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Autore: poison spring    29/09/2012    12 recensioni
“Come il giovane Malfoy, che si torceva nelle lenzuola arroventate dai sogni, sibilando tra i denti stretti un nome che mai avrebbe dovuto uscire dalle sue labbra, e Nott, che tesseva le sue illusioni durante la notte e le disfaceva di giorno, il Barone Sanguinario nascondeva l’amore sotto il suo mantello macchiato d’argento. Per esso aveva ucciso e, in ultimo, aveva voluto morire.”
Pairing: Barone Sanguinario/Dama Grigia - Personaggi: Frate Grasso, Nick-Quasi-Senza-Testa, Salazar Slytherin, Rowena Ravenclaw, Luna Lovegood, Nuovo Personaggio, altri.
Accenno di Femslash.
Primo posto al Contest «La Bellezza di una Coppia» indetto da Christine23 e Venenum. Vincitrice di: Premio De Andrè, Premio Shakespeare, Miglior Personaggio Maschile, Miglior Intreccio, Miglior Sviluppo del Prompt, Premio Orginalità, Premio Harry Potter, Premio Intreccio, Miglior Pairing. Prequel/Sequel di Choices.
Genere: Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Barone Sanguinario, Corvonero, Helena Corvonero, Luna Lovegood, Serpeverde
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dai Fondatori alla I guerra
- Questa storia fa parte della serie 'Choices - The Saga' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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Questa storia si è classificata prima al Contest “La Bellezza di una Coppia. Canon o fanon? A noi non importa” organizzato da Christine23 e Venenum. In coda, viene riportato il giudizio e il punteggio ottenuto dalla storia, corredato di link per eventuali verifiche. Le distrazioni, i refusi e gli errori di grammatica sono stati corretti. Non ho invece corretto quelle che io considero scelte lessicali, ritmiche o stilistiche.


La storia ha vinto inoltre i seguenti premi speciali al medesimo contest:

- Premio De Andrè per le atmosfere e la gestione della storia
- Premio Shakespeare per la Tragedia
- Premio Stile
- Miglior personaggio maschile (Barone Sanguinario)
- Miglior Pairing (Barone Sanguinario/Dama Grigia)
- Premio Originalità
- Premio Harry Potter
- Premio Intreccio
- Miglior Sviluppo del Prompt

 

Stairway to Heaven

1996
Inferni, Diavoli ed Eroi

«Hell is repetition».

Stephen King, Storm of the Century.

Scendeva la sera mentre gli studenti si riversavano nei corridoi e giù per le scale, diretti a cena. L’ultima lezione pomeridiana era finita da un pezzo e tra le mura della scuola riecheggiavano i mormorii soffocati e i gridolini di eccitazione che precedevano il banchetto di Halloween. Vistose decorazioni a forma di zucca aleggiavano sopra il capo dei passanti; qualcuno aveva incantato dei pipistrelli di cartapesta, che si nascondevano negli angoli scuri del soffitto e nelle nicchie dei muri e sbucavano all’improvviso dai loro nascondigli, suscitando reazioni di sgomento miste a fischi di approvazione.

Scheletri ornamentali di un bianco spettrale danzavano nel buio degli androni; qualcuna delle ragazze si ritraeva alla loro vista, reprimendo un brivido di disgusto. Altre, più a loro agio, improvvisavano passi di danza e ridevano tra loro.

Il soffitto della Sala Grande pareva una volta spalancata su un cielo violaceo, cosparso di nubi fosche e minacciose; lampi accecanti serpeggiavano nelle tenebre.

Al tavolo di Gryffindor, Natalie McDonald ascoltava affascinata il racconto del fantasma della sua Casa, che celebrava l’anniversario della sua morte.

«Sissignora» stava dicendo Nick-quasi-senza-testa, «sono morto da più di cinquecento anni».

«Oh». Natalie spalancò gli occhi. «E com’è successo?»

Dai posti vicini si levò un mormorio di protesta. «Ogni anno la stessa storia».

«Mi sembra un atteggiamento quantomeno irrispettoso, giovinotto». Lo spettro scoccò un’occhiata piena di sdegno a Cormac McLaggen che, in risposta, esibì un sorrisetto arrogante.

«Beh» commentò il ragazzo, con sussiego, «penso solo che un fantasma dovrebbe avere ben più da raccontare della solita solfa trita e ritrita».

«Come ti permetti, screanzato? Io conosco centinaia di storie e ognuna di esse ti toglierebbe il sonno per una settimana!» inveì Sir Nicholas, agitando un pugno sotto il naso del ragazzo.

Quello ghignò senza scomporsi. «Vorrei proprio ascoltarne una, allora».

«Non credo che tu ne sia all’altezza, ragazzo» ribatté il fantasma, arricciando le labbra in una smorfia di sufficienza.

«Oh, anch’io vorrei tanto sentirla» sospirò Natalie, speranzosa.

«Sì» soggiunse la ragazza seduta di fianco a lei, una biondina smunta dai lineamenti simili a quelli di un roditore. «Un racconto di fantasmi è l’ideale, la notte di Halloween».

«Che sia misterioso» puntualizzò Nigel Westpurt.

«E romantico» cinguettò Lavanda Brown, sbattendo le ciglia.

Un paio di studenti del primo anno si unì al coro di richieste; Sir Nicholas parve soppesare le proprie alternative. Infine si accigliò e borbottò: «Una volta un mio antenato è stato sfidato a duello dal Diavolo in persona; in famiglia si diceva che gli avesse predetto persino la mia morte... » Fece una pausa e poi aggiunse: «Sono abbastanza certo che fosse meno molesto di voi».

Si allontanò impettito, tra la delusione degli astanti, e aveva quasi raggiunto l’altro capo della tavolata quando tutti lo videro arrestarsi, voltandosi a guardare qualcosa all’estremità opposta del salone. Il mento gli si piegò verso il basso in un modo che sarebbe stato quasi buffo, se la vuota fissità del suo sguardo non avesse smentito ogni possibile intento giocoso. Dalle labbra gli sortì un sussurro flebile, che si spense senza rumore tra le voci dei commensali e un clangore lontano e sordo di catene scosse. Il Barone Sanguinario lo stava scrutando, lugubre e minaccioso nei suoi ceppi.

Al tavolo di Slytherin, intanto, qualcuno raccontava una storia di fantasmi.

 

«Così il Cavaliere Nero gli puntò la spada alla gola e... » Harper fece una pausa, in cerca dell’attenzione dei suoi commensali. «Sapete cosa fece?»

Blaise Zabini fece schioccare la lingua con impazienza. «Taglia corto. La cena è quasi finita».

Harper fece una smorfia, deluso. «Siete un pubblico orrendo».

«Qui in fondo, comunque, non si sente niente» si lagnò Asteria Greengrass. «Questi due non fanno altro che masticare».

Tiger e Goyle, sentendosi chiamati in causa, emisero un paio di grugniti di protesta.

«A me non sembra che facciano tanto rumore» obiettò la Parkinson, guadagnandosi un’occhiataccia da parte delle compagne. Theodore Nott sollevò su di lei uno sguardo ansioso e parve voler intervenire in suo sostegno, dedicandole un principio di sorriso, ma subito tornò impassibile, a chiudere le palpebre livide, adombrate da desideri inespressi. Tutti sapevano che Pansy non aveva occhi che per il ragazzo alla sua destra, che sedeva, pallido e serio, con le braccia strette al petto magro e gli occhi fissi su un punto lontano.

 

Certe sere come quella, quando tutti avevano qualcosa da raccontare, i ceppi pesavano di più. Gli sguardi carichi di timore lo attraversavano come fosse fatto di fumo - e di cosa era composto il simulacro di corpo che il suo destino gli aveva affibbiato per farsi gioco di lui ancora una volta? - ma il peso del tempo e dei segreti gli pesava sul petto, affliggendogli il cuore immoto e chiudendogli polmoni che da tempo avevano smesso di respirare, sigillando le sue labbra su ciò che si celava oltre il sangue che gli macchiava i vestiti e l’anima e il terrore che sapeva suscitare e quel nome da operetta con cui era stato designato, da qualcuno che non si era mai domandato quali davvero fossero gli anelli della catena che lo legava al proprio dolore.

Come il giovane Malfoy, che si torceva nelle lenzuola arroventate dai sogni, sibilando tra i denti stretti un nome che mai avrebbe dovuto uscire dalle sue labbra, e Nott, che tesseva le sue illusioni durante la notte e le disfaceva di giorno, il Barone Sanguinario nascondeva l’amore sotto il suo mantello macchiato d’argento.

Per esso aveva ucciso e, in ultimo, aveva voluto morire.

 

«Everybody is a hero, a lover
a fool, a villain.
Everybody has their story to tell».

Alan Moore, V for Vendetta.

Il cielo aveva la sfumatura stinta di nuvole pigre e il prato sotto di esso era di un verde tanto accecante da sembrare un dipinto. Sotto i piedi, gli steli d’erba si piegavano senza spezzarsi e altrettanto dolcemente si rialzavano, quasi danzando, al ritmo dei passi della sua Dama. Il gioco in cui l’aveva trascinato non era altro che un puerile rincorrersi - tendete le vostre mani verso di me, affinché io possa illudervi che mi lascerò afferrare - ma lei aveva gli occhi ridenti e grandi come laghi e pomelli rossi sulle gote e forse, se lui l’avesse rincorsa abbastanza a lungo, gli avrebbe permesso di tenerla tra le braccia e di farla volteggiare sulle note di un ballo in tre tempi.

L’ampia gonna del suo vestito si era sollevata, mostrando un tratto candido di pelle tesa su caviglie sottili e aggraziate. Lui aveva allungato le dita a ghermire la stoffa e lei gli era sfuggita di un soffio; la sua risata argentina si era sparsa per i campi come il suono di mille campane a festa.

