Il
primo raggio di luce del
mattino entrò nella stanza della ragazza colpendola
delicatamente in volto e
facendole aprire debolmente gli occhi.
Con
un po’ di fatica e con un
sonoro sbadiglio inarcò la schiena facendola appoggiare al
cuscino e attirò al
petto le gambe raccogliendole e cingendole con entrambe le braccia. Con
aria
ancora assonnata cercò di mettere a fuoco il luogo in cui si
trovava.
La
scrivania, come al solito,
era inondata da fogli, pastelli e matite.
Disegnare
era la sua passione
fin da piccola; trovava in quest’ arte la
possibilità di fuggire via da quel
mondo così rigido e caotico.
Il
pavimento era invaso da
una moltitudine di vestiti che tirava fuori dall’armadio e
che ritualmente
lasciava che ricoprissero il suolo.
Rivolse
lo sguardo verso la
piccola finestra alla sua sinistra e ammirò il panorama
esterno: un viale
alberato decorato da piccole casette colorate.
Per
un attimo ripensò alla
sua vecchia abitazione e sussultò ricordandosene solo in
quel momento. Era
l'inizio di un nuovo giorno, un giorno che anni addietro avrebbe
preferito
cancellare.
Una
lacrima le scese silenziosa
sulla guancia; ma con un lembo del lenzuolo subito la cacciò
via.
Come
ogni anno quella
giornata cominciava con una serie di ricordi riguardanti la sua
infanzia
distrutta tragicamente. Era inevitabile, per lei, non riviverli.
Piangevo…
continuavo a piangere e non riuscivo a smettere, le lacrime mi
scorrevano
ininterrottamente sul viso, e viaggiavano fino alla base del mento per
poi
cadere in una piccola pozzetta che avevo formato con esse.
Ricordo
solo che sono tornata a casa e non ho trovato i miei genitori. Ho
girato tutte
le stanze alla loro ricerca fino a che non sono entrata nella loro
camera.
Erano sdraiati sul letto, immobili. Pensavo che stessero dormendo,
così mi sono
avvicinata e, come facevo sempre per
giocare, sono saltata sopra di loro. Ma non avevano
reagito in alcun
modo, così iniziai a scuoterli, ma niente. I loro corpi
erano freddi, li coprii
con le coperte, per riscaldarli. Avevo provato a chiamarli:
-
Mamma, papà… svegliatevi dormiglioni è
ancora giorno! -, invano.
Sentii
un rumore alle mie spalle, quindi mi girai. C’ era un uomo
che mi guardava.
Aveva in mano un coltello, che stava pulendo accuratamente dal sangue
con un
fazzoletto di seta bianca. Non ricordo nient’ altro di quella
persona, tranne
ciò che mi fece non appena capii che aveva assassinato i
miei genitori e cercai
di fuggire. Mi prese in braccio mentre io urlavo e mi divincolavo dalla
sua
stretta. Si diresse nella mia stanza e mi distese sul letto. Era sopra
di me e
iniziò a togliermi i vestiti e a toccarmi ovunque. Cercai di
opporre resistenza
ma era troppo forte.
Ad
un
certo punto penso di essere svenuta perché al mio risveglio
era seduto sulla
sedia a dondolo accanto a me che fumava una sigaretta. Lo sento ancora
adesso
quell’ odore nauseante che emanava il suo corpo: fumo e
alcool, probabilmente
si era anche drogato. Vedendomi aprire gli occhi si alzò in
piedi e lasciò
cadere il mozzicone di sigaretta sul tappeto senza curarsi di
schiacciarlo per
spegnerlo. Mi si avvicinò con il coltello in mano.
Pensai
veramente che fosse arrivata la mia ora, fino a quel momento non avevo
mai
pensato alla mia morte, a quello che si provava negli ultimi istanti.
