Chapter n°15: This is Halloween!
I giorni che separavano gli studenti del college dall’evento
più atteso dell’autunno – la festa di Halloween a spese dei Kirkland,
ovviamente – passarono velocemente, tra interrogazioni, primi compiti in classe
e, per quanto riguardava Luk, corse a rotta di collo per evitare di far tardi
all’ennesimo appuntamento con la sua troupe, giù nel cortile. Appuntamento
organizzato da lei, poi. E l’idea di mettersi una sveglia sul cellulare oppure
di attaccarsi dei post-it in fronte non la sfiorava minimamente, mai.
L’aria autunnale
cominciava a farsi sentire, col sole che scivolava dietro i palazzi senza
neppure aver avuto il tempo di riscaldare alcunché e le siepi che iniziavano a
spogliarsi. E la pioggia che batteva più che mai, ovviamente. Più volte si
erano ritrovati a dover invadere qualche stanza per girare le scene
all’interno, visto che non c’era stata altra scelta.
Ma andiamo al dunque. Era quasi la sera di Halloween e l’istituto
sembrava essersi svuotato del tutto, con quasi tutti i ragazzi stipati nelle
loro stanze a sistemarsi i costumi. A passeggiare nei corridoi del dormitorio
femminile, si sarebbero potuti sentire i vestiti frusciare sui loro corpi,
mentre roteavano davanti ad un qualche specchio, in un turbinio di “Come mi
sta?” o “Non avrei dovuto mangiare tutti quei muffin…”.
Quella che proprio non si faceva problemi sui muffin che ingurgitava
abitualmente, era Luk, spaparanzata sul proprio letto, a fissare Sesel che si
infilava in un vestitino adorabile, modificato solo qualche tempo prima dalle
abili mani di Mei – eh sì, la taiwanese ci sapeva fare anche con ago e filo –
e, secondo il parere della groenlandese, davvero anana. L’isolana non faceva altro che sorridere nervosamente,
rimirando la sua immagine nello specchietto messo strategicamente sulla
finestra in modo da potersi guardare interamente. L’abito di acetato azzurro,
monospalla, le stava alla perfezione e le piccole paillettes sulla spallina
destra sembravano proprio delle piccole squame, che diminuivano in un effetto
di dissolvenza, diventando pian piano che si scendeva sempre più rade e infine
lasciando l’acetato nudo. Sorrise alla sua immagine riflessa e le sorrise anche
Pipaluk, nella sua maglia di lana bianca e con un paio di orecchie da orso in
testa, applicate su di un cerchietto scuro che si confondeva col colore dei
capelli. Non era poi così chic come
si era immaginata nei suoi viaggi mentali verso le scintillanti serate di
Hollynuuk, anzi. Eppure ci ho provato,
continuava a dirsi, sono i vestiti che mi
rifiutano. Sarei una femme troppo fatale, con uno di quei cosi addosso. Potrebbero mettermi in prigione,
chissà. Eppure, nel suo inconscio, sapeva che avrebbe dovuto iniziare a
ripiegare sullo sgranocchiare cereali integrali e a correre decentemente in
palestra, anziché camminare. Quella sua sorta di goffo travestimento da orso
polare della serie non-entro-nei-vestiti-ma-ho-fantasia-da-vendere
però le piaceva. Le sue orecchie erano così morbide! Iniziò ad accarezzarsele,
allontanando i tristi pensieri su di un possibile abbandono dei muffin. Ma
senza di lei cosa avrebbero fatto, tutti soli? Chi li avrebbe rubati e portati
con sé in lungo e in largo? Chi avrebbe fatto conoscere loro il mondo, usandoli
come spuntino nelle uscite a Londra? Chi?
