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Autore: Aya_Brea    01/10/2012    2 recensioni
Auschwitz, pensato e ricordato grazie ad una mia personalissima introspezione.
Dedicato all'onore dei sopravvissuti.
Genere: Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Quel che resta di Auschwitz




Siete giovani. Avete una miriade di sogni celati nel vostro cassetto. Spesso son sogni apparentemente irrealizzabili, ma il semplice fatto di conservarli e di preservali lì, sul fondo di quel cassetto, vi rincuora, vi scalda l’anima e vi riempie di speranza. Lo sguardo verso il futuro è così incerto, spesso così fumoso e buio da far male. Ma la vita vi sembrerà incredibilmente lunga. E così vi fermate un attimo e vi rilassate. Le paure scompaiono come per incanto, come risucchiate da quella piccola fiammella che arde perpetua dentro di voi.
Bene.
Immaginate ora, di essere giovani. Ma di non avere nulla di quel che ho appena elencato. Non avete sogni, non avete speranze, il futuro è scritto e marchiato a caratteri di sangue, in fondo alla via distinguete semplicemente la sommità di un camino. E tutto si perde nel fumo di quei corpi che bruciano.
Siete ad Auschwitz. Soli. Strappati brutalmente dalla vostra vera vita, e ridotti ad involucri di carne privi di coscienza, spersonalizzati. Schiavizzati e scaraventati con violenza in un luogo dimenticato dal mondo e persino da Dio.
Uomini privi di anima ciondolano e tremano: la neve cade giù copiosamente, sembra non volersi fermare. Scheletri che trascinano soltanto le proprie ossa. Nulla di più. Il silenzio è il nemico peggiore, perché vi costringe a pensare: vi costringe a pensare che non siete uomini. Ma numeri.
E lo eri anche tu, un numero. Come ce n’erano tanti.
Ti ricordo come un uomo dall’aria piuttosto burbera e seria. Ti vedo ancora lì, seduto alla grande scrivania dell’Auditorium della mia scuola, che con grande partecipazione ci racconti la tua incredibile storia. Quel che pensai, parola dopo parola, è che non era possibile. Sembrava che ci stessi narrando un brutto incubo, la trama di un film truculento e brutale, infarcito di insensatezza e disumanità.
Ma tu eri lì. Ed eri carne ed ossa.
Ci osservavi attraverso le lenti dei tuoi grandi occhiali, mentre noi, ti ascoltavamo in religioso silenzio. Sedevo lì, al tuo fianco, talmente vicina da sentire la tua voce tremare per la commozione. Non volevi che la tua narrazione fosse emozionante. Volevi che risultasse il più possibile razionale, perché rimanesse impressa nella nostra mente con più forza e più vigore. E così è stato.
Ricordo ancora quando lessi il tuo libro: le crude immagini di Auschwitz – Birkenau viaggiavano rapide di fronte ai miei occhi, ferendomeli e spezzandomi il cuore. Rigo dopo rigo.
Ma nulla fu più vivido e concreto di quel discorso che pronunciasti nella parte centrale del campo di concentramento, vicino alle fredde rovine di uno dei tanti forni crematori. Erano solo cumuli e macerie, mattoni rossastri apparentemente privi di significato. Ma tu parlasti al loro fianco, nel silenzio di quella vastissima pianura dimenticata. Il filo spinato percorreva decine e decine di ettari di terra. Sopra di me, soltanto nuvole grigiastre. E freddo. Tanto freddo.
Ogni volta che i miei occhi incrociavano i tuoi, io percepivo il tuo dolore e tutta la tua immane sofferenza. Dentro le tue iridi stanche leggevo la storia della crudeltà umana e più che in ogni documentario, o libro, capivo quanto fosse diventato importante ricordare. Nei tuoi occhi, io compresi cosa significasse avere “memoria”.
Auschwitz era così fredda, così orribile. Così reale. Non era più un sogno, non era più soltanto un incubo.
Era lì, eravamo lì. Era la storia che si materializzava, che da semplice “historia” si concretizzava in polvere e mattoni. I forni crematori, le camere a gas, i blocchi. Le fotografie delle vittime, i loro indumenti, le matasse dei loro capelli aggrovigliati e sporchi, le loro scarpe vecchie e, spesso, rotte. La bambola di pezza di una bambina.
Ricordo tutto. Quei tre giorni furono devastanti. Non versai una lacrima, sai?
Ma quando tornai a casa ci furono tanti momenti in cui piansi, in cui sfogai tutto quel che avevo dentro. Mi sembrava di essere tornata ad una vita falsa, una vita non vissuta veramente e con consapevolezza.
Avrei voluto ringraziarti per avermi arricchita così tanto, ma sfortunatamente non ho avuto la forza per poterlo fare: le parole mi si strozzavano in gola, qualsiasi frase mi pareva superflua per un uomo grande, come lo eri tu. E così, il giorno del ritorno, sollevai il capo verso di te e ti osservai, seduto in prima fila sull’aereo. Incrociai il tuo sguardo e ti riservai un sorriso spontaneo, pieno di riconoscenza e di orgoglio: tu facesti lo stesso, ma aggiunsi: “Finalmente torniamo a casa. Non ce la facevo più.”
Non ebbi parole. Forse perché di parole, non ce n’erano affatto.
Sei volato chissà dove.
I tuoi tristi ricordi li hai lasciati qui, fra noi. E spero che finalmente potrai conquistare la serenità e la libertà che hai sempre desiderato avere. I mostri di Auschwitz non ti tormenteranno più.
Di fronte a me ho ancora il tuo libro, con la tua dedica: svetta al centro di una pagina completamente bianca.
“ x M*********. Per non dimenticare.”
Giro la pagina e sfioro la parte retrostante. La scritta è rialzata, marcata; testimonia ancora una volta la tua forza e la tua determinazione, impresse per sempre su di un semplice pezzo di carta.
  
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