La corsa si era spinta ai limiti dell’imbrunire; sullo sfondo di un orizzonte sgombro di nubi, lui l’aveva inseguita tra sbuffi di caligine che si levavano molli al posarsi dei loro piedi e alberi carichi di frutti e foglie tenere che fremevano alle carezze dell’aria notturna. Sotto le fronde di un salice, i profili di pietra di due lapidi gemelle si riflettevano nelle acque scure del fiume e la sua Dama attendeva seduta sulla riva.

«Quante volte ancora mi sfuggirete?»

«Sempre una in più».

 

«Lord Bertram, siete sveglio?»

Nonostante la spossatezza derivata dal sogno appena sfumato, ebbe la forza di annuire. Si alzò dal giaciglio e si passò una mano sul volto; la luce che filtrava dalla feritoia nel muro era pallida e sbiadita, segno che l’alba era passata da poco. Sulla porta, un po’ in ombra, il suo elfo domestico si schiarì leggermente la voce e sollevò la mano che reggeva un grosso volatile incappucciato dal piumaggio bianco e grigio.

«Scoprigli la testa, Ablend».

Il braccio dell’elfo vacillò. «Sì, mio Signore» disse. Tuttavia, rimase a lungo immobile e le sue dita ebbero uno spasmo quando finalmente riuscì ad avvicinarle ai lacci dietro il collo dell’animale.

«Ablend, non è stato lui a cavarti gli occhi».

«N-no, Signore. È stato il mio vecchio padrone a ordinare ad Ablend di strapparli via».

«Allora fa’ quel che ti ho detto, prima che ti comandi di fare altrettanto con la tua lingua».

«Sì, Signore. Subito, Signore».

Il falco sbatté le ali poderose e schiuse il becco ricurvo, gonfiando le piume del collo; poi spiccò il volo fino a raggiungere il suo trespolo, posizionato al centro della stanza. Legato a una delle sue zampe, recava uno scampolo di pergamena richiuso da un nastro blu.

Lord Bertram lo sfilò con delicatezza; il nastro gli si avvolse docilmente tra le dita come se lo avesse riconosciuto e lui poté intravedere le prime parole della missiva. Aggrottò la fronte, sentendo la stanchezza piombargli addosso come una cappa di piombo; qualcosa di simile gli irritò la gola, costringendolo a tossire. Abbandonò la corrispondenza sul letto e indossò gli stivali e il mantello.

«Ablend, fa’ preparare la mia cavalcatura».

«Sì, Signore». La voce della creatura s’incrinò. «Dove andate, Signore? Se Ablend può domandarlo».

Lord Bertram sollevò un braccio e il grido del rapace echeggiò nella camera; l’elfo si rannicchiò su se stesso, proteggendosi la testa con le mani ossute, in attesa dell’attacco del volatile, che invece si posò sulla spalla del suo padrone e piegò docilmente la testa sotto l’ala. Per un attimo regnò il silenzio, rotto solo da sporadici singhiozzi. Poi l’uomo si allacciò il cinturone in vita e abbassò lo sguardo a terra.

«Vado a Hogwarts» disse. «Lady Rowena sta morendo».

 

Un tempo, aveva amato quei luoghi.
C’erano stati giorni lunghi dal profumo di pioggia che, chissà come, sapevano sempre di Primavera, in cui aveva vissuto la brughiera amandone luci e ombre. Ore di cui aveva apprezzato ogni istante speso a piegarsi su una pergamena o a mescolare il contenuto ribollente di un calderone, spiando l’espressione sul viso di una ragazza per capire se lei lo stesse guardando di nascosto a sua volta. Erano state stagioni trascorse a inseguirla tra l’erba alta o su per le scale strette del Torrione centrale e trovarla inondata di luce, a ridere, senza il ricordo di un dolore.

C’erano sogni, negli occhi di lei, che danzavano senza sosta e dettavano il ritmo dei battiti del suo cuore. Certe volte le sfiorava la mano e permetteva che questo gli turbasse il sonno; una volta sola l’aveva baciata e questo era bastato per dannarlo per sempre.

Helena era fuggita, lasciandosi dietro un quadro vuoto e il dolore della sua assenza.

 

La bandiera blu con il blasone dell’aquila sventolava a mezz’asta sopra la Torre di Ravenclaw e si stagliava contro l’azzurro terso del cielo come un vessillo di sventura. Bertram diede di sprone e il cavallo accelerò l’andatura, scuotendo la folta criniera nera; giunto di fronte all’imbocco del sentiero che conduceva al portone principale, si fermò, permettendo al suo cavaliere di smontare e proseguire a piedi. Il rumore di zoccoli si dissolse ben presto nell’aria gelida di Dicembre, portato via dal fragore del vento che spazzava impetuoso la brughiera desolata, non ancora imbiancata dalle prime nevi che avrebbero presto annunciato la venuta dell’Inverno.

La Scuola era immersa in un silenzio greve di sonno e lutto imminente; i pochi studenti che si trovavano all’esterno, abbigliati con la veste nera da mago su cui era stato cucito lo stemma della loro Casa di appartenenza, apparivano disorientati e smarriti e seguivano il suo passaggio con occhi pieni di preoccupazione.

L’alta soglia di Hogwarts si spalancò, mostrando la figura di un uomo alto e magro, dal volto austero. La bocca severa era una linea diritta e dura, che pareva quasi intagliata e spiccava sull’incarnato pallido, come pure gli occhi, verdi e profondi, e la barba, scura e a punta, che gli ricopriva il mento e si congiungeva alla capigliatura all’altezza degli zigomi sporgenti.

Il mago gli andò incontro, allargando le braccia.

«Figlio mio».

Bertram s’inchinò. «Maestro Salazar. Sono venuto appena ho saputo».

«Seguimi. C’è una cosa molto importante di cui Rowena vuole parlarti».

«Quanto tempo le resta?»

«È una donna molto tenace» ribatté il suo interlocutore, facendogli strada. «E desidera ancora vivere. Per ora».

Raggiunsero assieme l’anticamera, spogliata dai suoi consueti fasti; Slytherin gli indicò le scale con un cenno, invitandolo a salire.

«Voi non venite con me?» domandò Bertram.

«Sono tutti nella sua stanza. Helga, le sue ancelle. E Godric» sibilò, irrigidendosi.

«Avete avuto altri dissapori?»

«Temo che non ci sia modo di appianarli questa volta» confermò il Maestro. «Le nostre vedute sono troppo distanti. Ora va’» aggiunse, «Lady Rowena ti attende dall’alba e ti ho trattenuto sin troppo a lungo. Sarò nel mio Studio; passa a salutarmi, prima di andartene».

 

Non era mai tornato nei sotterranei, da vivo.

Aveva lasciato la Torre di Ravenclaw in fretta, come se fosse inseguito dal diavolo in persona, venuto a reclamare la sua anima per portarla negli abissi dell’Inferno vuoto della memoria; strade lastricate di ricordi avevano annunciato la sua venuta: la cornice che si apriva su una stanza buia e lo fissava col suo occhio cieco, la teca vuota di cristallo incantato che un tempo aveva contenuto il Diadema e ancora rifletteva l’immagine di chi per ultimo l’aveva toccata. Eppure, lui era andato avanti lo stesso, si era inginocchiato ai piedi della Dama e le aveva tenuto la mano, mentre lei riapriva una per una le sue ferite con parole taglienti come frammenti di vetro.

Godric lo squadrava con gli occhi fiammeggianti e montava una guardia silenziosa alla destra di Lady Rowena, che invece lo guardava con l’affetto di una madre.

«Maestra, perché sono stato chiamato?»

La sua risposta era stata un sussurro stanco. «Si tratta di Helena».

Nessuno aveva fiatato.

«L’ho cercata ovunque, Maestra».

«Non ti sei mai arreso».

«No, Signora».

«Allora è giunto il momento che tu la trovi. C’è un uomo, un monaco del Convento di Camden, che forse può aiutarti. Helena gli ha mandato qualcosa, qualcosa che ti appartiene. Salva mia figlia» gli aveva detto. «A qualunque costo. Portala da me, così che io possa lasciare questo mondo avendola vista un’ultima volta».

Lui aveva stretto le dita attorno a quelle fragili della donna e aveva firmato la sua condanna a morte.

 

Spirava un vento rabbioso sulla brughiera, che piegava gli arbusti e scuoteva con violenza i rami degli alberi, trascinando via in un vortice le foglie morte. L’aria odorava di temporale e il cielo a ovest, dietro le montagne, era un velo scuro e greve di promesse di pioggia.

Dalla sommità della collina, il Convento dominava la valle; il destriero nero, lanciato al galoppo, imboccò il sentiero che risaliva il declivio, sollevando nugoli di polvere. Lord Bertram si schermò la bocca con la mano guantata e tossì forte, le redini strette nell’altro pugno e il lungo mantello scuro che si gonfiava alle sue spalle. Giunto al punto in cui la strada sboccava sul pianoro, diede uno strattone alle briglie; obbediente, il cavallo rallentò l’andatura sino a fermarsi e segnò il passo, agitando il capo fiero. Il Barone gli assestò una pacca a lato del collo e smontò di sella.

Bussò due volte al massiccio portone di legno.

«Chi è là?»

«Lord Bertram, Barone di Mirkwood. Cerco Messer Chapman, lui sa chi sono».

Il monaco, in realtà poco più di un novizio dal volto ricoperto di lentiggini, scosse energicamente la testa. «Non c’è nessuno qui che porti quel nome».

Il Barone sfilò il guanto della mano destra e si terse la fronte. «Aymon da Badgerwall, forse lo conoscete così».

