Storie originali > Generale
Ricorda la storia  |      
Autore: Nemesi_    02/10/2012    0 recensioni
La luce inondava tutta la chiesa e da lì camminava a passo sicuro mia moglie, con quei suoi occhi verdi, i capelli ricci castani e quel fantastico abito bianco che la faceva risaltare in tutta la sua bellezza.
Questa storia ha partecipato ad un contest e ha vinto il premio lacrima.
Non è proprio il mio genere, ma almeno c'ho provato!
Buona lettura.
Genere: Drammatico, Guerra, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Il mio migliore amico morì il 12 Agosto del 1944, proprio davanti ai miei occhi.
“Non sei contento che tra una settimana torniamo a casa?”
Mi guardò sorridente e poi posò una mano sulla mia spalla.
“Finalmente torneremo dalle nostre mogli e dai bambini.”
Era così euforico all’idea di tornare a casa, che quasi non si ricordava più di essere in servizio, non si ricordava più che eravamo nel bel mezzo della guerra e questa dimenticanza gli fu fatale, perché proprio mentre pronunciava queste parole fu colpito al petto da un proiettile proveniente dalle linee nemiche.
 
Mi svegliai di soprassalto: anche quella notte avevo sognato Tom e il suo sorriso che si spegneva davanti a me, dopo avermi reso partecipe dei suoi pensieri.
Erano passati 10 giorni dalla sua morte e io ero pieno di rimorsi, perché avrei potuto fare qualcosa per aiutarlo, ma soprattutto perché a 27 anni non si può morire in questo modo.
La guerra porta via molte persone, dei poveri innocenti che si trovano nel posto sbagliato al momento sbagliato, dei padri che sono l’unica fonte di speranza per la famiglia, degli amici con cui hai condiviso ogni momento della tua vita, dei ragazzi che lottano solo per un po’ di pace e per un futuro libero.
Tutto questo è ingiusto, ma per grazia di Dio io sto tornando a casa.

Mi alzai dal letto della locanda dove avevo cercato posto per passare la notte, mi lavai il viso e mi ambiai la fasciatura che avevo al braccio. Ero stato ferito anche io nell’ultimo attentato, ma per fortuna si trattava di una ferita lieve che aveva fatto tardare la mia partenza solo di qualche giorno.
Mi infilai la divisa e scesi a fare colazione: mi aspettavano un pezzo di pane e del latte fresco. Non c’era niente di meglio per iniziare la giornata.
Uscii dalla locanda e mi diressi verso la piccola stazione, dove vidi fermo il treno che mi avrebbe riportato a casa.

Quando salii notai che era vuoto e silenzioso.
Erano giorni che il silenzio mi accompagnava: io non parlavo con nessuno e nessuno parlava con me.
Da quando Tom era morto mi sentivo freddo, come se una parte di me fosse morta con lui.
 
Alla prima stazione salirono un vecchio e una donna e si sedettero proprio al mio fianco.
Il mio sguardo si posò su quest’ultima e notai che teneva entrambe le mani sul grembo, come per proteggere quello che conteneva, quello che ormai doveva essere la sua unica ragione di vita.
Il vecchio che era accanto a lei le mise una mano sulla spalla e le asciugò le lacrime che le scendevano ininterrottamente sulle guance, rigandole il viso.
Quando alzò gli occhi notai che erano verdi, di una tonalità vivace e particolare, che mi ricordavano quelli di mia moglie, o almeno come mi sembrava di ricordare.
Appena la donna mi vide cominciò a singhiozzare più forte, tornando a guardare l’uomo che le era vicino e stringendosi più forte il ventre, ma poi si voltò di nuovo verso di me e mi rivolse la parola: “Sta tornando a casa?” La sua voce era debole ed era interrotta da alcuni singhiozzi.
Io annuii, continuando a guardarla negli occhi.
“E’ fortunata la sua famiglia a riaverla indietro sano e salvo! Mio marito invece…” Scosse la testa e quello che doveva essere suo padre la abbracciò e lei lasciò sprofondare la testa nel suo petto, sentendosi al sicuro almeno per un po’.

Per il resto del viaggio nessuno parlò più, anche se di tanto in tanto mi sentivo i loro sguardi addosso.

