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Autore: Diomache    17/04/2007    29 recensioni
Come vi sentireste se un bel giorno un pazzo volesse uccidere la persona che amate per qualcosa in cui non c’entra assolutamente niente e per di più accaduta tre anni prima?
House non lo sapeva.
Ma in quel vortice di follia e di strani omicidi che stavano sconvolgendo il Princenton , lui manteneva la più assoluta lucidità nella convinzione che l’avrebbe impedito con tutte le sue forze.
L’amava, adesso ne era sicuro.
E nessuno l’avrebbe toccata.
Vincitrice del primo concorso di fanfiction dr. House MD – unofficial forum.
[House/Cameron] [Wilson/Cuddy]
Genere: Romantico, Dark | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Allison Cameron, Greg House
Note: What if? (E se ...) | Avvertimenti: nessuno
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Lacrime di Follia

CIAO A TUTTI!!!!!!!!!!

Scusate per il ritardo, ormai avrete capito che la puntualità non è il mio forte.. ;-P e anche se avrei una buona scusa per spiegare i motivi del mio rimandare continuamente l’aggiornamento non starò qui a tediarvi troppo, l’importante è che alla fine ce l’abbia fatta, no?

Vi confesso che ho una paura pazza di deludervi…

Voi con le vostre recensioni siete stati fantastici, tutti, io non vorrei essere inciampata proprio alla fine e dopo tanto tempo darvi una conclusione poco soddisfacente.. speriamo di no!

Anche se vi ho fatto aspettare ho fatto comunque in modo che il capitolo fosse un po’ più lungo degli altri e l’ho arricchito con due citazioni a me tanto care, perché rivolte al più grande della lingua greca (secondo me, per carità), Platone e a Catullo con il suo dolcissimo Carme LXXXV dedicato ad Apple che so che ha un interesse particolare per questo autore!;)

Una piccola nota al titolo: l’Ambrosia è nella mitologia greca il cibo degli dei.

Mi scuso con tutti i grecisti (o apprendisti tali ;P) che circolano in rete, scusandomi se la citazione non ha spiriti e accenti (e quindi la dignità che meriterebbe) ma non ho un programma per renderle al meglio.. sorry!

Vorrei fare una precisazione per quanto riguardano le citazioni.. la maggiorparte delle volte le traduzioni dei frammenti che propongo sono opera mia, se fossero di altri autori decisamente più autorevoli ( o prese da un libro) lo avrei fatto notare.

Andiamo alla parte più bella del mio commento: i ringraziamenti.

Innanzitutto vorrei precisare che mai mi sarei immaginata tante recensioni. Sul serio, ragazzi, mi avete tolto il fiato!!!! siete stati per preziosissimi come immagino lo siete per ognuno di noi apprendisti writers e vorrei che teniate sempre a mente  che una parte di questa storia è soprattutto vostra, GRAZIE!!

I miei ringraziamenti più sentiti ringraziamenti, quindi a : Damagedlove, Venus, Hamburger  sei troppo gentile, grazie!) Toru85, SHY, Mistral, Amy, Apple (credo che ringraziarti all’infinito di tutto il sostegno che mi trasmetti ogni volta non basterebbe comunque per farti capire quanto si sono grata, amica mia.. GRAZIE davvero di tutto, ti voglio bene)Sheila, Vally, Pinacchia (ti devo delle scuse, una volta mi sono dimenticata di ringraziarti!) Elbereth ( non preoccuparti, puoi utilizzare comunque  la scena senza problemi! Anche a me è successo un migliaio di volte di trovare già scritte scene che avevo in mente anch’io! Dont’ worry!!!)Hikary, Jakie93, Mercury259, Missleep, Aras5, Piccy6, _Elentary_, Varekai( grazie mille per tutte le belle parole che hai speso per descrivere la mia storia.. spero di meritarmi i tuoi complimenti!)EriMD, Miky91, Birseis, Preziosoele, Cira, Caph of the, Dark_girl92, Angelikfire, Aliena.

Non ho davvero parole per ringraziarvi dei vostri complimenti.

Spero solo che il capitolo vi piaccia.

Un bacio grande,

buona lettura.

La vostra Diomache.