Lo squittire nervoso della ragazza in acetato la ridestò, non riuscendo
comunque ad allontanare la sua mente dal pensiero di un bel muffin al
cioccolato. « E poi, Luk, nel caso si vestisse da figo alla festa – cosa che
farà! – che diavolo dovrei dire, eh? Non posso sembrare una maniaca! Che
faccio, Luk? » le mani tra i capelli, i capelli tra le mani, l’espressione
persa da giovane innamorata. A Luk brontolò lo stomaco. Il muffin doveva
sentirsi solo…
« Dovresti spiegargli che, ehm… lui ti piacerebbe comunque anche senza
quei vestiti, sempre e comunque! Lo ameresti anche se fosse un topo morto in un
sacco di patate, perché è lui! Leggi Twilight e fatti venire qualcosa! »
affermò lei, in piedi sul letto e con il dito indice rivolto verso la lampada
sul soffitto.
« Twilight, libri americani… che dovrei farmi venire, un accidenti? »
chiese lei, sarcastica.
« Mi fai paura, smettila! Questo paese e quel tizio ti stanno rovinando!
Torna a pescare e lascia perdere l’istruzione in questo paese senza sole,
donna! » la groenlandese alzò le braccia al cielo – in quel caso, al soffitto
–, esasperata. « Se continui così ti cresceranno le sopracciglia! » l’altra,
per tutta risposta, esplose in una risata cristallina. Davvero attraente. Luk
si morse un labbro. Arthur, a sentirla, sarebbe caduto ai suoi piedi. Ovvio che
l’avrebbe fatto. Sesel era carina, simpatica e abbronzata, con i capelli setosi
e profumati. In quell’abito era semplicemente magnifica e poteva contare su di
una risata sexy. Lei cos’aveva? Un paio di orecchie di peluche e dei rotolini
indesiderati da nascondere.
« Luk, sei una sagoma! » continuò la bruna. « Perché non hai un
fidanzato? »
Lei fece per aprire bocca, poi se ne uscì con un “Capita anche ai
migliori!” e andò in bagno per esaminare la sua immagine riflessa nello
specchio. Niente bugie, niente Sesel che dice che sei adorabile con quelle
orecchie. Solo una superficie trasparente e fredda che ti mostra come sei in
realtà. Una faccia tonda, due occhi troppo piccoli e, nell’insieme, una ragazza
che dovrebbe far ricorso ad un lifting – o alle mani di Mei. Mei che,
sicuramente, a quell’ora era chiusa in bagno con la sua inseparabile trousse e
non aveva tempo per nessuno. Provò a farsi una treccia, ma era praticamente
inutile con i capelli che al massimo le accarezzavano la base del collo. Forse
se si fosse data per malata nessuno avrebbe notato la sua assenza. Forse, ma
avrebbe lasciato i suoi migliori soci – vedesi Sesel e Berwald – senza la sua
ispiratrice presenza. E anche se, facendo due più due, non aveva fatto poi
molto per loro, si sentiva comunque una traditrice ad abbandonarli così, da
vigliacca. Si sarebbe potuta sedere vicino al tavolo del punch mandando la
propria energia positiva da lì e nessuno l’avrebbe notata, no? E avrebbe
rimediato un sacco di punch. Magari avrebbe trovato anche qualche alcolico
posizionato a tradimento da qualche studente scaltro, chissà… e si sarebbe
goduta tutta la festa da spettatrice passiva, monitorando i suoi protetti. Non
sembrava poi così male, come piano. Si sforzò di sorridere all’immagine
riflessa, che– chi l’avrebbe mai detto! – ricambiò. Uscì dal bagno come se
nulla fosse accaduto, a testa alta.
« Mi permetta di allontanarmi dalle mie stanze, Miss Tuna… » fece, indietreggiando mentre si abbassava in una marea
d’inchini. Sesel ridacchiò. « Mi sposto nel dormitorio maschile. » e, detto
ciò, chiuse la porta dietro di sé. La ragazza sgranò gli occhi per la sorpresa,
e non perché fosse proibito. Era possibile farlo, ma per questioni d’etichetta che pochi – ragazzi
particolarmente avventurosi e coppiette – avevano deciso di contestare, i
dormitori femminili e maschili agli occhi degli individui di sesso opposto
apparivano categoricamente off limits.