«Sì, Sir». La porta si aprì e apparve un ragazzo di circa quindici anni, che gli fece cenno di entrare. «Fratello Aymon è in confessionale. Potete attenderlo nel chiostro».

«No, grazie. Un confessore è esattamente quello che mi serve».

L’atmosfera, all’interno della cappella, era fosca e malinconica, satura dell’odore di fumo e cera di candele: echeggiavano, sporadici, i sussurri dei novizi e le preghiere dei frati erano una nenia bassa e ritmata, come un canto scandito sottovoce. L’altare era sormontato da una pala di legno che ritraeva tre uomini, intenti a inginocchiarsi di fronte a un nimbo di luce splendente, al centro del quale un rapace con le ali spiegate dominava la scena dall’alto.

Il Barone entrò nel confessionale e si inginocchiò, recitando le parole latine per dare inizio al rito.

«Perdonatemi, Padre, perché ho peccato».

Lo sportello del tramezzo rimase chiuso. «Quali peccati hai commesso, figliolo?»

«Padre, sono un assassino. Ho ucciso un uomo».

«Quando?»

«Domani».

 

«Quando fui presso a la beata riva,
'Asperges me' sì dolcemente udissi,
che nol so rimembrar, non ch'io lo scriva.
La bella donna ne le braccia aprissi;
abbracciommi la testa e mi sommerse
ove convenne ch'io l'acqua inghiottissi».

Dante, Purgatorio, Canto XXXI

«Helena parlava molto bene di voi».

Il monaco ebbe un fremito e appoggiò le spalle contro il muro della cella, urtando un bacile d’argento retto da un treppiede. Certo la minaccia insita nella sua confessione doveva essere stata d’effetto o forse, si disse il Barone, guardando il viso rubicondo e spaventato del pover’uomo, lui aveva davvero l’aria di un assassino. Forse era così che doveva andare.

«Vi supplico» gemette. «Voi non capite... Ho tentato di aiutarla, ma era troppo tardi!»

Bertram gli pungolò la gola con la spada. «Fu sua madre a chiedervelo?»

L’uomo scosse la testa. «N-no, Sir. La stessa Helena mi chiese di conservare il segreto anche con lei. Io ero l’unico a sapere cosa le stesse succedendo: diceva spesso che, se ne fosse venuta a conoscenza, Lady Rowena ne sarebbe morta».

«Come ho avuto modo di dirvi poco fa, potreste essere voi stesso a morire prima che il sole sorga di nuovo» obiettò Bertram. «In ogni caso» aggiunse, «a Lady Ravenclaw non resta molto da vivere. Suppongo lo sappiate».

Il monaco annuì. «L’ho sentito dire» ansimò. «Le ho inviato una missiva, proprio per questo. Volevo che sapesse che sua figlia era pentita, che l’amava». Una goccia di sudore gli scivolò lungo la tempia, rapida, andando a posarsi sulla lama sguainata, con un debole scintillio, che riportò alla mente del Barone qualcosa di sopito, come una lacrima pianta molto tempo prima che tornava a farsi sentire.

«Lady Rowena dice che voi avete qualcosa che mi appartiene».

Un altro cenno di assenso. Bertram tornò a incalzarlo con più irruenza e qualche goccia di sangue macchiò il filo d’acciaio tagliente. «Che cos’è?»

Il religioso socchiuse gli occhi e distorse le labbra in una smorfia sofferente; poi congiunse le mani al petto e trasse, dall’interno del saio nero, un rotolo di pergamena legato attorno a un’ampolla sigillata con la ceralacca. C’erano parole vergate sul foglio con mano leggera e il liquido nel contenitore emanava un bagliore lattescente.

«C’è un’ultima lettera, oltre a questa. Helena me la inviò e io la seppellii dietro sue istruzioni nel cuore della Foresta degli Antichi. Lei... Lei disse che quello era il vostro albero, che voi avreste capito».

Con dita tremanti, l’uomo ruppe il sigillo con l’aquila di bronzo e versò il contenuto della boccetta nella conca d’argento; poi gli rivolse un cenno, invitandolo a guardare.

Egli, allora, si sporse a controllare; filamenti lucidi d’un bianco spettrale si intrecciavano sul fondo. Gli parve di riconoscere una figura, un viso candido e un vuoto d’occhi scuri. L’elsa della spada gli sfuggì di mano e lui udì appena il tonfo sordo del metallo sul pavimento di tufo.

 

«Un giorno, qualcuno racconterà la mia storia. Diranno di me che ho sacrificato me stessa per salvare le generazioni future. Questo Diadema è maledetto: mi ha insegnato a fare cose meravigliose, ma mi ha condannata a desiderarlo per sempre. Anche ora che lo guardo con terrore, provo l’istinto di indossarlo. Se lo facessi, vedi, potrei spiegarti il senso di ogni cosa, valicare i bordi dell’infinito e portarti con me; ci sono tante e tali meraviglie, in questo universo, che nessuno immagina, che aspettano solo che io le trovi. Io lo so: il Diadema me le ha mostrate».

«Helena».

Seduta su una pietra, sul ciglio del fiume, si era voltata a guardarlo. Aveva fiori bianchi intrecciati nella chioma corvina, lo sguardo adombrato dalla seta delle ciglia scure e da una sorta di melanconia, identica a quella che traspariva dalla piega sofferta delle labbra.

«Sono venuta per dirti addio».

Inginocchiato di fronte a lei, l’aveva vista rifulgere di una luce straziante, come l’ultimo barbaglio d’una fiamma prima di spegnersi. Le mani che lui stringeva erano fredde come il marmo e tuttavia vi aveva posato le labbra, desiderando di poterlo fare ancora e sapendo che quella sarebbe stata l’ultima volta. Come sempre, la cortesia di lei era un’arma a doppio taglio; se non avesse potuto salutarla, avrebbe rimpianto in eterno quella privazione. Eppure non desiderava affatto farlo, non quando lei era così vicina e il suo profumo gli empiva le nari e la sua bocca mormorava cristalli di parole obliate. Le dita pallide di lei erano affondate tra i suoi capelli, gli avevano lambito la mandibola, gli avevano alzato il mento per far sì che lui la guardasse.

«Devi farmi una promessa».

E lui si era proteso verso il suo viso, vedendolo tingersi di un lieve rossore; c’era ancora qualcosa, in lei, della ragazzina che lo aveva amato, qualcosa da tenersi dentro per i giorni di solitudine, il fantasma di una fanciulla che tentava ancora, disperatamente, di vivere. Il loro ultimo bacio, di cui gli sarebbe stato strappato il ricordo, si era spento dietro un velo di lacrime.

«Tutto ciò che vuoi».

Lei aveva annuito. «Dimenticami».

«Questo non posso farlo».

«Lo so». Aveva una boccetta tra le mani, la stessa che avrebbe affidato al suo confessore, turata con un pezzo di sughero. La sua voce tremava. «Per questo devi bere. Bevi e tutto andrà bene».

Gli aveva sfilato la bacchetta dalle dita inerti. Non aveva neppure avuto bisogno di disarmarlo: era stata lei a donargliela, dopo averla plasmata intagliando il ramo di un albero che cresceva nel greto del ruscello e averle infuso un’anima fatta del crine di un destriero dell’ombra. Non gli era mai appartenuta veramente, se non per il tempo in cui la sua creatrice gli aveva donato se stessa.

Ogni cosa, lentamente, si sfocò attorno a lui; Helena si chinò a fargli una carezza; sembrava quasi trasparente nel blu del crepuscolo, ma gli occhi erano ancora i suoi.

«Amore mio, perdonami, se me ne vado via».

Un attimo dopo, non c’era più.

 

1997
Limbo. Tutti morimmo a stento

 

Il corridoio del sotterraneo era vuoto; dalle finestre, poste quasi al soffitto, penetrava un chiarore sbiadito, il pallido riverbero dei raggi lunari su nubi plumbee e dense, che si posava quasi distrattamente sulle pareti e sul pavimento, facendo rilucere la polvere che ivi si era deposta di un alone cinereo. Ragnatele d’un bianco spettrale si tendevano lungo gli spigoli dei muri o si gonfiavano al soffio placido della brezza autunnale, ondeggiando funeste come i resti strappati di lenzuola funebri.

La mezzanotte era passata da un pezzo e la ragazza camminava spedita; attraversò quasi correndo tutto l’androne e si fermò di fronte a un tramezzo, grigio e spoglio come tutti gli altri. Vi passò le dita, quasi esplorandolo al tatto. Poco dopo, come d’incanto, tra le pietre apparvero solchi profondi; i mattoni scattarono verso l’interno e a poco a poco svanirono, aprendo nella parete una fessura dalla quale fuoriusciva un bagliore verde.

La ragazza sospirò di sollievo. «Sei in ritardo».

Una mano femminile afferrò la sua e la strinse. «Non è semplice uscire a quest’ora. Quei due bestioni che gironzolano sempre in Sala Comune stavano per scoprirmi. Per fortuna si sono addormentati su uno dei divani vicino al caminetto».

«Buon per noi». Sorrisero entrambe e lei aggiunse: «Tiger e Goyle non sono mai stati molto svegli, in ogni caso».

L’altra annuì, illuminandosi. «Per fortuna».

«Faith?»

«Mh?»

«Vieni con me. Voglio raccontarti una storia: parla della Morte e dei suoi doni, di come sia necessario stare attenti a ciò che chiediamo, perché poi dovremo renderne conto».
Si incamminarono assieme, tenendosi strette. «Se potessi domandare qualunque cosa, vorrei solo non dovermi nascondere più».

«Attenta a esprimere questi desideri. I mastichini potrebbero sentirti».

Faith rise piano. «Racconta la tua storia, Luna Lovegood. L’ora è tarda e gli spiriti stanno per parlare».