Rimasi lì
immobile ad attendere il dolore che la lama avrebbe provocato al mio
petto non
appena lo avesse trapassato. Finalmente, dopo quella che mi parve
un’ eternità,
lo avvertii e fu talmente acuto che mi mozzò il fiato e non
riuscii a gridare.
La
vista mi si fece sempre più appannata.
“Beh
- pensai – almeno fra poco raggiungerò mamma e
papà.”. Ma avvenne un miracolo:
sentii che l’ uomo veniva scaraventato via dal mio corpo, non
vidi chi era
stato, ma chiunque fosse gli sarei stata grata per tutta la vita, se me
ne
fosse rimasta ancora. Poi vidi che il mio salvatore era un ragazzo, che
mi
prese in braccio. Mi giunse a tratti la sua dolce e seducente voce; mi
diceva
di stare tranquilla, che non era ancora arrivata la mia ora: si sarebbe
preso
cura di me.
Non
capii il motivo di tanta gentilezza, ma mi fidai ugualmente. Ormai non
avevo
più nulla da perdere. Avvicinò il suo viso alla
mia ferita e ne diagnosticò le
condizioni. Nel suo sguardo vidi un’ espressione preoccupata
ma non si fece
prendere dal panico. Mi guardò di nuovo e mi
passò una mano tra i capelli. Poi
iniziò a cantare una dolce ninna nanna e io, stremata dal
dolore per tutto quel
che era successo, mi addormentai profondamente.
Involontariamente
si portò
una mano al petto, lì dove ancora si intravedeva una lunga
cicatrice. Le
sembrava ancora incredibile essere sopravvissuta. E ancora
più incredibile le
sembrava essere riuscita a non annegare nel dolore.
Se
ci era riuscita era solo
grazie a Ryan.
Un
altro ricordo le affiorò
alla mente.
Sentii
un terribile rumore rimbombarmi nelle orecchie e non
potei fare altro che svegliarmi.
Ero
sdraiata su un letto e attorno a me c’erano tante persone
con dei lunghi camici bianchi che mi guardavano con aria preoccupata.
Accanto a
me ancora quel ragazzo, che mi accarezzava la testa e parlava con
quella sua
voce così calma e tranquillizzante.
Non
capii di cosa stessero parlando: un incidente, una ferita,
una barella, un’operazione. Era tutto molto frenetico e
confuso. Vidi quelle
strane persone allontanarsi ed uscire dalla stanza in cui mi trovavo.
“Dove
sono?” mi ritrovai a pensare.
-In
un ospedale. Hai una ferita sul petto e sei qui per essere
curata.
Mi
resi conto di aver parlato, e alla risposta di quel
misterioso ragazzo mi riaffiorarono alla mente quelle scene orribili.
Ricominciai a piangere, ma quella persona mi si avvicinò al
viso continuando ad
accarezzarmi.
-Non
preoccuparti. Andrà tutto bene. Presto guarirai.
-Ho
paura…
Mi
asciugò teneramente le lacrime e mi sorrise. In quel momento
rientrarono i medici e cominciarono a far muovere il letto. Il ragazzo
fece per
allontanarsi ma lo trattenni debolmente.
-Chi
sei?
Rivolse
uno sguardo calmo e mi prese la mano.
-Ryan,
un amico.
-Ciao,
Ryan. Ci vediamo dopo.
Non
voleva piangere
nuovamente. Doveva essere forte e superare quel terribile accaduto. Ci
sarebbe
riuscita, per se stessa e per Ryan.
Il
suo salvatore le era stato
vicino sempre da quel lontano giorno. L’aveva aiutata a non
pensare al dolore
che la cicatrice le aveva inferto nei primi tempi.
Ma
soprattutto l’aveva
confortata dolcemente, come solo lui era capace di fare, dopo la morte
dei suoi
genitori. Solo da poco era riuscita a smettere di piangere, ma a volte
la
tristezza era talmente intensa che non poteva fare altro che chiudersi
in
camera sua e dare libero sfogo alle lacrime. Ma era di nuovo capace di
sorridere e di questo non poteva fare altro che ringraziare quel
ragazzo.