E anche per Luk, in realtà. Era la prima volta che si avventurava tra quei
corridoi, mentre si chiedeva se ci fossero russi spaventosi che ne
proteggessero le porte o che sbucassero dagli angoli, però non voleva stare
nella sua stanza un minuto di più. Chiamasi complessi di inferiorità
improvvisi.
Uno, due, tre… qual era il numero della stanza di Berwald e Tino? Il
finlandese doveva avergliene parlato qualche volta, no? Sfiorò il mogano di una
porta, poi ritrasse subito la mano spaventata, sentendola vibrare. Qualcuno ci
doveva aver sbattuto, e con forza. Perché sembrava tanto impaurita? Era solo
una porta e qualche cretino ci aveva sbattuto accidentalmente. Nessun russo in vista. Era un semplice dormitorio,
cavoli. Con ragazze un po’ meno intelligenti e mutande più capienti,
nient’altro. Non aveva bisogno di un coltello stretto nella mano per cavarsela.
Nessuna corsa che avrebbe compromesso la sua reputazione.
Quattordici, quindici, sedici…
« Mh---! »
Un solo, unico mugugno. Doveva essere Nanuk, per forza. Spalancò la
porta con tutta la sicurezza del mondo. Sicurezza che andò a farsi benedire
quando le si parò davanti un tizio quasi in mutande con una sorta di bizzarro
copricapo provvisto di corna sulla testa. Tizio che, poi, conosceva. Tizio che
esclamò “Bloody Hell!” cercando di coprirsi con il cuscino, come se fosse una
ragazza sprovvista di reggiseno. Tizio che aveva organizzato il party e che si
stava trattenendo dallo scattare per chiuderle la porta in faccia. Tale Arthur
Kirkland. Ah, i casi della vita. In compenso adesso aveva una storia in più da
raccontare davanti al fuoco.
« Ah, regista! » il responsabile del cappello si sporse verso di lei,
con un sorriso beota stampato in faccia. Almeno non aveva sputato qualche
imprecazione. « Quand’è stata l’ultima volta che ti sei trovato una ragazza in
camera da letto, Arthur? » lo punzecchiò. Quello si mise una camicia in fretta
e furia e si girò dall’altra parte.
« Tu sai dov’è la stanza di Tino e… Berwald?
» chiese la groenlandese in un soffio. Era strano chiamare lo svedese per nome
e non si era mai trovata davanti ad una reazione tanto esagerata. In fondo era
un maschio, Arthur. Tutto quel macello l’aveva messa in imbarazzo.
All’americano parve strano vederla così. Di solito erano allo stesso livello:
due adorabili simpaticoni. Sembrava Sesel, adesso.
« La ventitré, mi pare… » poi iniziò a socchiudere la porta, in seguito
agli ordini del britannico, che assomigliava ogni secondo di più ad una vecchia
bisbetica. « Scusa, sua maestà deve adempire al rito della vestizione… » il
copricapo cornuto gli atterrò in testa, un chiaro invito a sbrigarsi. « … Belle
orecchie! » poi chiuse definitivamente l’uscio.
Ventitrè,
ventitré. Cerca di non scordartelo, Luk. Non vorrai aggiungere altre figuracce
alla tua bella lista, no?
Ventuno, ventidue, ventitré. Fece un
gran sospiro e bussò. Stavolta ebbe in risposta un altro mugugno, ma di quelli
autentici.
« Nanuk? » chiese, aspettando una risposta. Quello – perché ci aveva
azzeccato, stavolta –, dall’altra parte della porta, inizialmente non riuscì a
collegare il suono squillante di quella voce a nessuno. Poi la sua mente corse
alla groenlandese che tanto le era stata appiccicata. La socia. Era lì, quindi?
« L’k? » buffo chiamarla col suo soprannome. Lei annuì, pretendendo che
Berwald avesse degli occhiali a raggi X per vederla. Dopo un po’ assentì a
voce, iniziando a premere con forza sulla maniglia. Chiusa.
