EPILOGO
They’ll
Never Know..
Eden mosse le ciglia, ancora
totalmente immersa in quel caldo, tranquillo dormiveglia. Era il suo momento
preferito in tutta la giornata, quegli attimi di silenzio in cui il suo corpo
sembrava aver trovato la più comoda delle posizioni e la sua mente riusciva a
vagare in ogni più remoto angolo dello spazio-tempo. Poteva sentire i rumori del traffico di New
York ed il sole che le scaldava la fronte. Riusciva ad immaginarsi esattamente
dove avrebbe voluto essere.. E poteva percepirlo perfino sulla pelle.
Corrugò la fronte colpita da
un raggio di sole reale, riuscito a penetrare tra le tapparelle appena
sollevate. Controvoglia sollevò le palpebre una prima volta, riuscendo a
malapena a mettere a fuoco. Allungò ogni muscolo stirandosi tra le lenzuola di
cotone bianco poi mosse il braccio verso il lato vuoto del letto, sforzandosi
ancora una volta di aprire gli occhi. La sveglia segnava le 8e35, tempo di
alzarsi e vivere un’altra giornata di realtà.
Venne fuori lentamente ed
infilò la vestaglia color cipria prima di passare la soglia del bagno. Uno
scroscio d’acqua fresca a poté finalmente cogliere un’immagine nitida di sé
nello specchio. Le sue guance avevano un bel colorito roseo ed i cerchi intorno
agli occhi si intuivano appena, segno che aveva passato un’altra nottata
serena. Sospirò passando la crema idratante sul viso e la spazzola tra i
capelli, adesso che era totalmente sveglia riusciva a percepire perfettamente i
crampi allo stomaco. Se ne era quasi dimenticata.
Tornò in camera ancora una
volta e decise di tentare la fortuna aprendo la finestra. Il sole di poco prima
era ancora lì, timido tra le perenni nuvole grigie di Chicago, eppure caldo ed
invitante. Sorrise ringraziando la città per quel dono che oggi sentiva essere
solo per lei.
Seguendo la scia di zucchero
e caffè arrivò in cucina e lì, poggiata allo stipite della porta, si concesse
il secondo sorriso della giornata.
Sophia sollevò lo sguardo
incontrando il suo, gli occhi le si spalancarono di gioia mentre correva ad abbracciarla.
“Mamma, mamma! E’ lunedì!”
Esclamò saltellando insieme
ai suoi boccoli scuri. Era già cresciuta parecchio, ma il suo viso non era
cambiato di una virgola, tantomeno il suo sorriso.
Eden si abbassò per
poggiarle un bacio sulla fronte
“Buongiorno amore mio.”
Sophia rise ancora, senza
fermare il suo moto continuo
“E’ lunedì!”
Ribadì ed Eden sospirò di
sollievo
“E’ vero tesoro, è lunedì!”
Risollevando la schiena
concesse finalmente attenzione all’altra persona nella stanza.
Dair era in piedi vicino ai
fornelli, un grembiule a quadri proteggeva la sua camicia azzurra mentre la
padella di fronte sfrigolava ancora. Si mosse per raggiungerlo e lo baciò sulla
guancia inalando un piacevolissimo odore di pancake.
“Buongiorno.”
Lui sorrise in risposta
“Buongiorno a te.”
Eden inspirò ancora e per la
prima volta passò gli occhi sul tavolo.
“Pancake al cioccolato,
torta di mele, croissant e…” Si sporse riempiendosi il naso con i fumi della
tazza “… caffellatte alla cannella.”
Guardò Dair sollevando un sopracciglio “Sarà mica natale?”
Lui tolse al volo il grembiule
e si allungò al di là di lei rubando una rosa dal vaso sul davanzale. Gliela
porse
“E’ comunque un giorno da
festeggiare.”
Eden prese il fiore tra le
mani e lo annusò sorridendo di nuovo. E’ vero, quello era un gran giorno per
lei.
Trentuno mesi erano passati.
Due anni, sei mesi e
diciotto giorni per la precisione.
Chiuse gli occhi per un
istante, non avrebbe mai pensato sarebbero passati tanto in fretta.
Dopo l’esito fallimentare
della sua missione aveva dovuto fare i conti con i vertici dell’FBI. Non solo
il piano era fallito per colpa sua, ma l’innumerevole quantità di regole
infrante avrebbe potuto costarle ben più degli arresti domiciliari.
Aveva temuto di finire in
galera e perdere comunque sua figlia, ma con l’aiuto di Dair ed uno sforzo in
più da parte del giudice era riuscita a patteggiare per la custodia
domiciliare. Daniel aveva garantito per lei, accogliendola nel proprio
appartamento insieme alla bambina. E lì aveva passato gli ultimi 929 giorni in
attesa di questo lunedì.
“Grazie.”
Disse piano tornando alla
realtà e lasciandosi scivolare nella sedia.
Sophia ridacchiava
parlottando col personaggio nel suo piatto. Come ogni mattina Dair aveva perso
cinque minuti buoni a disegnare occhi, bocca e capelli al suo pancake.
Eden sospirò di colpo persa
nella malinconia riflessa sul suo caffè.
Dair le raggiunse al tavolo
“Allora, è il tuo primo
giorno di libertà… Hai già deciso cosa fare?”
Lei guardò ancora più a
fondo, sperando che la tazza le desse un’idea. Non aveva davvero pensato a come
avrebbe vissuto la sua nuova vita da donna libera, finalmente lontana dai
casini della malavita newyorkese e dalle pretese dell’FBI.
Sospirò. Non pensava quel
giorno sarebbe arrivato tanto in fretta.
“Tu non vieni con noi?”
Rispose annullando
furbamente la precedente domanda di Dair.
“No, purtroppo ho una lunga
riunione oggi.. E poi c’è l’indagine Menphis da sistemare.. Dovrete fare a meno
di me.”
Eden allungò il broncio per
una manciata di secondi, la presenza di Dair avrebbe reso tutto più facile.
“Andiamo al parco mamma!
Andiamo a giocare al parco!”
Rivolti gli occhi a sua
figlia quell’attimo di malumore sparì. Sophia era un incanto con addosso quel
leggero abito a pois, il rosso donava alla sua carnagione e le piccole maniche
a sbuffo le davano un’adorabile aria alla Shirley Temple. Ben presto sarebbe
ricominciata la scuola e lei avrebbe dovuto imparare a fare a meno di lei,
venendo a patti con le sue prossime mattinate solitarie e pensierose.
Decise che l’avrebbe
accontentata in tutto quel giorno.
“Certo tesoro. Andremo al
parco e in qualsiasi altro posto tu voglia andare! Ma prima facciamo un salto
in libreria.”
