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Autore: Francisco    03/10/2012    0 recensioni
Scatto in piedi e mi guardo attorno confuso, ma nessuno sta guardando verso di me. Leggo l’orrore nei loro sguardi ma sembrano tutti più interessati a qualcosa che sta ai miei piedi, e guardo giù.
Merda.
Sono io, sdraiato per terra con faccia e maglietta insanguinate e gli occhi chiusi. Lo zaino è volato poco più in là.
Solo allora sento l’ambulanza che sta arrivando...
Genere: Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il tuffo di cinque piani non è servito a nulla e se possibile sto anche peggio di prima, perché mi sto rendendo conto sempre di più di quanto grave sia la mia situazione ora come ora.
Non ho sentito nulla, neanche un brivido, e in più sono atterrato in piedi, dolcemente, come se fossi saltato giù da un gradino. Più ci ripenso più tutto questo diventa assurdo. L’ultima goccia si è versata il giorno stesso dell’incidente, uscito dalla casa di Lidia. Ero devastato e sentivo un enorme vuoto nel cuore. Dovevo impormi di respirare e non riuscivo a pensare a niente, ma qualcosa riuscì comunque a catturare la mia attenzione.
I miei genitori uscivano rapidamente da casa loro proprio in quel momento e si avviavano in fretta verso la macchina. Non vidi l’espressione di mia madre, si teneva la faccia tra le mani, ma mio padre sembrava parecchio preoccupato. Capii che qualcuno li aveva avvertiti dell’accaduto.
Corsi verso la macchina e riuscii ad attraversare la portiera posteriore un attimo prima che partisse. Seduto sul sedile di dietro guardai i miei genitori. Nel momento in cui misero in moto mia madre crollò, scoppiando a piangere, con il viso nuovamente nascosto tra le mani e i suoi boccoli castani che sobbalzavano a ritmo dei suoi singhiozzi.
“Andrà tutto bene” disse mio padre accarezzandole la spalla con la mano, ma la sua voce e il suo sguardo tradivano un dubbio logorante. “Vedrai, si sistemerà tutto”, e sembrò più che altro che cercasse di convincere se stesso. Solo dopo che sentii mio padre parlare così mi resi conto che le mie intuizioni erano fondate: pur pensando di essere morto non mi aveva mai abbandonato una sottile ma presente sensazione di appartenenza a questo mondo, c’era ancora la possibilità che io sopravvivessi. Il resto del viaggio fu silenzio, intervallato dai radi singhiozzi di mia madre.

Arrivati di fronte al pronto soccorso i miei genitori uscirono dall’auto e si avviarono all’interno. Io li seguii. Mio padre cinse le spalle di mia madre con fare protettivo. Non glielo avevo mai visto fare con tanta tenerezza. Non li avevo mai visti così.
Mio padre chiese di me alla reception. “Il signor e la signora Butler?” chiese un uomo con il camice e in mano una cartella clinica. “Oui!” rispose in fretta mia madre. Era il più bello dei suoi difetti: era francese, lei e mio padre si conobbero a Parigi, e quando era arrabbiata o spaventata non riusciva a non parlare nella sua lingua originale, un francese così dolce che ogni volta che lo sento capisco perché mio padre si sia lasciato stregare, tanti anni fa, da quella giovane cameriera parigina con i capelli lunghi e fluenti e due occhi neri più profondi del mare. Abbozzai un sorriso di tenerezza.
“Da questa parte, prego”, disse il dottore indicando un corridoio con il braccio teso, e poi fece strada lungo quel labirinto. Era un uomo sui quarant’anni, ma con la testa quasi rasata e i capelli grigio chiaro. Una pelata non troppo evidente gli attraversava la testa. Aveva gli occhi azzurri e giovanili e uno sguardo buono e rassicurante che credo aiutò mia madre a calmarsi un poco.
“Abbiamo trovato la sua carta d’identità nel portafogli”disse, “e siamo risaliti a voi per informarvi prima possibile”. La sua voce era calma e decisa, ma nulla di rassicurante.
“Essendo al telefono mi sono potuto dilungare ben poco sui dettagli. La situazione è questa: vostro figlio è stato... investito. Per ora le sue funzioni vitali sono stabili, ma ha subito un forte colpo alla testa e al volto, non sappiamo quanto ci metterà a riprendersi del tutto”.
“Sono vivo!”sussurrai. Ero a dir poco sollevato, ma i miei genitori erano forse più abbattuti di prima. “A volte possono metterci mesi, in rari casi addirittura anni, nessuno può dirlo con certezza...” Continuavamo a camminare, e io ci capivo sempre meno. “Come faccio a essere vivo in un ospedale... Se sono qui?!”
La voce del dottore mi risvegliò: “Oh, e non preoccupatevi delle ferite. So che possono fare impressione, ma guariranno prima di accorgervene e non ne resterà traccia. Con gli incidenti di tale spessore succede sempre così”. Poi si fermò, e con lo sguardo basso indicò una porta alla nostra sinistra nel corridoio. Andai a sbirciare dentro.

