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Autore: ikuccia    29/09/2012    1 recensioni
Certi sentimenti non mutano nonostante il trascorrere del tempo. Sono sentimenti immortali che nascondono patti, ricordi, appartenenze che muovono i fili del destino affinchè due anime gemelle si ritrovino. Mai soprannome poteva rappresentare meglio la natura di due ragazzi: Pan e Trilly. I loro nomi erano ispirati ad un racconto ma, a volte, le fiabe non fanno altro che raccontare verità...
Era amore il loro; era destino.
Un incubo li faceva incontrare ed anticipava la realtà...
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Percorrevo lentamente il lungo corridoio che mi portava verso l’aeroporto mentre gli altri passeggeri mi passavano accanto con una certa fretta, forse desiderosi di porre fine a quella traversata.
Io non sentivo quella loro stessa necessità e proseguivo lentamente, assaporando ogni passo, un piede dopo l’altro, mentre mi inoltravo in Heathrow: ero finalmente a casa.
Erano sette anni che il destino ed il mio lavoro mi avevano tenuto lontano da quei luoghi d’infanzia.
Ero diventata famosa per il mio blog e le mie parole mi avevano portato lontano: la ragazzina che scriveva il suo diario virtuale in cui raccontava gli stili e le mode del momento era diventata una vera esperta di stile e la sua penna, o meglio il suo digitare, era stato rivendicato dalle più importanti copertine del settore. Scrivevo e viaggiavo. Vivevo di sfilate, mostre, tessuti, accostamenti e accessori che trasformavo in articoli. Avevo visto il mondo e lo avevo raccontato lettera dopo lettera, ma tornare nella mia città natale mi aveva suscitato uno strano turbamento.
Non era gioia. Non era quel calore che si diffonde quando chiudi il mondo alle spalle e ti ritrovi in un luogo che non può ferirti. Era diverso.
Era stato il brivido che aveva percorso la mia schiena non appena l’aereo aveva toccato il suolo. Era stato quell’odore forte di vita e di ricordi che bruciava nelle narici. Era stato il peso di una presenza che prima ti apparteneva ma che ora non riuscivi a ricordare, proprio come quella parola che resta bloccata sulla punta della lingua e tu necessiti di pronunciarla.
Era una sensazione strana, pesante e che metteva a disagio eppure mi rendeva felice perché, finalmente, ero tornata.
Erano passati sette anni . . .
“Miss Troy ben arrivata, prego mi segua” mi disse l’autista che mi aspettava nel corridoio degli arrivi. Gentilmente l’uomo si caricò del peso del mio trolley e mi guidò verso la vettura che mi avrebbe condotta verso la mia dimora.
Appena fuori da quel corpo di cemento e anime, che si trascinavano le proprie vite formato bagaglio, alzai la testa al cielo.
C’era un aria pesante quella sera ad accogliermi; un’aria che nascondeva una presenza di cui non avevo più memoria ma che continuava, insistente, a farsi percepire.
Densi nuvoloni scuri si ammassavamo soffocando ogni barlume di stella, persino la luna ne era rimasta intimorita tanto da cedervi il suo spazio e decidere di non fare la propria comparsa.
L’aria era cupa ed elettrica e pesava su ogni mia molecola.
Raccolsi profondamente quell’aria in me e quel mio vibrar di polmoni fu accompagnato da un tremendo frastuono e subito fu uno scrosciare fitto e pungente.
Le gocce mi cadevano sul corpo e lo ferivano con la loro violenza; squarci di luce preannunciavano cupi rumori che procuravano brividi di terrore nelle mie membra.  Londra mi stava dando il suo saluto e mi stava inondando con la sua acqua, quasi a volermi lavare via di dosso l’odore e il ricordo delle altre città che mi avevano ospitato.
Ero tonata.
Continuavo a tenere li occhi chiusi e a respirare quel temporale quando la mia pelle non percepì più quel precipitare; l’autista mi aveva riparato con un ombrello scuro invitandomi a seguirlo verso la vettura.
Mi accomodai sui freddi e scuri sedili posteriori ed iniziai a fissare l’asfalto bagnato che correva sotto la nostra marcia; Londra  vi si rifletteva disegnando qualcosa di unico, di nuovo, di consueto, qualcosa del mio passato.
Mi era mancata quella città; mi era mancato quel suo odore di pioggia e di vita; mi era mancata casa.
Il suono monotono di quel rincorrersi d’acqua iniziò a pesare sulle mie palpebre, complice anche la stanchezza, e mi lasciai andare.
. . . Correvo per delle stradine alberate e degli occhi scuri e illuminati da una strana luce mi stavano seguendo. Non avevo paura, anzi ridevo; doveva essere uno strano gioco però sentivo un peso sul cuore che non riuscivo a spiegarmi. Correvo ed ora avevo smesso di ridere. Il mio respiro ero sempre più corto e mi voltavo sempre indietro in cerca e nel tentativo di sfuggire a quegli occhi ma erano sempre li. Tutto quello che mi circondava era sfocato come colore che si confonde sulla tela, però quel volto era ben definito: era un ragazzo dal caschetto scuro e con questi occhi grandi ed intensi, color pece. Conoscevo quel volto, lo sentivo mio, eppure non apparteneva al mio passato né tantomeno al mio presente. Eppure era mio . . . Correvo e lui mi seguiva. . . Correvo ed ero stanca ma lui non rallentava, stava per raggiungermi. Correvo, correvo ancora; lui era sempre più vicino. Mi ero fermata, le mie gambe non riuscivano più a muoversi e non potevo far altro che guardare questa statua di bronzo, rappresentante un fanciullo che suona il flauto, che si era presentata sulla mia strada. Quegli occhi ormai mi avranno raggiunta; mi voltai  per arrendermi ma non c’erano più. Era sparito . . .
Un tuono.
Spalancai gli occhi e mi ritrovai ancora in quell’auto: le mie mani premevano quella pelle scura lasciando la loro impronta e la mia schiena spingeva verso il sedile. Era stato un sogno, solo un maledetto sogno; eppure quello sguardo, il suo tocco sulla mia pelle, quegli odori io non me li ero immaginati.
Scrollai la testa e portai una mano sul petto quasi a supplicare il mio cuore di rallentare il suo ritmo e di dare tregua al mio corpo. Come poteva una fantasia sembrare così reale?
“ Siamo arrivati a destinazione miss” mi comunicò l’autista mentre apriva la portiera e mi copriva con l’ombrello scortandomi fino al portone.
Ero a casa, nella mia casa che sembrava non appartenermi più a causa della mia lunga assenza.
Mi erano mancate quelle pareti, mi erano mancate quelle cornici e quei pezzi di me, ma ora ero tornata e quel luogo avrebbe ripreso ad indossare il mio sapore e la mia presenza.
“Sei a casa Trilly” bisbigliai fermandomi al centro del salotto.
Ero a casa.
 
  
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