Sophia corse ad abbracciarla
ed Eden si perse nel profumo fruttato dei suoi capelli.
Aveva mantenuto la promessa
a sua figlia ed era fiera di averlo fatto.
“Ancora? Quel libro deve
piacerti davvero da morire, ne hai già ordinate mille copie!”
Dair indicò la pila di libri
poggiata sul tavolo del soggiorno. Ognuno di essi portava sulla copertina la
stessa scritta.
“Round Trip” by
Matt Mylers.
Eden sorrise una volta
ancora al suono di quel nome fittizio.
“Voglio comprarne una copia
di persona.”
Dair sollevò le spalle
“Tutto quello che vuoi!”
Scolando il suo caffè si
alzò in piedi dopo aver buttato l’occhio all’orologio.
“…Allora vi auguro buon
divertimento signore. Ci vediamo stasera
per cena.”
Eden annuì con un sorriso e
lo guardò mentre infilava la giacca, sistemava la cravatta e lasciava un bacio
sulla fronte della bambina prima di uscire dalla porta.
Daniel Dair era stato la sua
salvezza, la sua ancora, il suo punto fermo. Chissà dove sarebbe finita senza
il suo appoggio e le sue spalle su cui piangere.
Già, perché non avrebbe mai
potuto quantificare il monte di lacrime che aveva versato. Notti intere passate
a piangere prima di realizzare che cosa aveva fatto davvero, a cosa aveva
rinunciato, cosa avrebbe dovuto affrontare.
Poi, un poco alla volta, il
bisogno di piangere era sparito ed al suo posto era emersa l’ansia dell’attesa.
I suoi giorni chiusa in un appartamento, dapprima tristi e ripetitivi, si erano
riempiti di cose da fare e ben presto si era scoperta capace di cose che non
avrebbe mai pensato.
Eden Spencer era in grado di
cucinare. Non più solo uova e pasta al sugo, ma anche soufflé e perfino
un’ottima boeuf bourguignon. La sua prossima prova sarebbe stata costruire un
alto e perfettamente simmetrico croquembouche.
Si strascinò in camera
pensando a cosa avrebbe indossato quel giorno, era forse ingiusto nei suoi
proprio confronti, ma continuava a cercare il pezzo più neutro del suo
guardaroba, così sarebbe passata inosservata.
Alla fine scelse quell’abito
morbido che non aveva mai indossato, il suo intenso verde bottiglia era
abbastanza vivace eppure abbastanza sobrio da rispecchiare perfettamente il suo
stato d’animo odierno. Infilò ai piedi le zeppe Jimmy Choo e si sedette al
vanity.
Guardandosi più attentamente
decise che avrebbe almeno sfoggiato il miglior make up, leggero, ma abbastanza
luminoso da attirare tutta la luce di quell’insolita giornata a Chicago. La
matita scura ed il mascara YSL le allargarono lo sguardo, cercando un
equilibrio col blush rosa ed il tocco di lucido sulle labbra. Ravvivò i capelli
color caramello scuro e sospirò un’ultima volta contro il proprio riflesso.
L’aria che l’accolse fuori
dal portone del palazzo si scoprì più calda di quanto si aspettasse. Infilò gli
occhiali da sole respingendo una luce fin troppo brillante e prese la mano di
Sophia. Pochi isolati ed avrebbe varcato i confini del parco da donna libera,
da madre orgogliosa e nulla più.
Sfilando tra la folla
indifferente del lunedì mattina capì per la prima volta che tutto era davvero
finito. La vita da ladra, da ribelle, da moglie di… Scacciò il pensiero… Il
passato era ormai alle sue spalle e solo il futuro l’attendeva davanti. La vita
che aveva sempre desiderato stava iniziando in quel preciso istante.
Lo squillo del cellulare la
riportò alla realtà. Si fermò sui suoi passi assicurando la bambina accanto a
lei, poi sbuffò un attimo prima di rispondere.
“Mamma?”
La voce all’altro lato
sembrava sorridere, seppur mantenesse una perfetta aplomb.
“Eden cara, è oggi che
finisce la tua condanna vero? Stavo andando da Jules per la manicure ed ho
realizzato che fosse lunedì.”
Lei sospirò scuotendo appena
la testa
“Sì mamma, è oggi.”
“Oh cara, sono così contenta
per te! E dimmi, come sta la mia adorabile nipote?”
“Benissimo. Stavamo andando
al parco giusto adesso.”
“Dalle un bacio da parte mia
e Eden…”
Poteva immaginare la sua
espressione anche a chilometri di distanza
“…Ho appena fatto emettere
una carta platino a tuo nome, puoi ritirarla in banca dal Signor Baker quando
vuoi.”
“Non era necessario mamma.”
“Oh sì invece. Il fatto che
non sia lì non vuol dire che mi esimerò dal far avere a mia nipote tutto ciò che
desidera.”
“Grazie mamma. Dobbiamo
andare adesso.”
“Bene.. Eden?”
“Sì?”
“Richiamami stavolta.”
“Certo mamma.”
Eden chiuse la comunicazione
ed inspirò a pieni polmoni. Sua madre, sua madre era tornata nella sua vita e
contrariamente a quanto pensasse, non la odiava affatto.
Con l’inizio del processo
vero e proprio anche la sua famiglia – sua madre – era stata convocata e lei
non aveva potuto far nulla per impedirlo. Nonostante lo sguardo avvilito e miserabile
con cui l’aveva raggiunta nella stanza degli interrogatori, la conversazione
seguente non era stata terribile. La Signora Spencer aveva un’idea perfetta di
cosa significasse perdere la testa per il cattivo ragazzo e sposare un uomo che
non sarebbe mai stato il perfetto stereotipo di padre di famiglia.
Aveva temuto per anni di non
rivederla viva, pertanto era riuscita suo malgrado ad elaborare lo shock del
matrimonio e delle rapine in banca.
Sophia poi aveva fatto il resto. Pochi sguardi rivolti alla bambina e
sua madre aveva ritrovato una ragione per vivere, una nuova piccola donna in
famiglia da istruire, viziare e spingere ai massimi livelli dello stile e della
grazia. La nuova speranza di poter un giorno vedere le sue aspettative
soddisfatte dalla nipote aveva sancito la rinascita del loro rapporto.
E dopo tutto, non era
affatto male.
Il parco si aprì davanti ai
loro occhi e Sophia lasciò la mano della madre per correre dritta verso
l’altalena. Eden rimase a guardarla mentre con la coda dell’occhio cercava una
panchina libera su cui sedersi. Da tanto tempo lo desiderava, sedersi su una
panchina e sfogliare una rivista di moda, lanciando di tanto in tanto uno
sguardo alla bambina, esattamente come fa ogni altra madre al mondo.
