I will always love you
A Gab e
Bells, che l’hanno letta per primi.
“If I
should stay
I
would only be in your way
So
I’ll go, but I know
I’ll
think of you every step of the way
and
I will always love you,
I
will always love you”
I will
always love you, Whitney Houston
-
Amare
qualcuno è come confidare le tue colpe al più bello degli angeli, che
però
tiene in mano la spada del giudizio -. Erano queste le parole che sua
nonna le
ripeteva ogni sera, prima di andare a dormire.
Lei
la ascoltava con quell’ingenuità che ogni bambina ha, non capendo
veramente
quelle parole, trovandole belle e poetiche, ma prive di significato.
Sua nonna aveva smesso di dirle quella frase quando era partita per il
suo ultimo viaggio, quello da cui nessuno – a meno che lunghi canini
affilati
non ti avessero reciso la pelle prima della partenza – sarebbe più
tornato;
eppure, ogni sera, prima che Morfeo la traesse nelle sue braccia
oscure,
sentiva quelle parole nelle orecchie, accompagnate da quella musica che
era
stata la voce della nonna.
-
Vorrei poterti stare accanto per il resto della
vita… -. Era iniziata così la frase che le aveva fatto battere il cuore
a mille
per la prima volta, in un pomeriggio d’inverno nella sua stanza del
Collegio.
Era seduta alla scrivania, la sedia voltata verso l’interno, una mano
poggiata
sul legno del mobile, vicino ad una boccetta di inchiostro, gli occhi
rivolti
verso il basso ad incontrare sue iridi verdi. Il ragazzo se ne stava
inginocchiato a terra, una mano sulle gambe.
Vide un lampo di sofferenza passare per quegli occhi verdi –
come gli
alberi nel giorno in cui si erano incontrati, in quel boschetto che era
diventato il loro rifugio – e il suo cuore si strinse nel petto.
- … ma sappiamo entrambi che non posso. Non possiamo-.
Si era alzato ed era uscito dalla stanza, mentre una sola
lacrima le
solcava il viso pallido.
Pioveva.
La finestra della stanza era spalancata, il
vento faceva agitare le tende e l’acqua, non trovando l’impedimento del
vetro,
si riversava all’interno della stanza. Un fulmine illuminò la scena,
rivelando
candele a terra, spezzate, immerse in una valle di carta ed inchiostro.
La
porta si spalancò e due ragazze corsero dentro la stanza, urlando frasi
sconnesse: la finestra venne chiusa, mentre un paio di mani femminili
la
prendevano per le spalle e la scuotevano.
Non ci fu risposta alle loro domande, solo un
inquietante silenzio.
Camminare
le aveva sempre calmato i nervi, eppure
quella semplice attività, in quei giorni, non sanciva nessun effetto su
di
lei.
Camminava al braccio del cugino, la spada di lui che qualche
volta si
impigliava al suo vestito, gli occhi persi nell’ammirare la natura di
quel
luogo: da bambina l’aveva amato. Le lunghe passeggiate con la nonna, i
giochi
con la sorella e i cugini. Ora, sentiva che quel luogo aveva perso il
suo
fascino. O era lei che aveva perso qualcosa – un pezzo del suo cuore,
un pezzo
della sua anima… entrambi -.
-Mi
spiace- quel sussurro ruppe il voto
di silenzio che da mesi le sue labbra avevano sancito. Sentì il cugino
voltarsi
per guardarla, stupito da quella voce che da fin troppo tempo non
sentiva.
Si
sentì stringere in un abbraccio, e in solo
quel calore familiare, si permise di versare quelle lacrime troppo
trattenute.
Poche
parole possono rovinare una vita. Lei aveva
già sperimentato la verità di quelle parole sulla pelle, con
quell’unica frase
che l’aveva distrutta dentro.
Ma mai aveva sentito un tale vuoto dentro al cuore come dopo
aver letto
quella cortissima, insulsa, missiva portatale da un insulso valletto.
Aveva dovuto leggerla varie volte per capirne il significato nascosto
sotto mille frasi di circostanza, condoglianze e giustificazioni per
fatti che
non sarebbero mai potuti cambiare.
Le urla le erano uscite dalle labbra spontaneamente. I vasi
nella stanza
si spezzarono sotto la violenza della sua mano, i libri caddero sotto
la furia della
sua mente e gli specchi si ruppero sotto il peso del suo dolore.
Nemmeno si accorse delle
braccia che l’avvolsero, che la strinsero contro un petto grande e
forte,
cercando di calmarla, i pugni che si abbattevano sul quel petto, delle
lacrime
disperate che le scendevano dagli occhi.
Fu
calma solo quando non ci furono più lacrime.
-
Caroline – la voce della cugina suonava spenta
alle sue orecchie. Si girò, guardando Alexandria negli occhi, ma senza
realmente vederla.
–
Dobbiamo andare, Carol – disse, la voce dolce, ma lo sguardo pieno
d’ansia,
come se si aspettasse un altro scoppio.
Che
non arrivò.
Si alzò dalla sedia, la schiena dritta e il mento alto, la
fierezza nel
mostrare due occhi segnati da infinite ore di pianto, e si diresse
verso
l’uscita del Collegio.
Pioveva. Pensò che forse la pioggia era stata maledetta a
segnare ogni
sua giornata buia, ma sorrise: da un lato era confortante sapere che
qualcosa
non sarebbe mai cambiato. – Piove – sussurrò, chiudendo appena gli
occhi e
prendendo la cugina per il braccio, avviandosi verso il resto della sua
scorta.
La
bara era di un nero lucido, sotto il velo della
bandiera. Sulla navata della Cattedrale erano posti migliaia di drappi
portanti
le insegne della Nazione di Altieres. Era questo il tipo di funerale
che
spettava ad un soldato di Reggenza morto in servizio.
Lei
non avrebbe mai ricordato la cerimonia o le lacrime che le scorrevano
attorno,
mentre il suo viso era rimasto asciutto.
Guardava
negli occhi il ritratto del ragazzo, in quelle iridi verdi che tanto
aveva
amato e che avrebbe amato per sempre. Iridi nelle quali si era
specchiata e in
cui aveva scorto un infinito amore verso di lei.
– Daniel – sussurrò, e il suo nome si perse nel suono delle
campane a lutto.
Grazie
a tutti. Anche solo per essere passati di qui.