza nessun modo di
rappresentarla in concreto. Devi disegnare la mappa giusta, devi riuscire a
immaginarla nei minimi dettagli, fino a quando non la vedi come se fosse solida
e presente, ed è qui il problema, perché nessuno ha abbastanza concentrazione
da fare una cosa simile. Proprio nessuno. Infatti, i nobody potevano perché la
loro capacità di concentrarsi era pressoché infinita. Perché ci riuscivano
gli heartless, che, salvo un’eccezione o forse due avevano le capacità
intellettive di una larva di zanzara, solo i cieli lo sanno.
Quando
hai la rotta, devi calcolare il vettore di spostamento e seguirlo. Senza mai distrarti, neppure
una frazione di istante, o ti perderai nelle nebbie. O impazzirai. O entrambe le
cose.
Se
ci riesci, allora vuol dire che puoi camminare lungo i sentieri dell’ombra e
navigare fra i Mondi senza bisogno delle navi. Come i nobody. Come gli heartless.
Tutto
qui.
Facile.
Peccato
che gli esseri umani e, in generale, tutti gli esseri completi non possono
farlo.
Peccato
che tu, Riku, sei stato capace di farlo.
Il
che lascia sgradevoli quesiti sull’umanità. Nello specifico, sulla tua
umanità.
Ma
era esaltante poterlo fare.
Oh,
quanto esaltante.
Essere
liberi.
Ma
i Mondi sono di nuovo sigillati e i viaggi finiti. Sei qui, Riku. Qui resterai.
Qui morirai. Esiliato dietro la porta chiusa.
I
viaggi sono finiti.
La
libertà è costata il caos.
Valeva
la pena?
Il
caos per la libertà.
“C’è
odore di tempesta.” mormora Sora “Non uscire in mare, oggi.”
Riku
cerca di liberarsi dall’ottundente presenza della Luce che satura tutto il
loro mondo. E’ un po’ come cercare di vedere attraverso una garza fitta.
Persino Sora tiene una mano a schermargli occhi.
Non
c’è traccia di nubi, ma Sora ha ragione. Il vento è quello che porta cattivo
tempo.
I Mondi per la libertà.
Valeva la pena?
Riku
si avvicina ancor più al limite dello strapiombo, fino a essere direttamente
affacciato sul vuoto. Qualche ciottolo scivola sotto le suole e cade oltre il
ciglio.
Senza
troppa convinzione, ma anche senza fare resistenza, si fruga nella mente e cerca
di ritrovarne la chiarezza.
Così,
giusto per vedere se ci riesce ancora.
La
chiarezza che ordina il pensiero.
Il
pensiero che risolve la formula.
La
formula che apre la porta.
La
porta che permette la fuga.
Dall’isola.
Dalla gabbia.
“Riku…”
C’è
un lieve tono di avvertimento nella voce di Sora e Riku si allontana dal
precipizio. Però il monito non si riferisce a quello. E’ stato più come un
tirare di redini. Leggero, impietoso e inflessibile.
Gli
occhi di Sora sono del colore del mare in inverno. Più grigio che blu.
Da
sotto la superficie che è l’Uomo, affiora il Custode del keyblade.
Riku
rabbrividisce nel caldo e nella luce.
Migliaia,
milioni di vite per la libertà.
Valeva la pena?
“Non
ho sentito i bollettini nautici, ma credo ci vorrà almeno ancora un altro
giorno.” risponde Riku, in tono neutro.
Sora
gli ha voltato le spalle. Adesso lo ignora completamente.
E’
diventato un po’ strano dopo i loro viaggi e/o conseguente salvataggio dei Mondi conosciuti e svariate dimensioni del tutto ignote.