«Dovremmo ascoltarli più spesso, sai. I fantasmi sanno un sacco di cose».

 

«Road goes ever on,
under cloud and under stars.
Yet feet that wandering have gone
turn at last to home afar».

John R.R. Tolkien, The Hobbit.


Mai gli era sembrato che l’andatura del suo cavallo fosse più lenta; mai alberi più fitti gli avevano sbarrato la strada. Bertram diede uno strappo alle redini e il destriero impennò, scartando di lato e indietreggiando pericolosamente in direzione del fosso. Un nitrito spaventato squarciò l’aria silente; il Barone imprecò sottovoce e calcò le suole degli stivali nelle staffe, cercando di riprendere il controllo dell’animale imbizzarrito.

A fatica, si rimise in arcione, assestando colpetti sul collo del cavallo, che sbuffava e scalpitava, senza dar cenno di voler proseguire.

«E va bene, codarda di una bestia» mormorò a mezza bocca. «Aggireremo il bosco».

Deviò lungo la strada che costeggiava la fitta schiera di tronchi; il sentiero che tagliava lungo la foresta era chiuso da tempo immemorabile e apparteneva alle storie di tempi remoti, quando creature ormai svanite dalla memoria ancora camminavano tra gli uomini. Maghi e Streghe conoscevano le leggende e quasi nessuno, nemmeno tra i più coraggiosi, osava addentrarsi lungo le rive custodite dai morti, dove, sotto le chiome di alberi ricurvi, gli spiriti vegliavano sui segreti degli antichi.

Era stata Helena a condurlo in quei luoghi.

Lo aveva preso per mano e lo aveva guidato attraverso le ombre e le luci delle querce, fino alla riva del torrente; gli aveva svelato la canzone che l’acqua mormorava senza sosta, le parole che il vento soffiava tra i rami, i segreti delle pietre del fondale e mille altre cose ancora, con gli occhi accesi di un entusiasmo insano, intenti a sognare cose mai viste.

Smontò di sella, deciso a proseguire a piedi, e si addentrò tra i cespugli; l’avvallamento era dolce e lo guidava verso il letto del fiume. Il terreno era soffice, così che i tacchi degli stivali un poco vi sprofondavano, ma non si sgretolava sotto i suoi piedi. Giunse in poco tempo sull’argine nord e si chinò in corrispondenza di un’ansa del rivo, a bagnarsi il volto, attento a non assaggiare neppure una goccia di quell’acqua che pure sembrava fresca e invitante.

Helena gli aveva raccontato la storia del fiume dell’oblio, che custodiva le memorie di chi si abbeverava alla sua fonte; l’incantesimo di memoria più efficace non sarebbe mai riuscito ad eguagliare la forza di quelle acque, che trascinavano nel proprio gorgo ricordi di epoche lontane e vicine e li sigillavano in profondità, dove nessuno li avrebbe ritrovati.

Ma forse lei non desiderava davvero che lui dimenticasse del tutto, perché aveva conservato la sua memoria e l’aveva affidata all’unica persona che potesse fargliela pervenire, al momento giusto. Forse c’era ancora una speranza.

L’albero di sambuco si ergeva nel mezzo di una secca; il tronco, diviso alla base in due fusti più sottili, era ormai arido e morto; non c’erano foglie ad adornare le sue fronde né fiori bianchi di quelli che Helena aveva amato tanto. Uno dei rami più alti era stato mozzato e portava ancora il segno della propria mutilazione.

La sua bacchetta. Non ne aveva voluta un’altra, dopo che quella era scomparsa, così come non aveva più desiderato di giacere con una donna che non fosse Helena. Sue erano le labbra che lui voleva baciare, sue le carni bramate, che gli rendevano il sonno un inferno.

Bertram si chinò e piantò il coltello nel terreno, ancora umido dalla recente piena, e sorrise quando la punta dell’arma incontrò qualcosa di metallico. Incominciò a scavare, empiendosi di fango gli stivali e i guanti, finché la buca non fu abbastanza larga da potervi infilare una mano e lui poté finalmente estrarne il contenuto: era un cofanetto in legno scuro, con intarsi di bronzo e un monogramma dorato sul coperchio. Le sue dita ne seguirono il rilievo e, infine, fecero scattare la serratura.

Sfilò i guanti imbrattati e li assicurò alla cintola; la pergamena custodita all’interno dello scrigno era ingiallita e sbiadita, ma la calligrafia era inconfondibile.

Nell’ultima lettera di Helena c’erano tre nomi e un cognome.

Bertram balzò in piedi e chiamò il falco, che rispose al suo fischio con uno stridio acuto.

 

«Dead men tell no lies».

Ancient English Proverb

 

La storia dei Maghi in questo mondo è costellata di leggende, molte delle quali così fantastiche da sembrare prive di ogni fondamento; alcune, favole oscure dal sapore antico, sono state tramandate di padre in figlio dai secoli passati sino a diventare storie di famiglia: l’uomo che incontrò il Diavolo, per esempio, lo descrisse come un cavaliere alto e scuro, con un falco sulla spalla, che penetrava oltre il manto che rendeva invisibili con i suoi occhi di brace arroventata. Non sapeva, invero, che il rapace vedeva per suo conto e che acuta è la vista dei predatori del cielo, come quella dei gatti o di certe bestie che vivono nelle tenebre. L’uomo, che avrebbe avuto vita lunga e felice, narrò che il Diavolo, dopo averlo interrogato dettagliatamente sulla provenienza del suo Mantello, gli aveva predetto una lunga discendenza; aveva anche aggiunto che, essendo la sua una schiatta particolarmente fortunata, se qualcuno dei suoi congiunti fosse stato condannato a morire per decapitazione, avrebbe comunque conservato la testa, seppure di un filo.

Né l’uno né l’altro avrebbero mai saputo che la profezia si sarebbe avverata, quasi cinquecento anni dopo; il Mago, il cui nome era Ignotus, aveva in effetti avuto due linee di discendenza, di cui una originata dall’incontro con una fanciulla normanna durante un soggiorno Oltremanica che era durato quasi cinque anni; il Mago era giunto in Francia per scortare in continente la Dama velata che gli aveva donato il Mantello ed era tornato in patria dopo l’incontro con il Cavaliere Nero, sicuro che quello l’avrebbe inseguito fino alla morte. Così non fu. Dal ramo bastardo di Ignotus Peverell - questo era in effetti il suo cognome - era discesa una lunga stirpe di Maghi e guerrieri, sbarcati in terra d’Albione durante l’invasione Normanna. Uno di questi, distintosi per le sue grandi imprese, era divenuto Duca di Mimsy, al servizio di Riccardo Cuor di Leone, e aveva raccontato a figli e nipoti la storia del Diavolo e dei suoi vaticini; il resto è storia nota.

Narra un’altra leggenda che in Illiria, la terra ora conosciuta come Albania, vi fosse una Foresta incantata in cui aveva preso dimora una Dea decaduta, che si mostrava ai mortali con il viso coperto, poiché tale era la sua bellezza che la sola vista di esso poteva uccidere; i suoi capelli erano neri come il giaietto, tempestati di fiori bianchi. Questo diceva il popolo, senza sapere che la Dama era la medesima che era apparsa anni prima a tre fratelli, in terra d’Albione, alla foce di un fiume, e aveva pagato ciascuno di essi con gli oggetti più preziosi che possedeva, una Bacchetta di sambuco, una Pietra raccolta dal greto di un torrente e un Mantello che lei stessa aveva tessuto, affinché potessero scortarla oltre il mare. I tre avevano tirato a sorte, per decidere a chi toccasse l’ingrato compito; di tutti, il più fortunato era risultato alla fine colui che, apparentemente, aveva perso. Anche questa è storia nota.

Meno lo è, invece, quella che narra che, alla morte della Dama, un grande rapace maestoso si levò da est sulla Foresta e da allora vegliò su di essa per gli anni a venire; in suo onore, gli uomini battezzarono quelle lande come Shqipëri, che significa “terra delle Aquile”.

 

Le fronde del salice sfioravano le acque calme del fiume, al ritmo del vento dell’est; tra i vapori della foschia, eretta e sottile come un giunco, stava la Dama velata di grigio. Teneva le mani giunte sul petto; le sue dita erano pallide e scarne come ossa sbiancate dal tempo.

Immobile a pochi passi da lei, Bertram quasi non osava respirare.

«Sapevo che mi avresti trovata, prima o poi. Come ci sei riuscito?»

Lui sorrise debolmente. «Ho visto il ricordo che mi avevi portato via. Ho trovato le tue lettere e ho rintracciato l’uomo che ti aveva accompagnata in Francia. C’era una chiesa, vicino al molo, e uno dei quadri era simile a quello che avevo visto nella Cappella del Convento di Camden: un’aquila che appariva a tre pellegrini. Allora ho capito che mi avevi lasciato una traccia e l’ho seguita».

Lei annuì: «Sei sempre stato un bravo cacciatore».

Stanco e provato, l’uomo piegò un ginocchio a terra. La Dama si avvicinò: i suoi passi nell’erba frusciavano appena, come se non vi fosse in lei che la forza dello spirito, a tenerla ancora in vita. «Stamani, ho visto il falco volare in cerchio sopra di me e ho capito che eri arrivato» disse.

«Non ha dimenticato» mormorò il Barone. «E nemmeno io».

«Era poco più di un pulcino quando lo abbiamo trovato e io ho sempre pensato che fosse un segno. Quando sono partita, sapevo che non saresti stato del tutto solo: lui sarebbe rimasto con te. Era come lasciare un pezzo della mia anima a farti compagnia». C’era tenerezza nella sua voce e un fremito trepidante nelle sue mani, mentre gli sfiorava il viso. «Forse avrei dovuto portarlo via con me, ma ha scelto lui per tutti noi. È rimasto nella foresta a vegliarti, mentre io me ne andavo».