Inspirò l’odore dell’erba
tagliata di fresco e scelse una seduta di spalle al sole, abbastanza lontano
dalle altre donne, mamme, tate o babysitter. Era troppo presto per confrontarsi
col resto del mondo.
Vide Sophia che la salutava
correndo con gli altri bambini.
Sorrise di cuore, sua figlia
avrebbe avuto una vita normale, il più possibile vicina alla perfezione.
Un brivido di tristezza le
percorse la schiena al pensiero di quello che era successo qualche mese prima;
al pomeriggio in cui Sophia era tornata da scuola col viso imbronciato e le
braccia incrociate al petto. Dopo vari tentativi di carpire qualche notizia la
piccola aveva confessato di essere arrabbiata. Tutti i bambini avrebbero dovuto
portare una foto della loro mamma e del loro papà da mettere nella cornice di
cartone e pasta che avevano costruito qualche giorno prima con l’insegnante.
“Posso prendere la foto di Daniel?”
Le
aveva chiesto timidamente, facendole sanguinare il cuore. Eden si era
inginocchiata per accarezzare il viso della sua bambina
“Ma
lui non è il tuo papà, lo sai vero?”
Sophia
aveva allungato di nuovo il broncio, stavolta accompagnato da grossi lacrimoni
agli angoli degli occhi. Eden era entrata in allarme e l’aveva stretta a sé.
Quel giorno doveva arrivare, prima o poi.
Quella
domanda.. Quella terribile domanda sarebbe arrivata prima o poi.
“Dov’è
il mio papà?”
Eden
aveva quasi perso l’equilibrio sentendola dal vivo. Aveva stretto ancor più la
presa per qualche istante, profondamente indecisa su cosa rispondere.
“E’
lontano, ma ti vuole bene.”
Si
era morsa il labbro.. Che stupida risposta da film di bassa lega.
Inspirò
“Tuo
padre è dovuto partire, quando tu eri ancora molto molto piccola…”
Accompagnò
le parole stringendo il pollice e l’indice fin quasi a farli toccare, cercando
di distrarre l’attenzione della bambina dalla tensione del suo viso
“Come
pollicina?”
Eden
sorrise
“Esatto,
forse anche più piccola…”
Respirò
ancora
“…E’
dovuto andare lontano, così lontano che ora non riesce più a tornare.”
Sophia
aggrottò le sopracciglia
“Il
mio papà si è perso?”
“Qualcosa
del genere… Ma ti vuole tanto bene e pensa a te ogni giorno.. Questo io lo so
per certo.”
Sophia
sembrò convincersi di quell’assurda spiegazione e sollevò un sopracciglio
dondolando le spalle, quasi si vergognasse di ciò che stava per chiedere.
“Ce
l’hai una foto del mio papà?”
Ecco.
Questo non era previsto.
Si
leccò le labbra guardando l’orologio, Dair non sarebbe tornato prima di un paio
d’ore e probabilmente era tempo che quella conversazione venisse affrontata.
Annuì
tornando in piedi ed allungando la mano
“Vieni
con me tesoro.”
Nella
sua stanza, nel suo armadio, da dietro una pila di maglioni e sciarpe smessi
Eden tirò fuori una scatola, una piccola scatola blu chiusa da un nastro
bianco.
La
aprì di fretta mettendo da parte quelle poche foto di Davis e gli altri. Non
voleva che Sophia scoprisse di aver già conosciuto suo padre senza saperlo..
Per raccontarle quella parte della storia avrebbe aspettato il momento giusto,
la certezza che sua figlia avesse dimenticato i giorni passati fuggendo da una
città all’altra, lontana da lei o accanto a persone che forse non avrebbe mai
rivisto.
Si
sedette sul letto e la aprì di nuovo con delicatezza, era tutto ciò che ancora
conservava del suo passato. Almeno in termini materiali.
“Guarda…”
Esordì
tirando fuori una piccola custodia color oro. La aprì e tirò su un rossetto
mezzo consumato. Il suo colore rosa intenso era lo stesso anche dopo più di
dieci anni.
“…questo
rossetto me l’ha regalato tuo padre.”
Ovviamente
non poteva dirle che l’avevano rubato insieme, ma di certo era stato un regalo.
La prima volta che aveva rubato qualcosa, la prima volta che Davis le era stato
vicino, la prima volta che si era sentita viva in quel modo.
Sophia
spalancò gli occhi allungando la manina
“Lo
posso prendere?”
Eden
sospirò ed accennò un sorriso poggiandolo su quel piccolo palmo. La bimba lo
prese e guardandolo come fosse fatto di cioccolato, se lo portò alle labbra. Un
paio di secondi appena ed era tutto spalmato sulla sua bocca, sul mento e
perfino sulla punta del naso.
Sophia
aprì un enorme sorriso ed Eden non se la sentì di protestare.
Infilò
di nuovo la mano nella scatola e tirò fuori un fiore secco, divenuto ormai di
un languido color marroncino.
“Questo
è uno dei fiori del mio bouquet, i fiori che avevo nel giorno in cui io e tuo
padre ci siamo sposati. E’ stato un giorno bellissimo.”
Sua
figlia sorrise di nuovo, totalmente estasiata all’idea di conoscere qualcosa in
più della sua breve vita.
Infine
afferrò l’ultimo segreto nascosto nella scatola. Una piccola custodia di
velluto. La aprì lentamente trattenendo il fiato, non osava guardarlo ormai da
tempo.
Il
grosso diamante luccicò al centro della stanza, incastonato in una lucida
fascetta d’oro bianco. Eden non trattenne un brivido di nostalgia e tristezza.
“Ecco…”
Porse
la scatolina alla visione di Sophia
“…Questo
è l’anello che mi ha dato tuo padre quando mi ha chiesto di sposarlo.”
La
piccola spalancò la bocca ed allungò la mano
“Posso
mamma?”
Stavolta
Eden dovette restar ferma e decisa
“Non
ora tesoro mio, ma un giorno sarà tuo.”
“Quando
mamma? Quando?”
Inspirò
“Il
giorno in cui ti innamorerai di un ragazzo perbene, un ragazzo fatto apposta
per te e che ti amerà allo stesso modo.. Il giorno in cui deciderai di passare
tutta la vita con lui.”
Sophia
scosse la testa
“Io
voglio stare sempre con te mamma.”
Eden
sorrise chiudendo la scatola, poi strinse la bambina in un nuovo abbraccio
“Io
ci sarò sempre per te. Tutta la vita.”
Sophia
guardò di nuovo il rossetto pensando che lo avrebbe custodito come un tesoro
“Come
si chiama il mio papà?”
Eden
rimase spiazzata per un secondo.. Mentire o non mentire? Forse sua figlia non
ricordava già più i particolari.. Forse le aveva già mentito abbastanza.