Mi sembrò di rivedere la scena di quella mattina, ma era decisamente meglio: ero sdraiato sul letto con la faccia un po’ livida e la testa fasciata. Un collare mi abbracciava la gola e la gamba e il braccio destri erano ingessati. Molto meglio di quanto pensassi, dato che pensavo di essere morto sul colpo.
Mi fece una strana impressione e mi sentii quasi in colpa quando mi resi conto che io e i miei avevamo in quel momento emozioni completamente contrastanti. Da una parte io ero quasi felice di vedermi in quello stato, perché sapevo di avere ancora la possibilità di recuperare la mia vita di prima, mentre dall’altra loro stavano male per me. Avrei voluto dirgli che andava tutto bene, che sarebbe tornato tutto a posto,ma anche se avessero potuto sentirmi mi accorsi che non avevo idea di come avrei fatto a recuperare il mio corpo.
Mi avvicinai al lettino, provai a toccare la mano di quel guscio vuoto steso là sopra. Non so cosa speravo di fare, andavo a tentativi, e forse mi sarei sentito stupido se non fossi stato certo che nessuno in quella stanza avrebbe potuto assistere ai miei esperimenti. Mi concentrai e chiusi gli occhi, ma non accadde nulla. Ebbi un’idea: pensai di avere la soluzione e provai ad attraversarlo e sdraiarmici dentro, sperando che facendo combaciare di nuovo il mio corpo e quella specie di ologramma che ero in quel momento bastasse a farmici tornare dentro sul serio. Stetti sdraiato in quella posizione per un po’ e poi mi sollevai, guardando verso le tre figure sulla soglia sperando in un loro segno di stupore, ma l’unica persona a fare qualcosa fu mia madre, che con un sospiro venne a sedersi vicino al lettino e mi prese la mano. Riprovai a sdraiarmi, stetti più a lungo, cercai di svuotare la mente. Trenta secondi dopo provai di nuovo ad alzarmi. Mio padre si era avvicinato e aveva messo una mano sulla spalla di lei, mentre il dottore si avviava verso il corridoio accennando un cordiale “Vi lascio soli.”
Era evidente che non era quello il modo, anche perché neanche le macchine che mi avevano attaccato addosso davano segni di alcuna anomalia. Una parte di me me lo diceva chiaramente: “Non puoi sperare che sia così semplice”, eppure sapevo nel profondo che sarei tornato, dovevo solo scoprire come. Uscii dalla stanza e dall’ospedale. Volevo prendere un po’ d’aria e schiarirmi le idee, così iniziai a camminare verso il mio appartamento. Anche se si trovava nella stessa città sapevo che ci avrei messo molto, ma non avevo nessuna fretta, né nulla di urgente da fare. Volevo prendermi i miei tempi e rimuginare con calma. Mi avviai a passi lenti verso casa mia, con gli occhi bassi e le mani in tasca.
Pensavo.

Arrivato di fronte al condominio capii che volevo ancora starmene per conto mio. Non aveva senso tornare a casa, cosa avrei potuto fare?
Salii le scale ed arrivai sul tetto, e questo fu non molto prima del salto. Dopo essermi seduto con le gambe penzoloni sopra la strada ho ricominciato a riflettere su come fossi arrivato lì, su come tutto questo avesse avuto inizio, e poi ricordando Lidia e quella sua dolorosissima frase ho smesso di voler ricordare, ma il tuffo non è servito a niente, e adesso sto camminando senza meta da almeno mezz’ora, mentre il rumore di fondo nella mia testa diventa sempre più assordante.
Sono confuso. Come è successo? E perché? E poi, perché a me? Perché adesso? Cosa sarebbe successo se non fosse andata così? Avrei potuto schiattare e basta, perché non l’ho fatto? Un miracolo? O è qualcos’altro? Forse non era destino che morissi, devo ancora fare qualcosa? Oppure...

Una nota di pianoforte. Una singola nota, e tutti i miei pensieri, i miei dubbi, le mie domande vengono spazzati via. Poi un’altra. Una rapida successione di vibrazioni attraversa l’aria, mi pervade tutto, e non riesco a trattenere un sospiro...
Resto alcuni secondi lì, lasciandomi riempire da quel suono meraviglioso. Ho sempre adorato sentir suonare il piano, anche se non avevo mai voluto imparare. È come se fosse un’oggetto magico: non appena sento suonare una bella canzone tutto intorno a me diventa più bello, ho l’istinto di avvicinarmi come una falena verso la fiamma e tutti i miei problemi quasi svaniscono, ma non ho mai sentito nulla di così coinvolgente come in questo momento. Mi sorprendo addirittura ad ondeggiare lievemente la testa avanti e indietro a ritmo. Devo sapere da dove viene. Non c’è un motivo preciso, devo semplicemente sapere chi è che sta suonando.
Lungo il muro alla mia sinistra c’è una finestra, è aperta. La musica proviene di sicuro da lì. È al primo piano e di lato c’è una grondaia. Non sembra particolarmente robusta, ma anche se fosse un filo di nylon non cambierebbe nulla perchè non potrei comunque smuoverlo di un millimetro, quindi inizio ad arrampicarmi e in pochi secondi sono sopra.
Spalanco gli occhi e la bocca per lo stupore. Al pianoforte c’è una ragazza, la sua pelle è chiarissima. Le sue dita si muovono in modo frenetico e sicuro producendo quel suono meraviglioso. Gli occhi sono chiusi e la testa è leggermente all’indietro. I capelli biondi e lisci arrivano fino allo sgabello, ondeggiando con eleganza mentre lei oscilla a ritmo con la musica. Sospiro alla vista di tutta quella bellezza in una volta sola, ma forse in modo un po’ troppo rumoroso. In un attimo si irrigidisce e apre gli occhi. La musica cessa, il suo sguardo improvvisamente duro si volge rapidamente verso di me.
“E tu chi diavolo sei!?”
  
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