«Helena... »

«Ho temuto e atteso questo giorno così a lungo che, ora che è giunto, vorrei avere parole migliori per accoglierti. E non le ho. Non ho niente da offrirti, se non la fine di una storia. Vieni con me; lascia che ti prenda per mano un’ultima volta».

Si lasciò condurre all’ombra del salice, aggrappato a lei come se temesse di vederla scomparire, soffiata via da una folata di vento, senza osare stringere troppo per paura di spezzarla. Dietro la cortina verde, entrambi sedettero in silenzio.

«Credo di aver sognato questo posto» sussurrò lui. «C’erano due tombe, qui, dove siamo seduti noi».

Helena tacque.

«Sono venuto per riportarti a casa».

La figura ammantata scosse la testa. «Non posso venire».

«Tua madre vuole vederti». Bertram esitò, indovinando i timori di lei nel tremito che la scuoteva. Infine si decise: «Sta morendo».

«Mi ha... mi ha perdonata?»

«Nessuno di noi aveva qualcosa da perdonarti. Dovevamo perdonare noi stessi, per non averti protetta. Tu dicesti che il Diadema era maledetto; le maledizioni possono essere spezzate. Vieni con me. Insieme troveremo un modo».

«Non capisci» disse lei e, dal tono della sua voce, lui capì che stava piangendo.

«No» ammise.

«Allora guardami».

Slacciò la spilla che teneva appuntato il drappo che le copriva il viso: gli strati di stoffa scivolarono per terra, uno alla volta, scoprendo braccia su cui la pelle era talmente tirata da sembrare trasparente, spalle ossute, la cui curva fragile sembrava essere sul punto di spezzarsi sotto un peso troppo grande da portare; il collo troppo sottile, in cui si tradiva la tensione di lei. L’ultimo velo cadde, mostrando un viso che non aveva età, bianco come il latte, la pelle che quasi traspariva nei bagliori incerti del crepuscolo: era il viso splendido e terribile di una statua, antico eppure giovane, che tradiva il male di vivere di un’anima fatiscente, imprigionata in un bozzolo di carne mortale che andava assottigliandosi, disfacendosi.

E lui tese le mani per accoglierla contro il suo petto, forse per fermare quello spogliarsi che era una confessione di sé; poi vide i suoi occhi, abissi di luce e di follia, e le mani gli ricaddero lungo i fianchi, gli tremarono le labbra, il cuore sembrò esplodergli nel petto.

«Ora comprendi?»

Incapace di proferire verbo, egli scosse la testa. Ma avrebbe voluto dire che cosa ti hanno fatto, amore mio, io ti salverò.

«Sono stata io stessa, la mia maledizione. Volevo oltrepassare i confini, essere più forte, più intelligente, prima che giungesse il mio momento. Imbrogliare il destino. Ora lo so: il Fato è un baro migliore di me e a nulla serve spodestarlo, se non a morire a stento, consumando se stessi nel tentativo di sapere sempre qualcosa in più. Quale mano accende le stelle la notte, chi spinge il Sole in alto nel cielo alle prime ore del mattino? Un tempo lo sapevo. Un tempo avevo un amore, ma l’ho gettato via, tra le risate dei fantasmi che affollano la mia mente».

Lui le sfiorò la gota esangue, le labbra senza più colore. Non c’era più carne su quel volto, solo pallore e iridi scure.

«Io sono qui» disse.

«Ma non ci sono più io. Va’ via. Dimenticami». Nascose il viso nel velo e soggiunse: «Di’ a mia madre che non tornerò».

 

Sei giorni e sette notti passarono, prima che giungesse la fine.

Certe volte sedevano sotto il salice senza nemmeno parlare, fianco a fianco, e guardavano l’acqua scorrere. Nel folto dell’erba tenera, le loro dita si sfioravano; la sofferenza di lei, allora, pareva alleviarsi, farsi più lontana. Tornava però, più feroce di prima, a manifestarsi nel suo sguardo, offuscandolo; gli occhi di Helena non sognavano più - non c’era più incanto nelle sue idee, solo un sapere troppo grande per una persona sola - e guardavano ogni cosa senza vederla davvero. Erano rimasti gli stessi, però, e lui li amava ancora.

«Mi hai lasciato una traccia» le disse, uno degli ultimi giorni. «Perché, se non volevi che io ti riportassi a casa?»

Helena non rispose. Aveva le palpebre serrate e le labbra schiuse e, quando sollevò il braccio per sfiorargli il volto, lui le andò incontro, tremando, perché lei era fredda come neve; soprattutto, perché riconosceva il suo tocco.

«Mi sento vera, vicino a te» bisbigliò Helena. «Voglio sentirmi così, prima di morire. Vera. Viva».

Bertram rammentò il suo sogno e un brivido violento lo scosse, penetrandogli nelle ossa. «Non parlare di queste cose. Non è ancora giunto il tempo di farlo».

«La morte si sconta vivendo. O forse è così soltanto per me; ogni giorno mi usura, senza mai farlo del tutto. Vorrei sciogliere i lacci che mi tengono legata a quest’esistenza fittizia». Helena lo guardò, spalancando i suoi terribili occhi, e, nel suo sguardo, lui lesse la verità.

«Vuoi questo da me» disse, dando voce alle parole che lei aveva taciuto. «Vuoi che io ti liberi».

 

«There is something
about Death
like Love itself».

Edgar Lee Masters, Spoon River Anthology

 

«Il dono dell’immortalità è quello cui ho rinunciato più volentieri. L’ho dato ad un uomo che non saprà che farsene, perché così accade sempre. Simili prodigi hanno un prezzo che i mortali non dovrebbero mai pagare».

Bertram sospirò, appoggiandosi al tronco dell’albero. «Allora perché glielo hai concesso?»

«Lui credeva di desiderarlo. Chissà» aggiunse Helena, «chissà se ha già scoperto di essersi sbagliato. Forse ha imparato più in fretta di me».

Entrambi tacquero; Bertram non osava guardarla, vinto dal timore di ciò che avrebbe scorto sul suo viso. Più ancora, rifuggiva il proprio riflesso negli occhi di lei, un uomo alto e fosco, dall’aria risoluta, che appariva capace di qualunque cosa.

«Desideravi essere immortale?» le chiese.

«Mi attraeva l’idea di sfidare l’inesorabile corso delle stagioni. È sciocco a pensarci: non c’è nessuno che viva di meno di chi sa di non poter morire. Allora, però, non lo sapevo, perché per quanto si possa cercare di imbrogliare il tempo, è sempre lui a insegnarci le lezioni più importanti. Così ho raccolto un sasso dal fiume della vecchia foresta e gli ho estorto i segreti degli Antichi, dei giorni in cui il mondo era giovane e gli Dei camminavano sulla terra; è stato facile. Ere sono trascorse, da allora, ma la memoria dell’acqua è lunga e custodisce i ricordi di coloro che se ne sono abbeverati. Lo sai».

Lui annuì: non c’era altro che potesse fare o dire, a parte raccogliere le sue parole. Erano le ultime; entrambi lo sapevano.

«Fu il Diadema a farmi conoscere queste cose: era come se fossero sempre state lì, nella mia testa. Mi bastava allungare la mano e afferrarle; credevo che così sarei stata felice, sai, ma fa male. Non ci si può comprare una scala per il Paradiso. Bisogna guadagnarsela». La sua voce mutò in un rantolo ed ella si piegò in avanti, come se dovesse tossire; i lunghi capelli scuri le coprirono il volto, scivolando giù dalle spalle scarne. Bertram vi posò una mano e fu come toccare aria, tanto la sofferenza l’aveva logorata, poi lei affondò il viso contro il suo collo e riprese il suo racconto.

«Avevo quindici anni, la prima volta che lo usai. Sembra passata un’eternità, da allora. Mia madre lo aveva riposto nella sua teca e io mi ci specchiai, mentre la aprivo. Fu così che mi scoprì: il cristallo dell’urna era incantato e conservava le immagini di chi l’aveva toccata per ultimo».

«Lo so» mormorò lui in risposta. Ricordava bene il volto di lei impresso nella trasparenza adamantina della lastra, l’ombra scura di cupidigia nei suoi occhi.

«Così decisi di tessere un mantello che mi permettesse di non essere vista, né da occhio umano né per mezzo di incantesimi. Adoperai la seta tessuta dai bachi che crescevano sui gelsi della foresta. Quello, però, l’ho donato ad un altro. Lo sai» sentenziò, con un'ombra di dolcezza a intenerire le sue parole, «credo sia stato un dono ben fatto».

«Lo credo anch’io».

Rimasero in silenzio per un po’, stretti l’una all’altro; lei, come fumo tra le braccia, impossibile da toccare davvero, respirava a fatica, intossicava l’aria con la sua sofferenza. Eppure lui l’amava anche così.

«La bacchetta... » sussurrò. «Perché l’hai portata via?»

«Forse volevo proteggerti. C’è qualcosa, in essa, di strano, come nell’albero di sambuco da cui ho tagliato il ramo; tutto ciò che viene da quella foresta è incredibilmente potente. Un po’ mi faceva paura. Anche se» bisbigliò, carezzandogli una guancia, «in realtà volevo che dimenticassi. Speravo che non avere più nulla di me ti aiutasse a farlo, ma il falco è rimasto ed è stato tutto inutile. Ti ha impedito di dimenticare».

«Non è stato così. Mi ha impedito di perdermi del tutto. Dimenticare per me era impossibile».

«Lo so. Nemmeno portarti via i ricordi è servito».

Bertram si chinò a baciarla sulla fronte; la sua pelle era fredda e umida, impalpabile come la nebbia della sera. Sembrava sfuggirgli dalle dita, anche mentre lei gli passava le braccia intorno al collo e lo stringeva, sfiorandogli le labbra con le sue.