“Davis.”
Rispose
a mezza bocca, sperando che la sua breve memoria di bambina mollasse il passo.
“E
com’è mamma?”
Eden
sospirò di sollievo, sorridendo nel nulla mentre accarezzava quell’immagine
“Bellissimo…
Ha i capelli castani, gli occhi scuri ed il tuo stesso identico sorriso.”
A
quelle parole Sophia corse allo specchio del vanity. Provò a sorridere, una,
due, dieci volte. Sua madre rimase a guardarla in silenzio, lacerata dal
rimpianto e dalla piacevole consapevolezza che sua figlia aveva il meglio di
loro due.. Addosso e non solo.
“Tuo
padre è coraggioso, è forte, non ha paura di niente.”
Sophia
si voltò a guardarla
“E’
come un principe azzurro?”
Stavolta
sorrise
“Sì,
un principe azzurro.”
Tornata alla realtà vide
Sophia ricomparire di corsa di fronte a lei
“Mamma mamma, c’è Amber!”
Amber. La sua piccola
compagna con i capelli biondi e le lentiggini sul naso.
“Questa è la mia mamma!”
Esclamò Sophia facendosi
tutta fiera in un istante. Eden sorrise di cuore
“Ciao Amber!”
L’altra bimba sollevò la
mano in risposta mentre da lontano una donna con i capelli dello stesso colore
avanzava verso di loro.
“Buongiorno…”
Si presentò
“…Sono Angelica Brown, la
madre di Amber.”
Eden si alzò dalla panchina
allungando la mano
“Salve, Eden Spencer.”
Si scambiarono una stretta
decisa, poi la signora Brown indicò il piccolo locale al di là della strada.
“Le bambine vorrebbero un
gelato. Le dispiace se le accompagno a prenderlo? Anzi, viene con noi?”
Eden ci pensò su un secondo,
non era pronta ad una chiacchierata tra mamme. Cosa le avrebbe raccontato sul
perché non si era mai vista a scuola? Cosa le avrebbe raccontato della sua vita
da casalinga ai domiciliari?
“Mamma andiamo?”
Eden sorrise a sua figlia
“Va’ pure con Amber tesoro.
Io devo fare un paio di telefonate poi vi raggiungo.”
Si rivolse poi ad Angelica
“Ne approfitto per fare un
paio di telefonate, ma andate pure.”
“Se vuole la aspettiamo.”
“Non importa, non ci metterò
molto comunque.”
“Ok, allora andiamo
bambine!”
Eden sorrise di nuovo
“La ringrazio.”
L’altra prese per mano le
due bimbe e si incamminò sugli alti tacchi che calzava alla perfezione.
Eden sospirò guardandoli
entrare nella gelateria. Non sarebbe stato tutto così semplice come sperava.
Abbandonò la testa
all’indietro sulla panchina e chiuse gli occhi per un istante, il tempo giusto
perché il vento leggero portasse quel profumo fino alle sue narici.
Se ne riempì i polmoni senza
il coraggio di aprire gli occhi. Forse si era addormentata e stava già
sognando.
Respirò ancora mentre la sua
ombra proiettata in avanti si infrangeva con quella di qualcun altro.
Rimase a fissare
quell’intreccio di semioscurità.
Il cuore a mille dentro il
petto.
“Come puoi essere qui?”
Chiese Eden a mezza voce..
Doveva essere un’allucinazione.
Chiuse di nuovo gli occhi
tendendo e rilassando i muscoli allo stesso tempo.
Sospirò senza avere però il
coraggio di voltarsi.
Ogni giorno di quei 929 si
era chiesta se l’avrebbe mai rivisto.
Ripensò all’annullamento che
lui non aveva firmato. Al divorzio che lei non aveva mai chiesto.
Era ancora suo marito.
“Non me ne sono mai andato.”
Rispose lui muovendo un
passo più vicino sull’erba.
Eden poteva quasi sentire i
suoi capelli sfiorargli il corpo, lo sentiva dietro di lei ed avrebbe voluto
tanto voltarsi, ma non ne aveva il coraggio.
Dopo quel che aveva fatto,
dopo le decisioni che aveva preso, Davis avrebbe avuto tutto il diritto di
odiarla, ma lei non avrebbe sopportato di voltarsi e trovare nei suoi occhi
null’altro che odio.
“Come puoi essere qui?”
Ripeté quasi in un sussurro,
domandandolo più a sé stessa che a lui.
Davis si mosse ancora,
aggirando la panchina e finendo finalmente davanti ai suoi occhi.
“Meno ti nascondi e più sei
difficile da trovare… Non resterò a lungo comunque.”
Eden reagì istintivamente a
quell’ultima frase e finalmente si concesse di guardarlo.
Abiti borghesi, un anonimo
paio di jeans, occhiali da sole e barba incolta, almeno di una settimana o due.
Fece fatica a respirare.
Mille cose avrebbe voluto dire, ma nulla venne fuori. Come sempre quello col
sangue freddo era lui.
Davis prese posto accanto a
lei. Eden trattenne a malapena la voglia di toccarlo per capire se fosse vero.
Forse stava ancora dormendo, forse quella giornata non era mai iniziata.
“Sei bella.”
Le disse con una naturalezza
disarmante che la costrinse ad arrossire. Guardarlo le veniva così difficile.
“Grazie…”
Rispose lei riprendendo
fiato
“…Stai bene?”
Davis si passò la lingua
sulle labbra mentre tirava fuori una sigaretta.
La accese inspirando
lentamente.
“Sto bene.”
Non aggiunse altro, quasi
non volesse correre il rischio di dire qualcosa di troppo.
Le rivolse gli occhi, lo
sguardo nascosto dietro le lenti scure
“E tu? Sei felice?”
Eden scattò con la testa di
fronte, non sapeva cosa rispondere e non voleva che lui le leggesse il viso. In
fondo non poteva dire di star male, il suo mondo era quasi perfetto, quasi… Non
avrebbe nemmeno potuto dirgli che era felice.
“Faccio quello che posso.”
Rispose infine il più vaga
possibile.
Davis emise una specie
mugugno, un suono incerto con cui forse annuiva alla sua inutile risposta.
“Guardami.”
Le ordinò. Lei tremò contro
il legno della panchina.
“Guardami per favore.”
Lentamente gli rivolse lo
sguardo, incerta ed impaurita come una ragazzina. Si era tolto gli occhiali ed
ora i suoi occhi allungati e scuri la scrutavano senza protezioni.
Allungò le mani facendola
trasalire, ma nessun contatto avvenne tra pelle e pelle. Davis afferrò con
attenzione gli occhiali da sole e li sfilò dal viso di Eden.
Ora potevano guardarsi
davvero.