« D’bbiam’ far’ la d’ccia. » spiegò l’altro, adocchiando la maniglia che
si muoveva su e giù, ininterrottamente. La groenlandese bussò un’altra volta.
Che diavolo voleva?
« Ma io devo entrare… »
avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di non restare lì fuori, alla mercé di…
nessuno, in pratica. Però voleva starsene chiusa da qualche parte, senza Sesel
che le chiedevano se stessero bene e senza inglesi urlanti. Ovunque. Perché
aveva scelto proprio quella camera, poi? Che avrebbe potuto fare? Che avrebbe dovuto fare, meglio. Sapeva quanto lo
svedese gioisse della sua “affettuosità”, ma era comunque il suo socio. E Tino
il suo migliore amico, nonostante fosse davvero sfuggente negli ultimi tempi.
Scrollò le spalle. Il fatto che tu sia socia o amica di qualcuno non ti obbliga
ad irrompere nella sua camera quando non riesci a reggere il confronto con la tua
compagnia di stanza.
« Beh, non vorresti mica lasciarmi qui fuori, no? » riprese, un
sorrisetto nervoso sulle labbra. Il silenzio che ci fu dopo non le augurava
nulla di buono. A torto, perché qualche secondo dopo si ritrovava sul letto
comodo di Tino, ad esaminare un copricapo vichingo dal quale pendevano lunghe
trecce rosse. Di Berwald, a quanto pare. Tributo a Pippi. Magari Tino avrebbe
seguito il suo esempio travestendosi da ippopotamo bianco¹, chissà. Ed in
effetti ci aveva pensato, peccato che in Gran Bretagna non fossero così tanto
famosi…
« Sesel è meravigliosa. » disse Luk, mettendosi l’elmo in testa. « Io
sono un orso. Un orso che ha mangiato troppi muffin. » sospirò, girandosi i
pollici.
Ci mancava l’inuit
depressa, ecco.
« Gl’ ‘rsi son’ figh’. »
tentò Berwald. « Vad’ a
d’cciarm’… » al
contrario della sua controparte immaginaria, non è che Berwald
fosse un gran
consolatore. E poi c’era Tino, lì. Si sentiva a disagio.
Si chiuse nella
doccia, aprendo il getto dell’acqua calda. In pochi secondi era
immerso nel
mondo nebbioso e avvolgente della doccia. Come ogni essere umano,
pensò per
buona parte del rito. Magari se si
fosse dimostrato più affettuoso con Luk Tino avrebbe capito una volta per tutte
che era un adorabile orsacchiotto svedese e l’avrebbe sposato tra qualche anno
o giù di lì… perché non ci aveva pensato prima? Magari Luk aveva messo su la
commedia dell’amica depressa per dargli una possibilità in più… ma avvisarlo
prima no, eh? Mandargli un po’ di energia positiva per avvertirlo, come alla
cena? Appoggiò la testa sul vetro della doccia, il getto – ormai bollente – gli
ustionò la schiena. Si allontanò di scatto dallo schizzo, spalmandosi sulla superficie trasparente e piacevolmente gelida.
Forse aveva ancora una possibilità, però. In fondo Eduard gli aveva spianato la
strada, ritirandosi a quel modo. Alcuni dicevano che si sarebbe addirittura
ritirato tra qualche mese per motivi ignoti.
Chiuse l’acqua, sgusciando fuori dalla doccia ed avvolgendosi immediatamente un
asciugamano in vita. Era nudo come un verme e Luk sarebbe potuta entrare da un
momento all’altro. O forse non era tanto stupida e pervertita. Ma non avrebbe
comunque corso il rischio. Si mise anche le mutande, prima di sbucare fuori
dalla porta.
« … mica male, eh? » fischiò la groenlandese, ammiccando a Tino. Quello
si girò dall’altra parte. Berwald raccattò il costume da vichingo per poi
richiudersi nuovamente in bagno.