Io continuai a guardare fuori dal finestrino il paesaggio che passava lento, mentre anche un altro giorno se ne andava e non appena fece buio io mi addormentai.

Quella notte sognai il mio matrimonio.
Ero all’altare, accanto a me c’era Tom che mi guardava soddisfatto e mi sistemava per l’ultima volta la cravatta, mentre le porte della navata centrale si aprivano.
La luce inondava tutta la chiesa e da lì camminava a passo sicuro mia moglie, con quei suoi occhi verdi, i capelli ricci castani e quel fantastico abito bianco che la faceva risaltare in tutta la sua bellezza.

Quando mi svegliai notai che ero rimasto solo nel vagone e che la prossima fermata era la mia.
Così mi alzai in piedi non appena sentii il fischio del treno e mi apprestai a scendere.

Erano le 6.28 e la stazione era deserta.
Non me la ricordavo così, c’era sempre qualcuno che partiva o che arrivava, ma in tempo di guerra nessuno voleva muoversi, quelli che erano al sicuro volevano restarci.
Uscii e imboccai la prima strada a destra, che percorrevo da quando ero bambino, ma quel giorno era diversa: sembrava inghiottita dalla nebbia e non si vedeva nulla.
Non mi sembrava neppure di essere quasi a casa, mi sembrava di essere ancora in guerra al fronte, ma per fortuna non era così.

Era l’alba del mio ultimo giorno di marcia per tornare a casa e poi finalmente avrei potuto vedere mio figlio, che ormai dovrebbe avere quasi  quattro anni.
Mia moglie mi aveva detto di essere incinta appena dopo la mia partenza e dalla sua nascita ogni mese mi inviava una sua foto, così che potessi vedere anche io come stava crescendo.
Le tenevo tutte in una busta e quel giorno le avevo nel taschino della divisa, accanto alle medaglie al merito e appena sopra il cuore, per non perderle mai.
Quattro anni di servizio sono lunghi e io cominciavo a dimenticarmi i volti dei miei cari.

Camminai lentamente per diverse ore.
Stavo tornando a casa finalmente.
Procedevo a tentoni, perché la nebbia era troppo fitta e non riuscivo a distinguere neppure il profilo delle case, finché non arrivai davanti al mio cancello.

Lo trovai aperto ed entrai nel giardino.
Prima di bussare alla porta chiusi gli occhi e pensai a Tom.
Scossi leggermente la testa e mossi ancora qualche passo verso l’uscio, bussando con energia.

La mia famiglia non sapeva del mio arrivo, perché non ero riuscito ad avvisare, ma comunque mi stavano aspettando con ansia.

Sentii qualche rumore oltre la soglia e quando la porta si aprì con il suo cigolio così familiare, sentii il cuore battermi forte, com’era tanto che non faceva.
Il volto di mia moglie Anna mi guardò commosso e i suoi grandi occhi verdi iniziarono a perdere diverse lacrime.  “Grazie al Cielo!” esclamò.
Mi abbracciò e mi baciò, stringendosi forte a me.
Poi si staccò e rientrò in casa urlando: “Pietro, corri! E’ tornato papà!” sentii dei passi più leggeri venire verso di me, seguiti da quelli di Anna, più veloci e pesanti.
Mia moglie stava accompagnando mio figlio da me.

Appena le due chiome girarono l’angolo e io me le trovai davanti, sentii che il mio viso si stava bagnando: per la prima volta dopo quattro anni stavo piangendo.

Osservai mio figlio mentre si avvicinava. Era biondo e aveva gli stessi occhi di sua madre: grandi, vivaci e soprattutto verdi.
Era bellissimo, ma purtroppo era già grande. Mi ero perso la sua crescita e non gli avevo dato ancora alcun amore, ma da quel momento in poi mi sarei concentrato solo su di lui e su mia moglie e sarei diventato il marito e il padre perfetto.

Sentii le sue esuli braccia attorno alla mia vita, seguite da quelle di Anna e restammo in quella posizione per molto tempo: avevo ben quattro anni di affetto mancato da dover dare ad entrambi.  
  
Leggi le 0 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Generale / Vai alla pagina dell'autore: Nemesi_