Ogni tanto, fissa le
cose come se non fosse troppo sicuro della loro vera natura. Ogni tanto, parla da solo o ascolta voci che non esistono. Ogni tanto, cammina
nel sonno e deve essere recuperato nei posti più impensabili. Ogni tanto, scoppia
a ridere quando non c’è proprio nessuna ragione per farlo, oppure resta
imbambolato e piange in mezzo all’allegria generale.
E,
ogni tanto, osserva la gente come se studiasse il punto migliore dove colpire.
Riku
ha la sensazione che a Sora manchi un nemico da distruggere.
Insomma,
Sora è bravo, buono e bello, ma non è mai stato precisamente l’Eroe
Riluttante. Non è come se non ci provasse gusto a squartare heartless e nobody,
soprattutto quelli sospettosamente simili a persone.
Ma
chi, fra loro, non è diventato strano?
Valeva la pena?
“Sora,
mi chiami. Per qualsiasi cosa, tu mi chiami.”
Sora
ha già cominciato a scendere il sentiero che porta giù dalla collina e non risponde.
Vale la pena?
Xehanort
ridacchia e fa un commento non proprio educato all’indirizzo della sua onestà
intellettuale.
*
* * * * * *
E’
il capodanno del pianeta capitale di quel sistema solare e il mondo è in festa.
Le
strade della città sono piene di musica e di gente con maschere nere e dorate e
lunghi nastri di seta intorno ai polsi e alla fronte.
I
palazzi filigranati sono decorati di veli e ghirlande di fiori, e fragili navi
con polene di vetro soffiato e quarzo solcano i canali dove sono stati riversati
quantità di organismi bioluminescenti che accendono le acque di flussi
policromi.
Lui
cammina per le strade, apparentemente senza meta, coperto di pelle nera dalla
testa ai piedi, invece che dalle vesti sciolte e variopinte portate quasi da
tutti.
E’
bellissimo con quei suoi strani abiti e lei lo nota subito.
Forse
è un marinaio sbarcato da poco, che non ha avuto modo di trovare un costume
adatto.
Oppure è un alieno. Uno di quelli che talvolta lasciano le sedi diplomatiche e le visite
ufficiali per avventurarsi nelle vie della città e osservare stupefatti il loro
mondo. Uno di quelli che provengono dagli altri piani della realtà e che non
sempre hanno aspetto umano.
Se
davvero è un alieno, questo è umano abbastanza.
I
suoi occhi sono azzurri e verdi e grigi e così trasparenti che sembra ci si
possa immergere e scendere di strato in strato e non raggiungere mai il fondo.
Hanno il colore dei laghi sotto il sole dell’estate e dei torrenti dopo il
disgelo e, se si guarda bene, ci sono bagliori argentati e dorati, proprio come
il riverbero della luna e del sole sull’acqua.
Le
vengono in mente tutte quelle stupide metafore dozzinali e non capisce da dove
saltino fuori, e se ne vergogna, perché è una ragazza moderna e le ragazze
moderne non pensano e non dicono, soprattutto non dicono, simili imbarazzanti
sciocchezze. Così, gli dice solo che è bellissimo, anche se dentro di sé
continua a pensare a torrenti e a laghi.
Lui
ride e le mormora all’orecchio.
Camminano
su strade lastricate dove ogni piastrella porta impresso un diverso simbolo
araldico, lungo le rive di pietra scolpita dei canali. Le tiene la mano con dita
guantate e le trattiene lo sguardo con il sorriso.
Adesso
sono qui, sotto un pergolato di cristallo, le colonne ricoperte da rampicanti
dalle foglie rosse e lui la sta baciando.
Poi cominciano a ballare, al ritmo della musica che riempie le strade.
Lei
è ubriaca.
Ma
il giovane è troppo veloce e c’è forza nel suo abbraccio. Quel genere di
forza opposta che si subisce quando si nuota in una leggera corrente contraria.
Quella forza che non si avverte sino a quando non si cerca di fermarsi e, allora,
ci si rende conto che la corrente non lascia andare, che contrastarla è molto
più difficile del previsto.