Dal
giorno in cui lo aveva
conosciuto aveva fatto una promessa ai suoi genitori: che gli avrebbe
voluto
bene come ne aveva voluto a loro. Sarebbe stato un modo per
ringraziarli di
quel poco che avevano potuto fare nella sua vita. Anzi,
l’unico modo.
I
ricordi furono interrotti
dalla porta della camera che, lentamente, si apriva.
-Sei
ancora a letto?
Era
Ryan, gli anni per lui
sembravano non trascorrere mai agli occhi della ragazza. Quel fascino
che
l’aveva attirata anni prima era rimasto indelebile e
immutabile.
Il
ragazzo, ormai uomo,
richiuse la porta dietro di se e si sedette sul bordo del letto.
-Oggi
è un giorno importante.
Fra un po’ andremo al negozio a prendere la tua torta
preferita e poi andremo
al lago. -
La
ragazza lo abbracciò
dolcemente e sospirò.
-Come
ogni anno. –
Si
ritrovò per un attimo a
pensare e subito si lamentò scherzosamente:
-E
come ogni anno mi toccherà
pagare il gelato. –
Ryan
la guardò e le sorrise.
-Beh?
E’ il tuo compleanno!
Un sacrificio lo dovrai pur fare in onore degli anni che passano.
–
Risero
entrambi sonoramente.
Poi la giovane alzò lo sguardo per incontrare quello
dell’uomo.
-Promettimi
che sarà come
l’anno scorso e come tutti gli altri anni. Anche se sono
cresciuta non voglio
che le cose cambino. Sarò sempre la tua bambina? –
L’uomo
la baciò sulla fronte.
-Te
lo prometto, Hope. Nulla
cambierà. –
La
ragazza appoggiò la testa
sulla spalla di Ryan. Infine un ultimo, piacevole ricordo, le
tornò alla mente
prima di iniziare a vivere quella giornata.
-Che
cosa fai, piccola? -
Alzai
la testa dal disegno che stavo facendo e guardai Ryan in
volto. Era da poco uscito di casa per una faccenda, ma mi aveva
promesso che
sarebbe tornato subito; e così era stato.
Aguzzando
la vista vidi che reggeva in una mano un sacco e
nell’altra un pacchetto regalo.
-Stavo
disegnando. Guarda: questi siamo noi e questa è la nostra
casetta. –
Ryan
mi si avvicinò con un sorriso posando il sacco sul tavolo e
porgendomi il pacchetto.
-Per
te. –
Guardai
quel misterioso regalo con molta tristezza sotto lo
sguardo di Ryan che nel frattempo stava prendendo una torta dal sacco.
-Ma
oggi non è il mio compleanno. Non ricordi che in questo
giorno… -
-Lo
so, piccola. Ma è proprio in questo giorno che tu hai
iniziato
una nuova vita. E i tuoi genitori non vorrebbero vederti triste. Anzi,
al
contrario. Vorrebbero che tu fossi felice. Vorrebbero vedere un grande
sorriso
illuminarti il volto. Perché solo così loro
staranno bene, d’ora in poi. –
Mi
prese il volto tra le mani come da sempre faceva.
-E
ora, sorridi. Perché anche io sono felice quando ti vedo
sorridere. –
Come
ipnotizzata dalle sue parole, non feci altro che un
sorriso.
Ryan
aveva avuto ragione fin
da allora. Aveva insegnato ad Hope che perdere qualcuno a cui si vuole
davvero
bene non significava per forza rinchiudersi in se stessi e continuare a
piangere fino allo sfinimento.
Ma significava piuttosto vivere la vita serenamente per poter conservare nel proprio cuore solo i ricordi più belli.
***
Prima storia che pubblico nel sito, spero sia gradita!
Un saluto,
Lain