Lui ripassò i contorni del
suo volto curato, notando ogni particolare al di là del trucco. Niente
occhiaie, segno che dormiva bene. Guardò più giù, lo smalto rosso alle unghie e
l’assenza di anelli al suo dito sinistro. Rimase incerto tra l’essere sollevato
oppure dispiaciuto.
Eden cercò i suoi occhi per
capire se lui la odiasse. Aveva l’aria più rilassata di quel che aveva
immaginato. Nessun livido o cicatrice recente. Nessun segno di abuso di alcool.
Quasi se ne sentì ferita, forse lui stava bene da solo, forse anche meglio di
lei.
“Vuoi chiedermi qualcosa di
Sophia?”
Domandò Eden, bisognosa di
interrompere quello scambio di sguardi.
Lui sorrise a metà dandole
il colpo di grazia.
Sputò fuori un paio di
cerchi di fumo.
“So tutto di lei.”
Eden sospirò
“Oh…”
Disse tra i denti. Era stata
un’ingenua nel pensare anche solo per un istante che Davis sarebbe rimasto
lontano da sua figlia. Da lei forse sì, ma mai da Sophia.
“Ho parecchi amici da queste
parti.. Non mi sono perso un solo giorno della sua vita… E della tua.”
Eden sollevò di nuovo il
viso, sorpresa, emozionata, lusingata, spaventata, tutto nello stesso momento.
“So che hai fatto pace con
tua madre.”
Eden annuì senza voglia di
affrontare l’argomento. C’erano mille altre cose che avrebbe voluto chiedere e
sapere piuttosto, ma nuovamente non riuscì a proferire una sillaba.
Quell’attimo di pura
illusione le aveva tolto ogni facoltà razionale.
Lui fumò ancora due boccate
senza dire altro, poi lanciò il mozzicone un paio di metri più in là
“Torna qui stasera dopo le
dieci.”
Ordinò continuando a
guardare di fronte
“Ho alcune cose da dirti.”
Eden trasalì cogliendo quel
repentino cambio di tono.. Era stato serio, conciso, non l’aveva nemmeno guardata.
Strinse i pugni guardandolo
alzarsi, la bocca asciutta quasi avesse la lingua paralizzata.
“Davis..”
Riuscì infine a pronunciare
quel nome, senza sapere se e con quali parole sarebbe mai riuscita a continuare
la conversazione.
Lui calzò gli occhiali e le
lanciò un’ultima occhiata
“A stasera.”
Concluse, sparendo a passi
veloci tra gli ospiti di Grant Park, lasciandola completamente fuori dal mondo.
Cercò di calmarsi prendendo
due lunghi respiri, si guardò ancora intorno.
Inutile… Doveva averlo immaginato.
“Mamma!”
Sophia corse verso di lei
col viso ancora impiastricciato di cioccolata.
“Eccoti qua tesoro mio…”
Barcollò appena sulla
panchina tornando alla realtà.
Angelica ed Amber poco più
in là.
“…Gelato al cioccolato eh?”
Sophia aggrottò le sopracciglia
“Come lo sai?”
Eden sorrise prendendo una
salviettina dalla borsa
“Scommetto che ne è finito
più sul tuo vestito che nella tua pancia.”
Allungò la mano per pulire
il viso della bambina.
“Scusami, ho cercato di non
farle sporcare, ma è stata una missione impossibile!”
Angelica sorrise a sua
volta, tenendo Amber per la mano
“Non preoccuparti, ne sono
perfettamente consapevole!”
Il passaggio dal Lei al Tu
era stato completamente naturale.
“Io e Amber dobbiamo andare
adesso, ma spero di rivederti… Le nostre bambine vanno così d’accordo, spero
che varrà lo stesso anche per noi.”
Eden si alzò in piedi
“Lo spero anch’io… E ti
ringrazio ancora.”
“Di nulla. A presto!”
La signora Brown e la sua
copia in miniatura si allontanarono lentamente. Eden si lasciò cadere di nuovo
sulla panchina, stringendo Sophia accanto a sé.
Torna
qui stasera dopo le dieci
Quella frase continuava a
ripetersi nella sua testa.
“Mamma andiamo?”
Incalzò Sophia balzando giù
e iniziando a dondolarsi sul posto.
“Dove vuoi andare tesoro?”
Lei sembrò doverci pensare
mentre Eden rimirava le macchie marroni sul suo vestitino a pois.
“Sai cosa? Dovremmo passare
in banca.. La nonna ha lasciato un regalo per noi.”
Sophia si illuminò
“Un regalo?”
“Esatto. Vuole che oggi ti
compri tutto quello che desideri.”
La bambina prese a
saltellare
“Tutto tutto??”
Eden annuì
“Già… E credo cominceremo
con un bel vestito nuovo.”
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Rientrando a casa col peso
di almeno dieci buste da shopping Eden assaporò con piacere il profumo
familiare di sandalo e vaniglia.
Sophia corse a sedersi sul
divano. Doveva essere stanca. E lo era anche lei.
Poggiò tutto sulla porta e
si tolse le scarpe prima di camminare fino alla cucina.
Un bicchiere d’acqua e tornò
a sentire quella frase nella sua testa
Torna
qui stasera dopo le dieci
Possibile che fosse stato
solo un sogno?
Possibile che lui non fosse
davvero lì?
Chiudendo gli occhi riuscì a
percepire di nuovo il suo profumo e l’odore del fumo di sigaretta.
Ripensò ai suoi capelli
scompigliati, alla sua barba incolta, alla sua t-shirt, alla sua voce.
Torna
qui stasera dopo le dieci
Inspirò mentre lo stomaco
iniziava a brontolare.
Cosa avrebbe detto a Dair?
Come avrebbe potuto uscire di casa dopo cena? Cena.. Si avvicinò al frigo e
notò con sollievo la presenza dell’arrosto che aveva preparato la sera
precedente. Non sarebbe riuscita nemmeno a scaldare un pasto surgelato in
quelle condizioni.
Sophia si era già
addormentata.
Scivolò silenziosamente in
camera e di nuovo tornò a guardarsi nello specchio.
Cosa voleva dirgli Davis?
Che la odiava forse? Che la ringraziava di averlo lasciato libero? Che si
sarebbe vendicato togliendole Sophia e tutto ciò che aveva di più caro?
Scosse la testa.
No. Davis non le avrebbe
fatto questo… Ma come poteva esserne certa? Lei invece era riuscita benissimo a
fargli del male.. A distruggere le sue speranze ed i suoi sogni.. A tenerlo
lontano da sua figlia.. A lasciarlo..
Stavolta forse era il suo
turno.
Il rumore della porta la
fece sobbalzare, Dair fu vicino a lei poco dopo.
“Tutto bene?”
Eden si sforzò di sorridere
“Sono solo stanca.”