Un
velo di sudore copre uniformemente la pelle della ragazza.
“Basta…”
esclama ridacchiando.
Lui
non si ferma. Anzi, aumenta la velocità e il ritmo. La donna incespica, cerca
di svincolarsi e non riesce. In
un istante, il sudore diventa copioso al punto da inzupparle gli abiti.
Una
fitta di dolore, contemporanea e in tutto il corpo. Come se ogni singola cellula
fosse stata punta da un ago elettrico.
Lei
sbarra gli occhi ed emette un grido di sorpresa.
Non
sono soli. Due figure si sono materializzate in cima a due delle colonne.
La
ragazza incespica, spaventata dalla loro presenza inaspettata. Spaventata
dalla loro comparsa, perché fino a qualche secondo prima non c’erano e non è
possibile che si siano arrampicati fin lì senza che lei se ne sia accorta.
Anzi, non è proprio possibile che si siano arrampicati e se ne stiano lì. La
cima di quelle colonne rastremate ha un diametro troppo piccolo perché una
persona ci stia sopra così tranquillamente.
Spaventata
che siano qui, con gli stessi strani abiti neri del suo accompagnatore.
Riesce
a guardarli bene per un attimo e si accorge che sono contrapposti nel loro
aspetto.
Uno è un ragazzino biondo, rigidamente eretto in piedi con le mani dietro la schiena. L’altro un uomo massiccio, acquattato sulla colonna come il doccione di una cattedrale. I suoi strani e lunghi capelli neri sono agitati dal vento. Solo che non c’è vento, neppure un alito.
Il
giovane ride mentre stringe la ragazza per le mani e la fa girare intorno a sé.
Il sudore comincia a gocciolare a terra.
La
fitta di dolore si ripete e questa volta non si interrompe.
Ci
sono anche altre presenze insieme a loro, ombre pallide e oscillanti dalle
proporzioni grottesche. Sono comparse un po’ dovunque nello spazio sotto il
pergolato e fra le colonne e continuano a comparire.
A
un tratto, è ferma e libera. Le è permesso cadere a terra. Le è permesso
tremare e piangere.
Però
le lacrime sul suo volto si stanno prosciugando. Si prosciugano le lacrime non
ancora versate.
Sono
mostri, quegli esseri. Cose orribili, bianche come larve o fiori cresciuti al
buio.
E
ondeggiano.
Avrebbero
quasi forma umana, se gli umani fossero deformati da un incubo.
Ondeggiano.
Arti
gracili e disossati e punte uncinate al posto delle mani.
Ondeggiano.
Teste
enormi, occupate solo da bocche smisurate.
Ondeggiano,
ondeggiano, ondeggiano.
Un
moto perpetuo e nauseante.
Cerca
di urlare, ma dalla gole le esce solo un gemito prolungato.
Il
dolore è una pulsazione lenta e continua e in crescendo, ogni picco più alto
del precedente.
Ogni
ombra di ebbrezza è stata spazzata via. Non è mai stata così lucida e non ne
capisce la ragione. Il dolore dovrebbe stordirla, dovrebbe gettarla in un panico
demente, non acuire i suoi pensieri.
Ha
le mani viscide. Le guarda e si accorge che sono fradice. Le sfrega sui vestiti
per asciugarle, ma sono di nuovo, subito, bagnate.
Il
bambino la osserva con occhi che sembrano pezzi di vetro azzurro, troppo grandi
per il suo volto.
Non
c’è crudeltà sul quel viso, non c’è divertimento, né interesse, né
compassione. Se non fosse per i suoi pochi, apatici movimenti, se non fosse per
i suoi colori così vivi e luminosi, sembrerebbe una statua di cera. O un
cadavere.
Rivoli
d’acqua escono dalla bocca e dal naso e dai pori della ragazza, la pelle
ribolle. E’ scossa da un tremito convulso e picchia la nuca contro terra. Il
suono lamentoso che emette si scioglie in un gorgogliare luttuoso.