 

 

 

Lacrime di Follia

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo XI: Ambrosia

 

 

 

 

 

 

 

 

<< Alla gar hdh wra apiein&   emin men apoqanoumenw, umin de biwsomenoi&

opoteroi de hmwn ercontai epi ameina pragma,  adhlon panti plhn

h tw qew >>

Apologia di Socrate. Platone.

 

 

[infatti, è ormai ora di andare; io a morire, voi a vivere; chi di noi vada verso una condizione migliore è oscuro a tutti tranne che al dio.]

 

 

 

 

La morte.

House s’accorse di non averci pensato mai veramente. Pur essendoci andato vicino due volte, pur avendola avuta sottomano in continuazione, si rese conto che la morte non era mai stato un problema per lui.

Morte come privazione, morte come assenza di sensibilità. Morte come fine delle funzioni vitali di un uomo. Ecco cos’era la morte. Nient’altro da aggiungere. Oltre la morte? Qui era il problema allora? Nemmeno. Oltre la morte non c’è niente. Niente.

Ma adesso la morte si ripresentava nella sua vita, aveva bussato nuovamente alla sua porta, sfondandola con aggressione e accanendosi su l’unica persona che non la meritava affatto.

Allison Cameron.

Tutti siamo chiamati a morire. È il nostro triste destino, l’unica incrollabile certezza. Per questo tutti si augurano di fare una bella morte, molti la vogliono rapida ed indolore come un ictus, altri la preferiscono accompagnata da tanto affetto, circondata dai loro familiari.

Si chiese come avesse voluto Allison la sua morte.

Di certo, non la immaginava dentro un ascensore e per mano di un pazzo.

Trent’anni sono troppo pochi per morire. La sua bellezza, la sua sincerità, la sua bontà, il suo desiderio incrollabile d’aiutare gli altri non potevano spegnersi così. Lei non poteva spegnersi così.

Aveva bisogno di lei.

Lei non era affatto un’avventura, non lo sarebbe stata mai.

Sospirando si rese conto che aveva infranto la promessa che si era fatto, solo pochi giorni fa. Quando aveva scoperto che Cameron era in pericolo e si era reso conto di amarla, aveva giurato a se stesso che per una volta nella vita avrebbe fatto qualcosa per gli altri e per se. Avrebbe difeso la donna che amava, l’avrebbe protetta. Si era detto che nessuno l’avrebbe toccata.

Eppure adesso era lì, in quell’ascensore che gli operai s’affannavano tanto ad aprire, in un’assurda lotta contro il tempo.

E lui aveva fallito. Non importava quanto Chase si sentisse in colpa o quanta ansia esprimessero gli occhi blu di Cuddy o la rabbia di Foreman o il dolore di Wilson. La colpa era unicamente sua.

Se avesse trovato il coraggio di parlarle veramente, per una volta, se le avesse detto che l’amava, lei non sarebbe corsa al lavoro e via dicendo. L’aveva buttata tra le braccia del suo assassino, lui e il suo deleterio amore.

La mano di Jimmy che si depositava sulla sua spalla lo riscosse per un attimo dai suoi pensieri. Si voltò, quasi stancamente e incontrò lo sguardo del suo amico. Wilson lo fissò intensamente e rimase scosso, per qualche istante, nel notare l’intenso sconvolgimento che albergava negli occhi del suo amico.

“Si salverà.- disse, ostentando una fiducia che non aveva.- Cameron è forte, lo sai.”

“Non più di una pistola.” La voce amara di Greg giunse agli orecchi e ai cuori dei presenti, facendoli voltare verso di lui. Era la tacita e crudele verità, ma nessuno in quel momento aveva voglia di sentirla. E questo lo innervosiva. “Che c’è?- domandò agli altri.- credete che dire che ce la farà, risolverà qualcosa? Non possiamo fare niente per lei, se non augurarci che soffra il meno possibile.”

“Come puoi parlare così.” la voce rabbiosa di Chase non esitò  un istante. Si parò di fronte a lui, con il volto lucido dalle lacrime, gli occhi arrossati di rabbia e pianto. Anche lo sconvolgimento di Robert era una novità per tutti, lui, sempre così distaccato e con un’aria appena sufficiente. “Lei non merita il tuo cinismo.”continuò l’australiano, fissandolo negli occhi.