Lui poggiò un bacio tra i
suoi capelli
“Troppo shopping?”
Eden abbassò lo sguardo e si
voltò verso di lui
“Cosa avrei fatto senza di
te?”
Dair sospirò
inginocchiandosi fino alla sua altezza
“Io non ho fatto nulla… Ci
sei riuscita da sola… E io sono orgoglioso della donna che sei diventata...”
Eden non rispose
“…Sei libera adesso.”
Non lo era affatto. Nemmeno
un giorno e nuovamente si era persa nel suo passato.
Dair allungò due dita e le
sollevò il mento
“Che c’è?”
Lei scosse la testa
“Niente.”
“Sicura?”
Eden prese la mano di Dair
nella sua
“Ti devo tutto. Non voglio
deluderti.”
Lui sorrise
“Non l’hai fatto.. E non
succederà mai…”
Le accarezzò piano il viso
“…Io ti amo.”
Concluse.
Eden inspirò profondamente
quelle parole. Per tutto il tempo della condanna erano state il suo mantra, la
forza che l’aveva spinta a superare il dolore e l’incertezza. Anche se non lo
meritava, anche se non avrebbe mai potuto ricambiare nello stesso modo,
quell’uomo perfetto era suo.. L’uomo che sua madre aveva sempre desiderato
sposasse.. Un compagno fedele ed un patrigno stupendo.
“Lo so… Me lo ricordi ogni
singolo giorno.”
Dair si sporse e le sfiorò
le labbra con le proprie. Eden ricambiò con la stessa delicatezza.
“Vuoi mangiare?”
Domandò, instillata di nuova
forza. Lui si alzò e si passò la mano sullo stomaco.
“E’ stata una lunga noiosa
giornata.”
Eden sorrise balzando in
piedi
“Andiamo allora.”
Fu solo dopo l’arrosto e lo
sformato di broccoli, solo dopo aver riposto gli ultimi piatti nel lavandino,
che Eden si concesse di guardare l’orologio.
Le nove e trenta.
Ebbe un sussulto
incontrollato e lasciò cadere la spugna.
Doveva andarci. Comunque
doveva andarci.
Sfilò in camera bypassando
il divano ed afferrò la borsa. Uno sguardo veloce al mascara ancora intatto e
rientrò in soggiorno.
Dair sollevò un sopracciglio
“Dove vai?”
Eden sollevò maldestramente
le spalle
“Stavo controllando la
dispensa ed ho scoperto che manca… Manca… La salsa di soia.”
“Esci a quest’ora per la
salsa di soia?”
Eden annuì
“Ne ho assoluto bisogno.
Devo marinare la carne per domani.”
Dair aguzzò lo sguardo,
quella nuova passione per la cucina stava diventando una vera ossessione.
“Sei sicura di non poterne
fare a meno?”
Lei annuì di nuovo
“Un’altra cosa che posso
fare da sola adesso… La spesa.”
Dair sembrò rilassarsi.
Probabilmente era solo questo, bisogno di uscire di casa.
“Se davvero è
indispensabile…”
Eden strinse la borsa sulla
spalla
“Farò più in fretta che
posso.”
Nella sua testa l’amara
constatazione che la sua scusa non avrebbe retto. Il supermarket era solo pochi
passi più in là del palazzo. Comunque scese le scale e si immerse tra le vie
ancora popolate della città.
A piccoli passi continuava
ad avanzare, la borsa stretta da una parte ed una sigaretta nell’altra. Solo un
po’ di nicotina le avrebbe permesso di arrivare ancora in piedi fino al punto
stabilito.
Mancavano due minuti alle
dieci quando raggiunse la panchina. La zona dei giochi era deserta. Quasi tremò
al pensiero di esser sola in quel posto.
“Stai davvero bene in
verde.”
Un nuovo complimento.
Si voltò di scatto e lo
trovò lì davanti, anche lui negli stessi vestiti della mattina. In mano una
valigetta nera.
“Gra… Grazie.”
Si fece avanti a passi
lenti, lui si avvicinò a sua volta.
Rimasero in piedi a guardarsi
nella penombra della serata. Dire “mi dispiace” sembrava davvero troppo banale.
“Ecco…”
Iniziò lui poggiando la
valigetta sulla panchina per tirarne fuori una pila di fogli.
Documenti del divorzio? Eden
deglutì a fatica.
“Ricordi quando hai mandato
a monte la lettura del testamento di mio nonno?”
Eden aggrottò la fronte
senza rispondere a quella domanda retorica
“Beh.. Avrei voluto
ucciderti allora, ma adesso credo che dovrei ringraziarti.”
Lei avanzò un passo esitante
“Cosa sono?”
Lui le porse il pacchetto di
fogli scritti in piccolo
“E’ la mia eredità…”
Sospirò lasciando i
documenti nelle mani di Eden e riempiendo la sua con una nuova sigaretta
“…Ho messo tutto in un fondo
fiduciario a nome di Sophia Miller. Ovviamente non vi avrà accesso prima dei
ventun anni, ma tu potrai gestirlo al suo posto.”
Eden buttò gli occhi ai
documenti senza riuscire a mettere a fuoco nemmeno una parola
“Ma… Ma lei… Lei non…”
“Lo so.”
Interruppe Davis porgendole
un ulteriore modulo
“E’ per questo che sono
qui…”
Le porse anche una penna
“…Voglio che abbia il mio
nome. Voglio che sia mia figlia, biologicamente e legalmente.”
Eden spalancò la bocca
comprendendo cosa avrebbe dovuto firmare.
“Farai almeno questo per
me?”
Incrociò gli occhi di Davis
di fronte ai suoi, finalmente vide la sua profonda tristezza. Era solo colpa
sua.
Annuì mordendosi il labbro
inferiore.
Firmò senza pensarci due
volte, anche se ciò significava dargli potere, rischiare che un giorno venisse
a reclamare la sua progenie.
Almeno questo glielo doveva.
Davis sospirò
“I miei avvocati ti faranno
avere il resto.”
Concluse. Buttò la cicca e
sembrò volersi allontanare.
Eden si sentì morire.
“Aspetta!”
Lui si fermò sui suoi passi,
lei lo raggiunse
“Ti prego non andartene.”
Davis sembrò frugare nella
confusione del suo sguardo, accarezzandola con occhi indecifrabili. Sputò fuori il suo ultimo respiro e prese
posto sulla panchina poco distante.
“Ho capito perché l’hai
fatto…”
Esordì guardando altrove
“…Ma non posso sopportare il
pensiero che tu stia con lui… Non riesco nemmeno a guardarti.”
Eden accusò il colpo nello
stomaco
“Io non… Non sto con lui.”
Davis tirò su col naso
“Tu vivi con lui.”