Si sta dividendo in due.
Sta
per nascere un suo doppelgänger. Riesce quasi a vederlo. E’ una seconda
immagine gelatinosa e fluida che si sovrappone al corpo di carne e diventa più
definita di secondo in secondo. Un doppione fatto di acqua che smania per svincolarsi dalle catene della solidità.
Tira,
strattona, lacera, strappa.
Non
ha mai provato tanto male. E’ sicura che ogni cellula del suo corpo si stia
gonfiando sino al punto di rottura.
Il
dolore è qualcosa che aiuta il clone a liberarsi, che lo spinge fuori, che lo
concretizza, che lo rende più forte di lei e lo assiste nel venire al mondo.
Quando
sente che il suo essere è proprio sul punto di scindersi, il mostruoso
travaglio si blocca.
Il
dolore è congelato nel momento del suo massimo picco. I fluidi del suo corpo
vibrano in uno stato di indeterminatezza. La mente si sta per liquefare.
L’uomo sulla colonna si sporge verso di lei. Ha qualcosa di belluino nella posa e nell’aspetto, ma gli occhi viola brillano di una lucida intelligenza esclusivamente razionale.
Non cade, anche se è impossibile non cadere da una posizione così squilibrata e precaria.
Adesso lei sa che sono davvero
alieni e che non fanno parte di una delegazione diplomatica.
Da
qualche anno, arrivano voci e racconti da altre dimensioni. Voci di mostri neri
e bianchi. Voci di mondi morti e dissolti.
Quando
le voci sono diventate più consistenti, il governo ha deciso di costituire una
forza di difesa. Ma
è un mondo di pace, questo, un mondo dove la violenza è sconosciuta. Non è un
popolo di combattenti e le voci provenienti dalle altre dimensioni non bastano a
cambiare una realtà radicata da generazioni.
Ora,
qui, ci sono mostri bianchi e mostri neri.
Il
ragazzino biondo ha il suo sguardo inumano fisso su un punto dello spazio.
All’improvviso,
alza una mano in un gesto imperioso. Subito, lui e l’uomo con gli occhi viola
svaniscono in una nebbia nera e tentacolare. Gli esseri bianchi li imitano e
spariscono uno dopo l’altro.
Lei
è di nuovo sola con il giovane che l’ha attirata in questa trappola.
Ha
sempre creduto che, in qualche modo, i mostri rivelino la loro natura
nell’aspetto. Non che siano necessariamente orribili o repellenti, ma che
abbiano comunque qualcosa che li tradisca. Uno sguardo freddo, sinistro. Un
sorriso ambiguo. Un’impressione di minaccia. Qualcosa del genere, almeno.
Qualcosa
che può anche essere affascinante, ma in modo distorto.
Non
è così. Certi mostri sono invitanti come la superficie di un mare
sereno.
Il
giovane libera la donna da quella situazione di stasi in cui è bloccata e tutta
l’acqua fuoriesce di scatto dal suo corpo, separata dalle altre componenti.
Gli
occhi si prosciugano. I bulbi oculari implodono in polvere, la pelle si asciuga
e si crepa, le labbra si ritirano e i denti cadono dalle gengive disseccate. Il
sangue si incenerisce, si spaccano le membrane cellulari.
La
ragazza si scioglie in qualche decina di litri d’acqua.
Lo
spazio si rompe. Dalle brecce, sciami di creature nere si rovesciano come sangue
da una ferita.
L’agonia
di un unico essere è stato il loro faro guida per questo mondo.
Mentre
si allontana dai pochi chili di materia disidratata rimasti a terra,
l’assassino canta con la voce della pioggia. Sul lastricato scolpito della
piazza, una pozza liquida danza in una parodia di vita, prima di defluire nei canali.
In
città, la musica è sostituita da urla.