«Aiutami, ti prego. Non lasciare che mi consumi fino in fondo. Voglio che ci sia ancora qualcosa di me, quando chiuderò gli occhi per sempre».

 

1998
Una scala per il Paradiso

 

«... As we wind on down the road
Our shadows taller than our soul.
There walks a Lady we all know
who shines white light and wants to show
how everything still turns to gold».

Led Zeppelin, Stairway to Heaven.

 

La notte in cui il Diadema di Ravenclaw fu distrutto e scomparve in un gorgo di fiamme, le catene del Barone si dissolsero e il sangue sul suo manto sembrò sbiadire; mentre questo accadeva, due ragazze sulle scale scoppiavano a piangere e un grido si levava, disumano e acuto, dal cortile di Hogwarts. C’era odore di bruciato, nell’aria, e di sangue e di lacrime piante su corpi ancora caldi; l’atrio era vuoto, a parte le due figure abbracciate, che singhiozzavano piano.

I due fantasmi, uno in fondo e l’altra in cima alla rampa, quasi non le videro. Rapiti, si fissavano a vicenda. La Dama Grigia sollevò una mano e la tese, il Barone si sentì toccare qualcosa di molto vicino al cuore. Ci si poteva ancora sfiorare, da morti? O la sua condanna era poterla soltanto guardare, vederla svanire come foschia ai bagliori dell’aurora?

Entrambi si volsero a guardare la cima della scalinata che svaniva nel buio, ma il ragazzo pallido ancora non si vedeva.

 

Lo aveva incontrato all’imbocco dei sotterranei; era alto quasi quanto lui e bianco in viso, ma aveva occhi fieri che brillavano nel buio. Aveva impiegato un po’ a riconoscerlo; lui, invece, aveva l’aria di sapere benissimo con chi stava parlando. E gli aveva chiesto del Diadema di Ravenclaw.

«Questa è davvero una domanda strana» aveva commentato il Barone. Le parole, da tempo chiuse in gola, gli erano uscite come uno sbuffo di polvere.

Il ragazzo aveva fatto un cenno di assenso, ma non aveva desistito. «Faith Valentine dice che i fantasmi sanno un sacco di cose. Gliel’ha detto Lunatica Lovegood e, Dio solo sa perché, lei ci crede». Si era passato una mano nei capelli in disordine, nervoso. «Ho bisogno di sapere com’è fatto. Devo distruggerlo».

«Avrei dovuto farlo io, molto tempo fa. Vieni» gli aveva detto il Barone, «devi parlare con lei. La Dama Grigia. Io non ricordo più che voce ha» aveva mormorato sovrappensiero. «Ascoltala anche per me».

Lui non aveva più potuto, da quando Lady Rowena era spirata con un sorriso sulle labbra, guardando il volto luminoso della figlia già morta; l’hai salvata, gli aveva detto, grazie, e lui non aveva mai saputo se la donna avesse compreso davvero.

Non aveva più parlato con Helena, da allora; l’aveva osservata, consapevole che, per quanto fossero vicini, la distanza tra loro sarebbe sempre stata troppa; aveva contemplato gli anni scorrere via, portandosi dietro le persone che aveva amato; Salazar Slytherin aveva abbandonato la sua aula e si era portato via i suoi segreti, lasciandosi dietro il guscio vuoto di un uovo e una covata di girini di rospo. Qualcuno aveva ripulito tutto, senza dare importanza a quelle poche cose; se glielo avessero chiesto, lui avrebbe forse saputo rispondere a proposito del significato di quell’oscuro lascito; se lo avessero fatto, le cose sarebbero probabilmente andate in modo del tutto diverso.

Il monaco che gli aveva fornito la chiave per trovare Helena era morto; il suo spirito vagava per i corridoi di Hogwarts, vegliando paternamente sugli studenti di Hufflepuff. La sua salma, seppellita nel cimitero del convento, sarebbe stata ritrovata misteriosamente intatta molti anni dopo e ci sarebbe stato chi lo avrebbe acclamato come Santo, senza sapere che un tempo era stato un Mago.

Il mondo era cambiato sotto gli occhi spenti del Barone e lui era rimasto indietro, a coltivare un rancore che aveva l’odore rancido del sangue rappreso sulle sue vesti. La sua condanna era una catena di ricordi, solitudine, soprattutto di parole d’amore che non aveva mai detto del tutto; con esse era legato alla sua silenziosa Dama, ne sentiva il dolore e ne percepiva le ansie e i desideri. L’aveva veduta cercarlo nelle fattezze di un giovane alto e pallido, dai folti capelli scuri. Uno della casa di Slytherin, come lui stesso era stato da studente, che sarebbe divenuto famoso come il Mago Oscuro più potente di tutti i tempi.

 

«È finita. Lord Voldemort è morto».

Sulla soglia c’era una fanciulla bruna, sporca di sangue e fango. Camminò lenta fino a raggiungere le compagne e sedette con loro, affondando il viso nelle mani a coppa.

«È finita» ripeté, piano, lasciandosi abbracciare.

Il Barone voltò loro le spalle e lasciò che il suo sguardo vagasse oltre la porta. Fu la Dama Grigia ad avvicinarsi in silenzio e ad affiancarlo. Sorrideva, notò lui, e quella visione lo turbò: sembrava così viva e vera da far sentire allo stesso modo anche lui.

«Mia madre» disse Helena, perché era Helena, di nuovo, dopo tanti secoli. «Mia madre sapeva. Tu mi hai salvata, riportandomi qui. Ho potuto espiare le mie colpe: il diadema è andato distrutto, il nemico sconfitto. Io ho aiutato a fare in modo che questo avvenisse; il cerchio si è chiuso».

«Io ti ho uccisa» obiettò lui, meravigliandosi di quanto fosse più semplice ammetterlo, adesso.

«Eppure mi sento viva. Forse è venuto il momento di andare: forse la morte è un altro viaggio, una nuova grande avventura per una mente ben organizzata. Ci sono arcobaleni, là fuori, fatti di colori che non conosco e fiori che non ho ancora colto. Voglio vedere tutto questo».

«Vuoi andartene?»

«Sì. Ora voglio morire davvero». Gli prese la mano - e la sua stretta era quella della ragazzina che era stata un tempo - e se la portò al volto. Se avesse potuto, sarebbe forse arrossita. «E vorrei che tu venissi con me».

Fluttuava eterea come nei suoi sogni da vivo; d’un tratto, egli comprese che anche lei aveva avuto delle catene, sebbene nessuno le avesse mai viste, che avevano gravato sul suo cuore; si erano legati reciprocamente, da quando lei gli aveva chiesto di darle la morte e lui si era macchiato del suo sangue, guardandola spegnersi tra le sue braccia con il suo coltello piantato nel petto. Il falco aveva spiccato il volo con un grido, mentre lui, chino sulla donna che amava più della sua stessa vita, si aggrappava alla cadenza del suo ultimo respiro, cercava di cogliervi le sue parole, senza riuscirci. Non aveva potuto sopravviverle allora e non avrebbe neppure tentato adesso. Helena era libera e lui con lei, come sin dall’inizio avrebbe dovuto essere. Chinò il capo, cavallerescamente. «Conosci già la mia risposta».

La Dama sorrise. «Il ragazzo che mi hai mandato prima, quello che ho aiutato a trovare il Diadema... Pensi che stia bene?»

Il Barone scoccò un’occhiata in cima alle scale. «I figli di Salazar hanno la pelle dura» disse, prima di svanire.

 

Tutti quelli che li videro andare via raccontarono del miracolo di Hogwarts, della luce che danzava al centro del Salone, salendo a spirale verso il soffitto. C’era qualcosa di struggente in quel bagliore, che spinse molti ad alzare la testa e a seguirne le involuzioni fino a vederlo ergersi su, su in alto, ai confini del cielo notturno, a sorridere tra le lacrime, stringendosi gli uni vicini agli altri tra le macerie. Minuscoli petali bianchi scesero come pioggia dal cielo, posandosi sui loro capelli, e le ragazze li raccolsero a piene mani.

La Guerra era finita.

In una stanza dimenticata del castello, il ritratto di Lady Rowena e quello di Salazar Slytherin si guardarono, scambiandosi un cenno di intesa. Fuori dalla finestra, intanto, la luce era sempre più lontana.

Qualcuno disse di aver veduto un falco, luminoso e argenteo come un Patronus, seguito da un destriero lanciato al galoppo; in groppa, portava un cavaliere nero e una bella dama dalla chioma scura, che danzava nel vento. Il cavallo impennò una volta, frustando l’aria con la lunga coda, e scomparve oltre le stelle.

Fuori dal blu e dentro il nero.

 

And she’s buying
a stairway to Heaven.

Fine

«Ciò che allora
chiamammo dolore
è soltanto
un discorso
sospeso».

Fabrizio De Andrè, La Ballata degli Impiccati

Note d’autore:

 

Questa storia partecipa al contest La Bellezza di una Coppia organizzato da Venenum e Christine23. Il prompt da me scelto era una citazione di Gabriel Garcia Màrquez: «Aveva sempre sentito dire che si muore quando si vuole e non quando si deve». Siccome l’autrice vuole essere onesta con se stessa, è bene che dica che il prompt, più che essere il filo conduttore della storia, aleggia come un fantasma (e in questa storia non è certo l’unico a farlo). È più che altro alluso qui e là - in Lady Rowena che vuole ancora vivere e si concede di morire quando finalmente rivede la figlia, in Helena che, alla fine, vuole morire davvero e, ancor più sotteso, nel Barone, che due volte sceglie di morire per seguire la sua amata - ma questo passava il convento e la mia ispirazione, si sa, è anarchica quanto me.