Precisò “Con lui e con mia figlia.”
Sentì le lacrime bagnarle
gli occhi
“Non sto con lui… Potrei…
Dovrei in realtà, ma non sto con lui…”
Davis alzò finalmente lo
sguardo
“…Ho provato, ho provato a
dargli quello che merita, ma non ci riesco.”
Lui si leccò le labbra
“Perché?”
Eden abbassò gli occhi,
strinse i pugni, tremò appena
“Perché amo te…”
Confessò
“…Non ho mai smesso… Non
smetterò mai.”
Lo guardò abbassare la
testa, rifugiando il viso tra le mani.
Eden sentì l’urgente bisogno
di piangere. Aveva sperato che quelle poche parole sarebbero bastate per
sistemare tutto.
Stupida. L’amore non è una giustificazione.
“Tu mi odi vero?”
Osò chiedere con la voce già
impastata dal pianto. Davis balzò in piedi e le fu presto vicino, cercando i
suoi occhi tra le lacrime
“Non potrei mai odiarti…”
Si passò nervosamente una
mano tra i capelli
“Qualsiasi cosa tu faccia…
Qualsiasi cosa tu possa dire… Anche se hai fatto in mille pezzi il cuore che
non pensavo di avere… Io non posso odiarti.”
Eden pianse di sollievo.
“Devo andare via adesso.”
Davis contrasse la mandibola
dovendo per forza sputare fuori quelle parole. Era troppo pericoloso per lui
girare indisturbato per le vie di Chicago.
Negli occhi di lei il
terrore che fosse la fine tanto temuta
“Dove andrai?”
“Lontano. Molto lontano da
qui.”
Eden dimenticò di respirare.
La testa prese a girarle.
“Ti vedrò ancora?”
Lui sorrise appena
sollevando un angolo della bocca
“Chi lo sa ragazza
invisibile… Nemmeno la morte ci ha tenuti lontani per molto in fondo.”
Si strinse nella giacca e
prese un lungo respiro
“Abbi cura di Sophia… Abbi
cura di te.”
Eden scosse la testa
“Non posso credere che stia
succedendo.”
Lui si grattò un sopracciglio
cercando di restare impassibile nonostante tutto
“Dovevi scegliere… E l’hai
fatto.”
Eden si morse il labbro,
quasi fino a farlo sanguinare. Era completamente dilaniata tra la
consapevolezza di aver deciso per il bene di sua figlia ed il desiderio di
seguire quell’uomo, di piangere, buttarsi in ginocchio, fare qualsiasi cosa
purché restasse.
Non mosse un muscolo.
Davis le sorrise per l’ultima
volta.
“A presto ragazza
invisibile.”
Concluse ignorando che fosse
un addio. Accese l’ultima sigaretta ed immerso nel suo stesso fumo si voltò
verso l’uscita.
Eden rimase piantata a terra
mentre lui si allontanava, affrontando nuovamente quella scena… Come due anni e
mezzo prima.
Un’altra volta guardava la
sua schiena, ancora una volta avrebbe rivissuto quell’orrore.
Mollando la borsa e lasciando
volare i documenti al vento, corse quei pochi passi chiamando il suo nome
“Davis!”
Lui inchiodò i passi prima
di varcare il cancello, il tempo di voltarsi e già la sentì addosso, stretta a
lui, aggrappata alle sue spalle come fosse l’ultimo punto d’appiglio in mezzo
all’infinito dell’oceano.
Barcollò per il suo peso e
per il dolore che provava dentro. Toccarla avrebbe reso ognuno di quei secondi
invivibile… Toccarla avrebbe significato non trovare più la forza di andare
via.
Chiuse gli occhi inspirando
quel profumo, cercando di bloccare il fortissimo desiderio di ricambiare quell’abbraccio…
Stringerla… Baciarla… Fare l’amore con lei in mezzo a quel parco… Sollevarla e
portarla via con sé.
Respirò ancora, cedendo all’irrefrenabile
voglia di passare le dita tra i suoi capelli ancora una volta.
Lo fece e non riuscì più a
fermarsi, scorrendo le mani sulla sua nuca, sulla sua schiena.. Ricambiando
finalmente quella stretta, trovando inevitabilmente la sua bocca su quella di
lei… Il suo sapore… Non avrebbe mai dimenticato il suo sapore...
“Devo andare…”
Disse tra i sospiri. Prese
il suo viso tra le mani e la guardò dritta negli occhi per l’ultima volta
“…Sii felice…”
Eden provò a divincolarsi
scuotendo la testa, ma lui la bloccò
“Sii felice…”
Ribadì
“…E se non ci riesci,
troverai il mio ultimo regalo in quella valigetta.”
Un secondo. Un secondo ed
era sparito.
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Eden chiuse di fretta la
porta e corse in camera buttando la valigetta sotto il letto, appena in tempo
prima che Dair comparisse alle sue spalle.
“Niente salsa di soia?”
Il tono pesante, la domanda
retorica, lo sguardo serio.
Eden sospirò
“Mi dispiace. Ti ho mentito…
Avevo bisogno di schiarirmi le idee.”
Lui si avvicinò
“E ci sei riuscita?”
Eden annuì
“Mi dispiace.”
Stavolta non per scusarsi
dell’uscita notturna.
Lui abbassò gli occhi
“Lo so.”
Era il loro continuo
andirivieni di scuse e tentativi.
Dair sospirò facendosi
avanti, tentando di raggiungerla e stringerla tra le braccia. Eden non riuscì a
trattenere un sussulto.. Dopo essere stata nell’abbraccio di Davis, quello
sembrava del tutto sbagliato.
Lui si tirò indietro,
spiazzato e suo malgrado ferito.
Sospirò
“Ti lascio da sola.”
Lei cercò i suoi occhi
“Scusami, è solo che…”
Dair alzò il palmo per
fermarla
“Non importa.”
Concluse uscendo di fretta
dalla stanza. Eden avrebbe voluto seguirlo, ma il richiamo più forte era quello
che proveniva da sotto il suo letto.
Tirò fuori la valigetta e la
aprì, scostando lentamente i documenti. Sul fondo trovò una bustina quadrata ed
al suo interno un DVD. Nemmeno il tempo di osservarlo che già era infilato nel
computer.
Quasi pianse vedendo quel
viso.
“Ciao Eden… Spero tanto che tu stia bene.”
Sullo schermo il viso di
Payne brillava sullo sfondo di una spiaggia assolata. I suoi lunghi capelli
biondi mossi dal vento ed il più grande sorriso che avesse visto.
“Vorrei tanto che tu fossi qui…Ho così tante cose da dirti.”
La Payne del video buttò gli
occhi al cielo e si morse il labbro poco prima di esplodere in un nuovo
sorriso. Sollevò la mano sinistra di fronte alla telecamera. Sul suo anulare
brillava un’inconfondibile fede d’oro.