“Non meritava nemmeno la tua stupidità, se è per questo.” Ribatté House, se possibile, con la stessa rabbia del ragazzo. L’intensivista abbassò lo sguardo per un istante poi, con la voce rotta, continuò. “è colpa mia, lo so.”

“Non dire sciocchezze, Robert.- lo contraddisse James.- non potevi immaginare.”

“Si che poteva.- Greg lo contraddisse di nuovo. Aveva tanta rabbia dentro, e Chase era ancora una volta un buon capro su cui espiarla.- che cosa credevi, che quell’uomo volesse invitarla a cena? Non lo sapevi che aveva una assassino alle calcagna?”

Chase strinse i pugni. “Come potevo.. pensare, come… lui mi ha detto di essere un dipendente dell’ospedale e che era importante!”

“Avresti almeno potuto accompagnarla, se credevi fosse importante! Sei uno sciocco e un inetto, per quale motivo altrimenti pensi che l’assassino si sia rivolto a te, eh? Sapeva benissimo che l’avresti spinta da lui!”

“House smettila! Adesso basta!” Jimmy tentò di frapporsi tra i due.

“Certo, dovremo dargli un bel premio!- continuò Greg, fuori di se.- non bastano le persone che uccide sul lavoro, adesso si è messo ad ammazzare anche i colleghi!”

“House stai passando il limite!- questa volta si levò anche la voce di Cuddy.- è stata una tragica fatalità, non è giusto incolpare Chase, nessuno ha colpe qui!”

Ma una vocina dentro la testa e il cuore di House continuava a gridare il contrario.

Era lui stesso il colpevole, era lui, era lui, ERA LUI!!

“Quest’imbecille ce l’avrà sulla coscienza!-continuò il diagnosta, gridando.- hai capito, Chase? Cameron sta morendo per causa tua!”

“Basta!” gridò l’australiano, esasperato dalle continue accuse, dal pesante groppo sulla coscienza che sentiva, dal pensiero di Cameron, da tutto, dalla rabbia. Ma non si limitò alle parole, zittì il suo accusatore con un pugno, veloce e preciso che colpì House tra il naso e il lato destro della bocca.

“Chase, ma sei impazzito??!” Foreman, in disparte fino a quel momento, si accostò al ragazzo, prendendolo furiosamente per un braccio.

House era a terra e si toccava con la destra il labbro sanguinante mentre i suoi occhi non smettevano di fissare il suo dipendente. Chase ansimava ancora dalla rabbia.

Lisa si abbassò e porse il suo aiuto ad House il quale, con un gesto stizzito, lo rifiutò e s’alzò da sé.

I due si fissarono negli occhi ancora per diversi secondi senza che nessuno dei due dicesse nulla. Chase stava per dire di nuovo qualcosa ma l’arrivo di Smith lo zittì improvvisamente.

Il detective –andato a dare ordini agli operai del piano inferiore.- notò subito la stranissima tensione che si era creata. “Che diavolo è successo qui?” domandò, notando il labbro ingrossato di House e sguardo stravolto di Chase.

Fu proprio quest’ultimo a dire, in un sussurro. “Io vado a pregare.”

Gli occhi di tutti lo seguirono, mentre si allontanava e si dirigeva verso la cappella.

House lo degnò appena di uno sguardo.

“Detective.- Foreman si accostò al poliziotto.- c’è qualcosa che possiamo fare per lei?- domandò, velocemente.- c’è un modo per fare più in fretta?” disse osservando gli operai che lavoravano celermente a pochi passi da loro.

Sospirando, Smith si voltò verso di lui. “L’ascensore è rimasto bloccato tra il primo e il secondo piano. Abbiamo attivato delle macchine tiranti per farlo risalire fino al livello del secondo. Ce la stanno mettendo tutta” concluse con voce roca.

Foreman negò con il capo e si sedette di nuovo, appoggiando i gomiti alle ginocchia e il viso, tra i palmi delle mani.

House era ora impassibile, appoggiato al muro, con lo sguardo fisso sul pavimento. L’unica spia di scompiglio erano gli occhi e la mano destra, stretta con assurda forza attorno al bastone, così violentemente che le nocche della mano erano diventate bianche per lo sforzo.