« L’hai spaventato. È come un cerbiatto. » osservò il finlandese, per
poi estrarre dalla tasca dei pantaloni una bandana alquanto piratesca ed
esibire uno dei suoi migliori sorrisi. « … Io sono un pirata! »
« Ed io sono un orso che si ubriacherà di punch! » riprese lei,
rivolgendogli un altro sorriso.
« Dai, Luk, sei una bella ragazza… » Tino le diede un buffetto. « Devo
stare qui a propinarti quelle frasette smielate che si condividono su facebook
per farti contenta? »
« Nah! » Luk si lasciò andare, atterrando di schiena sul letto. « Sta un
po’ con Nanuk, stasera. È proprio un bel vichingo! » dettò ciò, saltò in piedi
ed in poco tempo fu sulla porta. « Fallo per me, Tino! »
« Ma pensa a rimorchiare! » La porta si richiuse, un cuscino ci sbatté
contro, cadendo rovinosamente sul pavimento. Sul viso del ragazzo comparve un
sorriso amaro. Probabilmente anche lo svedese avrebbe pensato a rimorchiare. E lui conosceva anche il
suo obiettivo.
L’anno prima ci era andato con Eduard, alla festa in maschera. L’avevano
organizzata nel periodo di Carnevale ed era stata una sorta di “regalo” dall’istituto
agli studenti, poiché quello stesso anno uno di loro aveva raggiunto uno dei
primi posti (se non proprio il primo) in un concorso d’informatica. Ed non era
riuscito a qualificarsi per una manciata di punti, causa notte in bianco per
cercare un film che Tino doveva assolutamente
vedere. E aveva cercato un download decente in un disperato tentativo di
strappargli qualche altro sorriso. Al finnico, però, disse che si era trattato
solo di un mal di pancia per quei ggshhgs che gli aveva preparato. Quella sera,
con una maschera sugli occhi, ci avevano riso su, facendo il brindisi col punch
e aspettando che qualche ragazza in minigonna si abbassasse per allacciarsi le
scarpe. L’estone aveva appena cominciato la sua recita. Faceva un po’ male, ma
forse ce l’avrebbe fatta. In fondo aveva ancora qualche anno, per provarci!
Mentre adesso si ritrovava con i giorni contati e la valigia che gli ricordava
quel che aveva fatto, dietro la porta. Ogni tanto, quando la sbatteva troppo forte,
il suo bagaglio – ancora vuoto – cadeva
con un tonfo sordo, facendolo quasi trasalire. E poi si metteva la testa tra le
mani e si scompigliava i capelli, chiedendosi perché. Perché a lui, perché a
lui e Tino. Eppure andava così bene,
prima.
Tino si chiese da cosa si sarebbe vestito il suo amico, quell’anno. Si
chiedeva se avrebbe partecipato alla festa, se sarebbe restato da solo o con
Raivis, quel tipo lì che gli stava sempre appiccicato da un po’. Uno di Riga, a
quanto pare, conosciuto per il fatto che tremasse continuamente e non facesse
altro che dire cose a sproposito, pur tremando. Sentì uno strano sentimento,
quasi un malessere, che si infiltrava in lui, al pensiero del ragazzino biondo.
Gelosia, perché Eduard era suo amico
o almeno lo era stato. Invidia nei confronti del lettone, perché c’era lui
accanto ad Ed, adesso.
Qualcosa gli frusciò accanto. Alzò piano lo sguardo per accorgersi
dell’enorme vichingo che lo sovrastava, le trecce color carota che gli
arrivavano alle spalle. Inquietante.
« T’ no’ d’vevi far’ ‘l pirata? » chiese, sistemandosi meglio il
cappello.
« Non ho molta voglia di travestirmi da idiota, oggi… »
« Fa f’nta ch’ sia d’mani. » la sua poco nota verve svedese ebbe un
certo successo, perché Tino si mise addirittura la benda nero per coprirsi un
occhio, oltre alla bandana. Un minuscolo, inaspettato successo. Il finnico,
dallo specchio, riuscì ad intravedere un debole sorriso.