Quando ho deciso di imbarcarmi in questa cosa, conoscevo del pairing principale solo i cenni che la Rowling ha fatto in proposito; ma tant’è, il contest si chiama la Bellezza di una Coppia e io non ci vedevo un accidente di bello in ti uccido perché non vieni con me. Sono troppo ideologica probabilmente, ma non giustifico il delitto passionale e avrei dovuto dilungarmi in un pippone allucinante a metà tra la versione meno divertente di un’indagine alla Criminal Minds e un trattato di psicopatologia criminale; ho deciso che non era il caso. Mi sono fatta due conti e ho pensato un po’, alla ricerca dell’unico possibile motivo per cui avrei potuto concepire di dare la morte a una persona che amo e mi sono risposta quello che avete letto poc’anzi. La storia meritava indubbiamente più spazio, per tutti gli elementi richiamati e per il tema trattato, ma il limite era di quindici pagine, dunque la scelta doveva forzatamente cadere o su una trama meno complessa - ma questa mi è venuta e non se ne scappava - o su, beh, su questo. Una precisazione importante: la storia è intrecciata con la trama della mia long-fiction Choices, pertanto le variazioni dal canon Potteriano che si vedono soprattutto nella seconda e nella terza parte sono pensate e volute e non sono frutto di distrazione, insipienza o misconoscenza.

Per quanto riguarda la vicenda inerente ai Doni della Morte, la cosa è nata un po’ per caso: non sono mai stata del tutto convinta che la Morte potesse essere rappresentata da Nostra Signora con la Falce e persino nel libro viene detto che forse non era proprio la morte, ma qualcuno che poteva essere stato scambiato per essa, e questa cosa mi ronzava in testa da un po’; secondariamente, J. K. Rowling, quando ha descritto la morte di Helena, ha parlato di coltello. Ne deriva quindi che io mi sia immaginata un Barone senza bacchetta - perché lui è un Mago e un pureblood - e la mia mente malata ha fatto il resto, rispondendo a domande tipo: “che fine ha fatto la sua bacchetta?” in questo modo. Se sia una storia efficace o bella non è compito mio dirlo. Io so che l’ho amata dalla prima all’ultima riga.

 

Cenni storici e genealogici:

 

La vicenda narrata nei flashback si svolge nell’anno Mille per stessa ammissione della Rowling. Io mi sono adoperata quanto possibile per dare una connotazione storica valida. I nomi dei protagonisti, laddove inventati, sono tutti di matrice sassone, come viene naturale pensarli in Inghilterra prima della conquista normanna e l’avvento di Richard Plantagenet. A tal proposito, non sono riuscita a trovare tracce di nobiltà sassone realmente esistita e organizzata dell’epoca - mea culpa, suppongo, o di Wikia - e, siccome non avevo a disposizione né la Biblioteca - è agosto ed è chiusa - né un libro di storia decente dell’epoca, sono andata a braccio per il nome del Barone. In bilico tra citare Ivanhoe - e chiamarlo Barone di Rutherford - o fare di testa mia e trovargli un nome, ho scelto la terza: la mediazione.

Per ciò che concerne ciò che più mi preme, dirò invece che potrei essere incappata in un anacronismo: J. K. Rowling parla del fantasma di Hufflepuff come di un frate. Ora, il termine di norma si riferisce a un appartenente agli ordini religiosi mendicanti, sorti tra il XII e il XIII secolo in occasione tra l’altro delle contestazioni all’opulenza del Papato. Frati sono, dunque, gli appartenenti all’Ordo Praedicatorum di San Domenico e all’Ordo minorum del nostrano Francesco da Assisi. Il problema è che, da tutte le cronologie potteriane che sono riuscita a trovare quando mi sono impelagata in quest’epopea, il fantasma di Hufflepuff viene indicato come contemporaneo di quegli altri due. Nel dubbio se utilizzarlo o meno, visto che mi serviva e i personaggi da sfruttare in quell’epoca erano molto, molto pochi, ho optato anche qui per una mediazione. Dunque, il frate è stato trasformato in un monaco dell’Ordo Sancti Benedicti, la cui regola risale al 529 d. C., in virtù del fatto che non sono in molti a conoscere la differenza e che quindi, magari, qualche studente poteva essersi inventato il soprannome Frate Grasso senza discernere tra le due categorie religiose. È altresì improbabile che l’ordine Benedettino accogliesse un novizio in età così avanzata da poter avere concluso gli studi a Hogwarts, ma io non ho mai detto che l’ha fatto e forse, in definitiva, la ragione del suo ritorno a Scuola è tutta lì.

Sulla parentela di Sir Nicholas con Ignotus Peverell c’è poco da dire. Volevo collegare tutti i fantasmi e tutte le storie raccontate nel corso della narrazione. Questo è il risultato, dunque.

Applaudite, se siamo amici e se abbiam recato torto faremo ammenda.

 

Citazioni nel testo letterali e parafrasate, etimo, luoghi e nomenclature:

Stairway to Heaven è una canzone dei Led Zeppelin; il perché della mia scelta credo si espliciti da solo, man mano che la storia va avanti, ma ammetto che all’inizio sono stata colpita dai versi riportati come penultima citazione diretta, che parlano di una dama che splende di luce bianca e che mostra come tutto ciò che luccica, alla fine, si trasformi in oro.

Asteria Greengrass - Ho scelto questa grafia perché, pare, è quella ufficialmente indicata dalla Rowling nell’albero genealogico presente sul suo sito. Astoria, invece, è il nome attribuitole dal Time Magazine, secondo quanto riporta Hplexicon.org.

«nascondeva l’amore sotto il suo mantello» - Sogna, ragazzo, sogna di Roberto Vecchioni.

Bertram: è un nome sassone, che significa, a seconda delle fonti, o «corvo splendente» o «di sangue nobile». Io ho una passione per i corvi, ma la seconda versione si sposava anche meglio con un pupillo di Slytherin. Mirkwood invece è una citazione da J. R. R. Tolkien ed è il corrispettivo originale di Bosco Atro; l’ho scelto per il suono o forse perché in questa storia le atmosfere Tolkieniane si sprecano.

Ablend è altrettanto oriundo e significa cieco, guercio (cfr. blind, blinded): un tocco di nero umorismo per un elfo che cieco lo è davvero.

«Senza il ricordo di un dolore» - La Canzone di Marinella, Fabrizio de Andrè.

Camden esiste davvero, ma è nei Burroughs a nord di Londra. Consideratela una licenza geografica, mi piaceva il nome.

Chapman, di origine sassone anch’esso, significa mercante. Aymon invece suonava bene per un religioso: è una sorta di latinizzazione bastarda del germanico Haimo. Badgerwall significa letteralmente muro (vallo) del Tasso ed è un riferimento alla sua casa di appartenenza a Hogwarts.

«Ho ucciso un uomo». «Quando?» «Domani». - da Qualunquemente di e con Antonio Albanese.

Lattescente è tutto per Serena. Con tanto amore.

«I bordi dell’infinito» - Cantico dei Drogati, Fabrizio De Andrè.

«Cristalli di parole» - La Ballata degli Impiccati, Fabrizio De Andrè.

«Amore mio, perdonami, se me ne vado via» - Fine di un Killer, Francesco De Gregori.

Faith Valentine - personaggio originale, il cui nome semplicemente era bello ed evocativo - e mi serve per la long suddetta - e il cui cognome cita non uno ma ben due videogiochi: Final Fantasy VII e Resident Evil.

I mastichini - citano spudoratamente le creaturine di Frank L. Baum, Il mago di Oz.

«Gli occhi intenti a sognare cose mai viste» - Il vecchio e il bambino, Francesco Guccini.

Shqipëri significa in effetti terra delle aquile e il nome viene da una vecchia leggenda albanese con protagonista un rapace. Io ci ho solo lavorato un po’ su.

Il simbolismo dell’aquila nei quadri è un riferimento al significato divino di detto rapace. Ho giocato un po’ con le teofanie e i miracoli in questa storia - si veda anche il riferimento alla salma immutata del fantasma di Hufflepuff - e dunque calzava a pennello.

«Il male di vivere» dalla poesia omonima di Eugenio Montale.

«Di luce e di follia» - Genova per noi, Paolo Conte.

«Ora lo so: il Fato è un baro migliore di me e a nulla serve spodestarlo, se non a morire a stento, consumando se stessi nel tentativo di sapere sempre qualcosa in più. Quale mano accende le stelle la notte, chi spinge il Sole in alto nel cielo alle prime ore del mattino? Un tempo lo sapevo. Un tempo avevo un amore, ma l’ho gettato via, tra le risate dei fantasmi che affollano la mia mente» - Fabrizio De Andrè, rispettivamente La Ballata degli Impiccati, Ho visto Nina volare, il Cantico dei Drogati.

«Di’ a mia madre che non tornerò» - Sally, Fabrizio De Andrè.

«La morte si sconta vivendo» - Sono una creatura, Giuseppe Ungaretti.

«Non c’era più incanto nelle sue idee» - Leggenda di Natale, Fabrizio De Andrè.

«Io non ricordo più che voce ha» - Ti ricordi quei giorni, Francesco Guccini.

« ... arcobaleni [...] fatti di colori che non conosco e fiori...» Tutti morimmo a stento, Primo intermezzo, Fabrizio De Andrè.

«La morte [...] non è che una nuova grande avventura, per una mente bene organizzata» - Harry Potter e la Pietra Filosofale, J. K. Rowling.

«Fuori dal blu e dentro il nero» - Hey hey, my my, Neil Young (e di riflesso Stephen King).