 

 

 

Fredda.

La prima sensazione sicuramente era quella.

Terribilmente fredda.

Così le appariva la canna della pistola, appoggiata contro la delicata pelle del suo collo.

Lui, intanto, non smetteva di fissarla intensamente negli occhi. E sorrideva, malvagiamente, mentre dai suoi occhi lucidi scendevano di tanto in tanto, piccole lacrime di follia.

Cameron inizialmente aveva chiuso gli occhi. Ma poi, in una sorta d’orgoglio, aveva deciso di morire fissando negli occhi il suo assassino. “Avanti.- disse, con la voce ancora rotta dal pianto.- che cosa aspetti?- lo sfidò. Era pericoloso ma non aveva nulla da perdere.- non vuoi più uccidermi?”

L’uomo per tutta risposta premette con più violenza l’arma sul suo collo e rispose, febbrilmente. “E tu? Tu non hai paura?”

Allison strinse i lati della bocca. “Tutti hanno paura di morire.- rispose, sussurrando.- anche Chrystal ne aveva tanta.”

L’uomo le mollò un ceffone, in uno scatto di rabbia. Cameron si piegò di lato per la forza del colpo. L’immunologa incassò il colpo e cercò di ricacciare indietro le lacrime che le appannavano la vista tornando a guardarlo.

“Non t’azzardare.- riprese quello, tremando di rabbia.- non t’azzardare a nominare mia figlia, puttana.”

“Tua figlia era malata.- continuò Allison, con la voce rotta ma la caparbietà che non le era mai mancata nella vita.- era solo malata. Nessuno l’ha uccisa.”

“Tu menti!!” la picchiò di nuovo questa volta con più forza però, con più violenza, così tanta che Cameron non riuscì a reggersi in piedi e cadde per terra, a suoi piedi, in quell’angusto, piccolo spazio. “L’avete uccisa voi mia figlia!- urlò l’uomo.- lei aveva solo bisogno di me, di suo padre! Non di quelle medicine che le somministravate! Lei non era malata, voi volevate che lo fosse! Cercate morte e malattie in tutti i pazienti!”

“Non è vero.- Allison si stava rialzando.- ti ho anche mostrato le analisi, non ricordi? Quelle sono prove scientifiche, nessuno può..”

“Ti ho detto di tacere!”

Approfittando del fatto che lei fosse ancora quasi a terra, la colpì ma con un calcio. Un calcio che le centrò dritto lo stomaco.

Cameron accolse il colpo, sforzandosi di non gridare, premendo una mano sul busto e accasciandosi su un lato dal dolore. Quando riuscì di nuovo ad alzare gli occhi verso di lui, lo vide che puntava la sua pistola verso di lei.

Stava per parlare di nuovo ma boato accompagnato da un rumore sordo fece sobbalzare entrambi.

Proveniva da sotto di loro. L’ascensore iniziava a muoversi. William sgranò gli occhi, constatando che il mezzo si muoveva, lentamente, verso l’alto.

 

 

“Piano!- urlò Smith, al telefono, rivolto agli operai, di sotto.- ho detto di fare piano! Non se ne deve accorgere altrimenti la ucciderà immediatamente, è chiaro?”

“Oh mio Dio.” Mormorò Wilson, mettendosi una mano sugli occhi e appoggiandosi stancamente al muro.

L’aggancio per spingere l’ascensore verso l’alto era stato così forte che l’avevano avvertito anche loro.

Lisa si portò le mani tra i capelli, sospirando. Alzò lo sguardo, cercando disperatamente gli occhi di Wilson. Li trovò, tristi e desolati come i suoi. L’oncologo le prese la mano, dimenticandosi dei presenti e di quello che avrebbero potuto dire o pensare.. Lisa s’irrigidì iniaizlmente ma poi, sospirando, mandò al diavolo tutto e tutti e si concentrò su quel contatto e sul calore che emanava. Per contrasto, pensò ad House, al calore di cui avrebbe avuto bisogno lui. La scenata di prima poteva dire semplicemente una cosa.