*
* *
Halloween non era mai stato così sfavillante. Mentre Luk alzava in segno
di brindisi il suo bel bicchiere colmo di punch, il suo sguardo abbracciava
l’intera sala. Enormi tavolate ripieni di qualsiasi tipo di dolciumi esistenti
nei quattro angoli, tutti in tema rigorosamente mostruoso. Spostando lo
sguardo, poteva vedere una sorta di teschio di ghiaccio dal quale sgorgava
punch rosso carico, che a sua volta si riversava in capienti recipienti di
vetro colorato, a forma d’alambicchi. A volte sul cranio trasparente si
infrangevano fasce di luce lanciate dai lampadari, riflessi talora da alcune
palle di luce psichedeliche.
« Alla mia salute! » brindò, prendendo un lungo sorso della bibita, a
quanto pare analcolica. Meglio di niente, comunque. Doveva distrarsi dalla
sfavillante Sesel e dai muffin glassati ad arte a pochi metri da lei. E,
soprattutto, a quello che teneva in grembo. L’aveva morso giusto una volta, un
pochino. E ogni tanto lo sbocconcellava, trastullandosi nella convinzione che,
mangiandolo così, non sarebbe ingrassata. Ma la sua consistenza soffice e
cioccolatosa, contrastante con i croccanti ragnetti di zucchero sulla sua
sommità ricoperta di glassa candida, era semplicemente irresistibile. E poi il giorno dopo avrebbe cominciato la dieta,
sicuro. Qualcosa di peloso, saltellante
ed australiano le sfiorò la manica lanosa.
« … Jett? »
*
* *
Sesel era già dietro al suo Arthur, vestito in perfetto stile Harry
Potter. Non gli mancava neppure la sciarpa, ovviamente da Grifondoro. Appena
arrivata, la brunetta aveva attirato a sé i più entusiastici complimenti,
soprattutto da parte di Mei, in un sinuoso abito rosa che le aveva aggiudicato
le simpatie di Feliks, il quale non aveva fatto altro che saltellarle intorno
per tutto il tempo. Era un adorabile paggetto medievale, con le maniche bianche
e cascanti e tutto il resto, calzamaglia compresa. Toris, che cercava di
tenerlo calmo, la curva del sorriso perennemente tremolante, aveva optato per
l’avvincente accoppiata jeans & maglietta, con un’enorme stampa del drago
di Varsavia. Inutile spiegare che fosse stata indossata sotto pressione del
polacco.
Il vichingo cercava di parlare con il pirata in una continua risacca,
allontanandosi e poi avvicinandosi di nuovo. E il finnico non faceva alzo che
alzare la testa per rispondere con sufficienza allo svedese e per cercare il
vecchio amico. Come se non lo avesse già
visto, in un angolo troppo lontano a parlare con Raivis. Ma lo cercava
nuovamente, sperando di cambiare la realtà. Sperando che si avvicinasse o che
muovesse il braccio ed alzasse la voce per chiamarlo, per farlo avvicinare.
Niente di niente. Solo un gigante che scandiva le parole a fatica, che non
faceva altro che stargli appiccicato, che non perdeva la speranza.
Ed in effetti, se ci pensava, neppure l’estone aveva perso la speranza e
gli era stato vicino, sognando che prima o poi il finlandese avesse capito.
Sognando, appunto. E scontrandosi con la realtà quel giorno in cui tutto si era
spezzato, quel giorno in cui aveva capito che un anno passato a sognare, a
provarci, non erano valsi a niente. Doveva agire,
evitandosi tutte le sofferenze. Sofferenze che l’avevano colpito come un
fulmine a ciel sereno, che avevano colpito entrambi. Solo perché non si era
deciso, aspettando che l’altro capisse. A pensarci, questo andirivieni dello
svedese era piuttosto coraggioso. Almeno ci stava provando, lui.
Silenziosamente, però stava sempre facendo qualcosa di concreto, nonostante
sembrasse uno di quei bambini che, finiti i biscotti, tornassero comunque a
frugare nella credenza, sperando che nuovi biscotti apparissero magicamente,
pronti per essere mangiati.