 

Per amore del Canon:

 

Già penso di aver detto quasi tutto. La storia dei due protagonisti ha un’origine molto più semplice; quella dei Doni della Morte è ben nota e io ne ho usufruito per amore d’invenzione. La parte relativa al finale, va da sé, nasce da un intrico di vicende qui non narrato, ma ragionato ed esistente. Differentemente dalla vicenda originale, qui la fine è segnata dalla distruzione del Diadema; non solo, naturalmente, ma per sapere tutto bisognerà avere pazienza. Per ora, mi si accordi fiducia, se si vuole.

 

Ringraziamenti:

 

Grazie a Giulia, la Sailor Jup del mio cuore, che si è prodigata in un betaggio last minute che neppure Ryanair e le sue tariffe riescono ad eguagliare in quanto a convenienza. Non ho tolto tutte le virgole, solo quelle cui non ero particolarmente affezionata, ma ho apprezzato ogni tuo consiglio.

Grazie a Chiara, mia figliaH, per aver letto in anticipo anche se è in un paesino sperduto chissà dove, Irene, che ha sopportato ogni mia bizzarra elucubrazione senza fare una piega, Monica, che ha letto di corsa per non lasciarmi senza un parere, Chiara B. per le sue belle parole e per avermi (troppo) generosamente paragonata all’Ariosto e a tutte quelle che, anche di sfuggita, mi hanno fornito un consiglio o un incoraggiamento.

Grazie alle organizzatrici del contest per avermi dato l’occasione di scrivere questa storia, che chiunque mi conosca un po’ può classificare senza difficoltà come una catarsi. Ho messo un punto, sto andando avanti. Ho scritto fine. L’ho proprio fatto. Se c’è un miracolo vero, in questa storia, è sicuramente questo.

Il filo conduttore di questa storia è una sorta di viaggio Dantesco, partendo dall’Inferno sino ad arrivare vicinissimi al Paradiso - io riciclo spesso me stessa, si noti - e non a caso l’ultima parte si chiude (quasi) con la parola stelle. Ma se io sono una ben povera narratrice, il mio Virgilio è stato un grande poeta e mi ha accompagnata fino all’ultimo, al gradino più alto della scala. A Fabrizio, sempre, come ogni mia storia.

Grazie a voi tutti, per avermi accolta a braccia aperte. Di nuovo.

Il cantastorie senza pubblico è un pazzo che parla da solo.

 

Giudizi e Punteggi ottenuti dalla storia nel Contest

Grammatica, lessico, sintassi: 9.5/10

- Certe sere come quella (virgola mancante dopo “sere”)
- gli anelli della catena che lo legava al proprio dolore. (legavano)
- L’ampia gonna del suo vestito si era sollevata mostrando (virgola mancante dopo “sollevata”)
- non c’erano foglie ad adornare le sue fronde, né fiori bianchi di quelli che Helena aveva amato tanto. (virgola errata prima della negazione “né”)
- Dì (dì al posto di di’ inteso come verbo)
- Tornava però (virgola mancante dopo “tornava”)
- in modo tutto diverso. (in un modo diverso o in un modo del tutto diverso)

Stile: 9.9/10

 

Il tuo stile è il più complesso e sicuramente maturo di tutte le storie. A un certo punto, abbiamo creduto di morire, perché non trovavamo sbavature o difetti. Non sapevamo esattamente cosa dirti. Poi ci abbiamo pensato attentamente e abbiamo capito che l’unica cosa che possiamo scriverti è: continua a scrivere e, magari, invia un tuo racconto a una casa editrice, perché meriti, meriti tantissimo.
Tuttavia, ci sono due piccole cose che dobbiamo segnarti:

ad eguagliare (non hai mai usato la d eufonica, mentre qui sì. Non è considerata errore, però la segniamo comunque)

e scomparve in un gorgo di fiamme, le catene del Barone scomparvero (ripetizione)

Caratterizzazione: 10/10

I personaggi da te scelti hanno un ruolo marginale nella saga e per questo non sappiamo molto di loro, però tu sei riuscita a renderli tuoi. Li hai plasmati a tuo piacimento senza alcuna difficoltà, donandogli quel tocco di tragicità che a noi tanto piace. Leggendo abbiamo avuto la sensazione di aver di fronte a noi un vero e proprio libro, visto che la trama da te messa in piedi avrebbe potutoa essere davvero quella originale, secondo noi. I tuoi personaggi sono resi con una tale dignità, una tale eleganza che ricordano quelli dei classici dell’Ottocento. Sei stata scrupolosa in ogni dettaglio, nulla è stato lasciato al caso.

Credibilità: 10/10

 

Come abbiamo già detto, la tua storia avrebbe potuto essere tranquillamente raccontata in Harry Potter. Non era facile riuscire a scrivere qualcosa su questi personaggi, poiché non avevi tanti elementi su cui basarti, ma tu te la sei cavata egregiamente. Le descrizioni dei luoghi sono coerenti all’epoca in cui è ambientata la storia, così come l’atmosfera gotica del convento e il linguaggio utilizzato dai personaggi. Non abbiamo trovato comportamenti forzati o falle a livello di trama, perciò complimenti.

Pairing: 9.5/10

 

Inserire questo pairing è stata un’esplicita sfida, poiché eravamo davvero curiose di vedere cosa ne sarebbe uscito fuori. Ne è venuto fuori che abbiamo adorato il Barone e la Dama in modo sviscerato. Il loro amore è delicato e allo stesso tempo passionale, alla maniera dei romanzi ottocenteschi. Ma ha anche sfumature tragiche che ricordano un’opera tipo di Shakespeare. Non sono servite molte spiegazioni, il loro amore si sente e si tocca, fornire degli antefatti avrebbe quasi rovinato l’atmosfera magica della storia. Se esistesse un fandom della coppia Barone Sanguinario/Dama Grigia, la tua storia sarebbe sicuramente il modello a cui far riferimento. Chissà che non riuscirai a dar maggior visibilità a questa coppia.

Originalità: 10/10

 

Non potevamo non metterti il massimo del punteggio, poiché non abbiamo mai letto nulla di simile. L’intreccio che hai creato è fenomenale. Con le poche informazioni che avevi sei riuscita a creare una trama avvincente, per nulla scontata; ogni dialogo è stato strutturato in modo da catturare il lettore ed emozionarlo, facendolo riflettere sui significati che cela al suo interno. Azzeccate sono state, quindi, le citazioni dei grandi cantautori italiani utilizzate, che sono incastrate perfettamente al contesto.

Trama/Narrazione: 9.5/10

 

La trama è stata sviluppata benissimo, senza ombra di dubbio. Inoltre, è ricca di particolari, di avvenimenti e si ha la sensazione di non poterla dimenticare facilmente. Siamo rimaste sorprese dalla narrazione, così intricata e piena di intrecci: hai corso un bel rischio a presentarci una storia così. Abbiamo avuto, verso la fine, l’impressione che mancasse qualcosa. Forse volevamo solo di più, non per altro, perché, sinceramente, c’è tutto. Ci rendiamo anche conto che era un limite imposto dal contest, ma questo ci ha portate a scalarti 0,05 dal punteggio totale. Però ce l’hai fatta: quindici pagine di purissima inventiva. Complimenti.

Sviluppo del prompt: 10/10

 

Lo sviluppo è sicuramente degno di nota. Si vede che permea la storia con la sua sinfonia. Abbiamo apprezzato tantissimo i collegamenti quasi immaginari che si hanno con la citazione da te scelta. È qualcosa che aleggia, che si sente, ma non si vede: perfetto.

Gradimento Personale di Venenum: 10/10

 

Trovo che sia assolutamente delizioso il contesto da te scelto e speravo proprio che fosse quello. Quando abbiamo stilato la lista dei pairing, Dama Grigia/Barone Sanguinario era una delle coppie che avrei voluto vedere su carta. Anche solo per scoprirne gli andamenti e vedere la prospettiva del loro amore da un altro punto di vista. La tua storia mi ha colpita sotto diversi aspetti. A parte lo stile degno di nota e le citazioni sparse per tutta la storia, che personalmente reputo azzeccate e stupefacenti, ho amato la tua visione di loro due insieme. È magnifico il loro amore, la struttura dei dialoghi, come si avverte tutto il contesto.

Un “complimenti” stavolta è riduttivo.

Gradimento personale di Christine23: 10/10

 

Trovo che la tua storia sia meravigliosa. Ho dovuto leggerla una seconda volta per gustarla appieno perché alla prima lettura qualcosa mi era sfuggito. Grazie a te “shippo” un nuovo pairing, a cui prima non avrei pensato più di tanto, perciò ti faccio i miei più sinceri complimenti. Anche se non sono una vera amante dei non lieti fini, quando vengono trattati in modo magistrale, come hai fatto tu, ne resto affascinata. Ecco, forse la parola giusta per descrivere questa storia è affascinante. Perché il lettore resta affascinato dalle tue descrizioni, dal tormento dei protagonisti, dal loro carisma. È difficile dire quale sia stata la scena che mi è piaciuta di più in assoluto perché le ho adorate tutte, ma se devo proprio scegliere direi quella nella foresta, sotto il salice, quando Helena lo prega di dimenticarla e di dire a sua madre che non tornerà; o anche il significato che hai creato intorno alla figura del falco. E, come ultima cosa, ma non meno importante, ho adorato il paragone che hai fatto tra il Barone, Draco e Theodore: “Come il giovaneMalfoy, che si torceva nelle lenzuola arroventate dai sogni, sibilando tra i denti stretti un nome che mai avrebbe dovuto uscire dalle sue labbra, e Nott, che tesseva le sue illusioni durante la notte e le disfaceva di giorno, il Barone Sanguinario nascondeva l’amore sotto il suo mantello macchiato d’argento”.

Bellissima.

Media Gradimento Personale: 10/10

Tot: 88,4/90

   
 
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