“L’abbiamo fatto!”
La vide ridere di cuore
mentre i suoi occhi si facevano lucidi.
“E…”
Riprese alzandosi in piedi
“…Abbiamo
fatto anche questo!”
Sorrise mostrando il profilo
del suo pancione. Eden spalancò la bocca davanti a quell’immagine.
Si sentì di colpo così
felice.
Sullo schermo Payne sorrise
di nuovo
“Ecco che arriva mio marito!”
Accanto a lei apparve Tyler,
abbronzato e radioso. I suoi capelli mossi erano più lunghi del solito e la sua
espressione non lasciava possibilità di dubbi.
“Ciao Eden, spero tanto che tu stia bene!”
Lei si mosse impaziente,
desiderando con tutto il cuore di poter rispondere ai suoi amici, di potersi
congratulare, di confessare a Tyler che aveva già comprato venti copie del suo
romanzo.
“Ti ringrazio amica mia, ti ringrazio di tutto.”
Eden sorrise. Dopo tutto le
sue scelte avevano portato anche a qualcosa di buono.
Payne aveva ripreso il
controllo della camera, riempiendo l’inquadratura col suo sorriso
“Mi manchi, mi manchi tanto!”
“Anche voi mi mancate..”
Sussurrò Eden mentre lo
schermo diventava nero.
Erano felici. Payne e Tyler
erano felici. Lei invece…
Si tirò su prima di finire
il pensiero. Aveva tutto ciò di cui aveva bisogno.
Tirò giù lo schermo del
laptop e tornò alla valigetta, sperando di riuscire a mettere tutto via prima
del ritorno di Dair.
Nel momento in cui provò a
riporre il DVD esattamente dove l’aveva trovato, notò un’altra busta nell’angolo,
mimetizzata nella pila di documenti legali.
La aprì timorosa e ci guardò
dentro.
All’interno due biglietti
aerei, uno col suo nome e l’altro col nome di sua figlia.
Sophia Miller.
La loro figlia.
Li accarezzò con la punta
delle dita.
Due biglietti aperti, senza
data di partenza o ritorno… Destinazione Tokyo.
Li strinse istintivamente al
petto.
Ecco dove sarebbe andato.
Ecco dove le avrebbe
aspettate.
Un sorriso sincero e
liberatorio si aprì sul suo viso. Non era finita, non sarebbe mai finita.
Solo in quell’istante poté
apprezzare le ultime parole di Davis.
Quello era il suo regalo.
Un finale sempre aperto. Una
porta sempre spalancata.
Ripose i biglietti e camminò
fino alla stanza di Sophia.
Dormiva, tranquilla e beata,
stringendo a sé il solito orsetto di pezza. Il suo piccolo mondo quasi
perfetto.
La accarezzò sfiorandola
appena perché non si svegliasse. Un giorno tutti i dubbi della sua bambina
avrebbero trovato soluzione. Un giorno avrebbe potuto raccontarle il resto
della storia.
Suo padre non poteva tornare,
ma lei ora poteva raggiungerlo nel suo regno lontano.
Un giorno…
Un giorno avrebbe usato quei
biglietti.
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PORT ELIZABETH – SUD AFRICA
André scacciò le mosche
intorno al suo naso con un gesto automatico della mano.
Fece roteare la monetina tra
le dita guardando la sua immagine riflessa nello schermo della slot machine
elettronica. I capelli tirati indietro col gel non si erano mossi di un
millimetro ed ormai era riuscito ad abituarsi a quel nuovo pizzetto dai riflessi
rossastri.
Sbuffò di noia infilando la
moneta nell’apposita fessura.
Spinse i tasti seguendo il
giusto ritmo che ormai conosceva a memoria.
Ding. Ding. Ding.
L’immagine dei quattro assi
di picche si ricompose rapidamente davanti ai suoi occhi. Una cascata di
monetine fuoriuscì in pochi secondi.
Stupida tecnologia
dozzinale. Fin troppo semplice da prevedere.
“Phinde!”
Esclamò in zulu il proprietario
di quella baracca sita sulla costa sudafricana. Sorpassò il bancone e lo
raggiunse con aria esasperata.
“Ancora! Tu vince ancora!”
André sembrò non notarlo
nemmeno e si sollevò dallo sgabello senza prestare alcuna attenzione ai gesti
increduli dell’uomo di colore al suo fianco.
Non raccolse nemmeno un
centesimo della sua vincita, allontanandosi con un sorrisetto in faccia e gli
occhi puntati all’orologio.
Raggiunse il telefono
pubblico alla parete.
Compose il numero stampato
nella sua memoria.
Tre lunghi squilli metallici
e finalmente lei rispose.
“Sì?”
“Sono io…”
Ancora una volta André
controllò l’orario
“…Accendi la tv..CNN.”
Dall’altra parte del globo,
a quasi 15000 chilometri di distanza, Blake afferrò il telecomando.
Odiava la lingua giapponese.
Dopo qualche sforzo riuscì a maneggiare i canali satellitari e trovò la CNN.
L’anchorman annunciava
puntuale l’ultimo scoop.
“Uno
scandalo inaspettato colpisce quest’oggi il Federal Bureau of Investigation. Uno
dei suoi membri più conosciuti al pubblico americano è stato oggi sollevato dal
suo incarico e messo immediatamente in detenzione preventiva… L’agente McPhee,
vice-comandante della sezione criminalità organizzata di Chicago, è infatti
accusato di istigazione alla prostituzione ed abuso di minore…”
Blake sollevò un
sopracciglio cercando di capire
“…Proprio
questa mattina, in condizioni ancora da chiarire, tutta la rete è stata invasa
dalle immagini del vice-comandante in atteggiamenti lascivi con una prostituta
coreana minorenne. Non sappiamo ancora se sia stata opera di un hacker o un
attacco personale all’agente, ma queste foto hanno fatto in un solo secondo il
giro del mondo, comparendo perfino sugli schermi pubblicitari di Times Square…”
Blake
non trattenne un sorriso
“…
Le autorità stanno ora cercando l’hacker in grado di provocare un simile
trambusto nella rete e tra gli uomini che proteggono questo paese… Nel
frattempo l’ex vice-comandante resta in cella, in attesa di processo.”
Blake distolse lo sguardo
dalla tv e riportò la cornetta all’orecchio
“E’ opera tua?”
André sghignazzò come un
bimbo fiero della sua ultima marachella
“Nessuno mette le mani
addosso a Blake Miller per poi passarla liscia.”
Lei scosse la testa
“Sei un folle.”
All’altro capo André usò la
mano libera per scompigliarsi i capelli
“Sono un genio.”