« Berwald? » lo chiamò, non appena si fu avvicinato. Non l’aveva mai
chiamato con quel tono quasi entusiasta,
che per lo svedese era tutto nuovo. E piacevolissimo. « Lo vuoi
un muffin? » chiese, poi.
Luk dev’essersi impossessata della sua mente. Non ci
cascherò.
Però nel frattempo cascarci e
seguirlo come un cagnolino si era mostrata una tattica vincente, poiché il
finlandese gli aveva offerto un muffin – uno di quelli che Luk stava bramando
dall’altro lato della sala, per intenderci – e si era messo a parlare. Con lui.
E cominciava a sfogarsi. Si sedettero su un paio di sedie nere, con dei fitti
disegni di ragnatele. E parlarono di Ed, del fatto che gli mancasse ma che le
cose non sarebbero mai più tornate come prima, del fatto che lui, invece, fosse
più coraggioso, del fatto che forse Luk non aveva tutti i torti, di come
fossero stupide quelle treccine rosse. O meglio, Tino parlò. E Berwald ascoltò con attenzione, il solito sguardo
gelido di sempre mentre l’altro metteva la sua anima a nudo. Così,
all’improvviso.
« E mangia quel muffin! » lo esortò poi,
dato che la glassa stava iniziando a sciogliersi, nella sua presa d’acciaio.
Beh, doveva pure aver sfogato la tensione del momento in qualche modo, no? In
fondo la persona che più gli piaceva, che più aveva cercato, gli aveva appena
fatto un enorme discorso su un po’ tutto.
Tanto lo so che è Luk e che domani mi sveglierò con Tino
col broncio.
Tanto valeva godersi l’illusione, però. Era così dolce. E anche il
muffin non era da meno.
*
* *
Un po’ meno dolce era la situazione che stava vivendo Sesel, con un
americano che distruggeva pian piano i suoi sogni di gloria, cercando di
appioppare ad Arthur un cappello cornuto. E il britannico, da bravo padrone di
casa, tentava di scappare e spaventarlo con qualche imprecazione, ottenendo
solo grasse risate da Capitan America. Eh già, lo statunitense si era infilato
in un’assurda tutina attillata, ma ne stava valendo la pena.
La bruna cominciò a stropicciarsi l’abito azzurro, in preda al nervosismo.
Arthur non l’aveva degnata di uno sguardo, tanto era occupato a fuggire
dall’altro. Era disorientata, imbarazzata, intimidita, ma riuscì a raggiungere
prontamente l’americano e ad afferrargli un lembo del costume aderente con le
mani, tirandolo a sé.
« Alfred. » quello si girò con un sorriso beone dalla sua parte,
sbalordito di trovarsi una Sesel tanto carina in quel vestito lucido. Diede uno
sguardo al trafelato potteriano davanti a lui. Sorrise, fece una sorta di
saluto militare e corse via, dicendo di dover andare a salvare il proprio
paese. L’inglese si girò verso il punto in cui si era fermato il suo
inseguitore, vedendolo trotterellare via verso il tavolo del punch, Sesel che
lo seguiva con lo sguardo, attenta affinché non tornasse. E non serviva essere
dei geni per capire, dai suoi pugni chiusi, che per la serata fino a quel punto
non era stata delle più rilassanti.
« Ehi, Sel? » Sel. Non conosceva neppure il perché di quel soprannome,
sfuggitogli così dalla bocca, però gli piaceva come suonava. Era dolce come una
fata e guizzante come un tonno, sempre che una parola potesse guizzare.
Comunque, era perfetto.
« Sì? » domandò lei, dimenticandosi all’improvviso di tutta la
bilirubina portata al fegato nei minuti prima. Quello si avvicinò, le mani in
tasca. Come un motociclista figo che sapeva quel che faceva, gli mancavano solo
gli occhiali da sole, sostituiti da un paio dalla montatura tonda alla Potter. E sarebbe stato davvero un buon
motociclista impassibile se il cuore non gli stesse battendo all’impazzata. La
figura della brunetta stretta nel sinuoso vestitino azzurro le ispirava
parecchi pensieri dei quali si stupida lui stesso. Sentiva risuonare la voce di
Alfred nella sua testa, che chiedeva di che colore fossero le sue mutandine.
« Le sue mutandine, le sue
mutandine! »
Avvampò, apprestandosi a dare la colpa
alla sciarpa e sputando, intanto, qualche imprecazione. Fece un gran respiro e
le chiese se volesse concedergli un ballo, visto che l’aveva salvato
dall’uragano Alfred. Argomentazione piuttosto misera, ma convincente. Non
aspettarono neppure che cominciasse la musica.
*
* *
« … E quindi questo è il mio impero! » finì Luk, annuendo con enfasi. Se
avesse avuto i suoi occhiali da neve sarebbe stata tutta un’altra cosa, ma
doveva accontentarsi. E poi aveva già diviso il suo muffin in quattro, cosa che
la faceva sperare sempre più intensamente in un ventre completamente piatto.
« Pf, è una figata! » fece Jett, ingollando la sua parte di muffin. «
Quindi fai, chessò, il meetic
vivente? » Le sue storie su amici, inciuci e palle di luce erano piuttosto
interessanti. Anche se le leggende che propinava, da vecchietta nostalgica, non
centravano molto con gli altri fatti. Si appoggiò al tavolo, facendo rotolare
per terra un dolcetto a forma di zucca. La sedia accanto a quella della
ragazza, infatti, era stata occupata da Matthew, quel canadese che non vedeva
da oh mio Dio un sacco di tempo.
Canadese che non aveva preso nessuna parte del muffin, lasciandole a Capitan
America che si era trattenuto un po’ con loro e quel neozealandese amico di
Jett.
« Già, e modestamente funziono abbastanza bene… » disse lei, dando un
rapido sguardo al suo impero. Jett
sorseggiò rumorosamente dal suo bicchiere di punch, indicando una coppia più
lontana.
« Cacchio sì che funzioni! » esclamò l’aussie, muovendo il guantone da
box rosso fuoco che gli avvolgeva il pugno. « Guarda un po’ come pomiciano! »
A Luk cadde il muffin.
*Le resuscita*
Ohilà, carissimi lettori, carissime
lettrici e stimatissime recensitrici, Kaida è tornata! E non ci ha messo
neppure poco, eh… ma tra vacanze – che adesso bramo ferocemente, tra compiti in
classe che sembrano non finire mai e prof. convinte che dieci righi di
traduzione siano pochi –, compiti delle vacanze (che quasi nessuno s’è preso la
briga di correggere, ARGH), approvvigionamenti di cancelleria manco fossimo in
guerra (o forse sì), depressissimo inizio della scuola e video dementi per i
compleanni di alcune mie amiche, beh, non riuscivo a trovare un momento nel
qualche ficcare il mio amato spazio della-scrittrice-in-crisi. Poi,
un’illuminazione – a voi giudicare se sia stata una buona cosa o no – ed il
consecutivo ritiro spirituale all’interno del rilassante mondo di Word. Davvero
poco rilassante se si considerano le numerose pause pre e post crisi da
scrittrice in erba (in tutti i sensi, LOL, basta leggere un po’ quello che la
mia mente malata partorisce), ma comunque migliore delle ore passate col capo
chino sul greco, immersa tra le millemila pippe mentali della serie “Se solo
stessi frequentando il linguistico” o “Se solo fossi greca” o “Se solo i greci
avessero parlato usando gli ultrasuoni, i veli colorati e le scorregge di
pony”. Ma, in un modo o nell’altro, ho scritto. E, con un biscotto sulla
memoria ed un saporaccio di dentifricio in bocca, posto ciò. Non spennatemi. Anzi, sì. Mi sento matura, oggi. B’I
Cicca cicca bum bum,
Kaida_ _ _
P.S.: Si vede che il titolo non è uno dei miei soliti, eh? X°°