Il pensiero che House si fosse innamorato di nuovo, dopo così tanto tempo e che la donna oggetto del suo amore forse non sarebbe sopravvissuta abbastanza per saperlo, le fece venire gli occhi lucidi.

Non era giusto… House aveva bisogno d’amore almeno quanto lei, eppure forse non ne avrebbe avuto mai. Pensando a James, si sentì quasi in colpa della felicità che la sera precedente aveva conquistato con lui.

Cercò lo sguardo di House, ma lui non era lì con loro. La sua mente era persa, nei meandri dei suoi pensieri e i suoi occhi, fissi sul pavimento.

 

 

Come aveva pensato Smith, l’accaduto aveva terrorizzato Higt. Adesso teneva la pistola tremando verso di lei,mentre prendeva consapevolezza che il tempo rimastogli era davvero poco.

Avrebbe voluto che la dottoressa morisse più lentamente, ma non aveva scelta.

Doveva ucciderla ora.

 

 

“Saranno arrivati al livello del secondo?” domandò Eric, nervosissimo. “quanto ci vuole ancora?”

Uno strano strepito d’assestamento segnalò il loro arrivo. “Eccoli.” Disse Smith dando il segnale ai suoi uomini di aprire le porte

Ma prima ancora che i presenti potessero anche solo  pensare qualcosa, il rumore sordo di uno colpo interruppe tutto.

Speranze, timori, pensieri.

Lisa sobbalzò sulla sedia e con lei tutte le infermiere pronte con la barella davanti alle porte già da diversi minuti.

House invece rimase impietrito, muto, sconvolto dalla consapevolezza che adesso era veramente tutto finito. Tutto finito. Anche il più ostinato barlume di speranza se n’era andato, schiacciato dalla cruda realtà dei fatti.

Un altro sparo. 

Silenzio.

Un altro ancora.

“Muovetevi!” urlò Smith, all’indirizzo degli operai. 

Un rumore più forte segnalò che le porte si erano disattivate, poi, con un raschio metallico, si aprirono.

Quello che videro superava la loro immaginazione. I loro presentimenti e i loro timori.

Videro William Higt, parzialmente disteso, appoggiato ai gomiti, con la gamba destra coperta di sangue e terribilmente dolorante. Era vivo, anche se ferito. Videro Allison Cameron, in ginocchio, davanti a lui. Si copriva il volto con la sinistra mentre nella destra luccicava il lucido nero di una pistola.

Era viva.

Questo fu il primo pensiero di tutti, dalle infermiere al detective, ad House stesso. La tensione si sciolse, tornarono i sorrisi, gli sguardi stupiti, i sospiri, di gioia questa volta, per quella tragedia fortunatamente solo sfiorata. Allison ce l’aveva fatta, non importava come, in un modo o nell’altro se l’aveva cavata, senza l’aiuto di nessuno, sola, aveva affrontato gli ultimi fantasmi del suo passato, vincendo contro quella pazzesca accusa e la follia di quell’uomo.

Era viva e sorrideva, adesso, al loro indirizzo. Si era alzata, anche se un po’ a fatica, e si era diretta verso di loro, con il viso lucido di lacrime di gioia ed era finita tra le braccia di Eric Foreman, il primo ad avvicinarsi a lei. Mentre era abbracciata al suo collega, sentì bene la mano di Lisa, accarezzarle i capelli in un gesto tanto dolce quanto inaspettato dal suo severo capo, poi toccò a Wilson che rideva di sollievo mentre la stringeva a sé.

House fu l’ultimo ad avvicinarsi, silenziosamente, la chiamò, sussurrando il suo nome.

Cameron si voltò verso di lui lentamente. Greg, davanti a lei, non aspettò che come al solito fosse Cameron a fare la prima mossa, questa volta le prese la vita e lasciando che il bastone cadesse a terra, la strinse a se più forte che poteva.

Lei lo strinse e tra le sue braccia finalmente scoppiò a piangere, singhiozzando come una bambina  uscita da un brutto sogno, sfogò su di lui tutta la sua angoscia, tutta la paura che aveva provato.

La mano di Greg si muoveva tra i suoi capelli cercando di confortarla, mentre nel corridoio si era ormai aperto un via vai di gente rumorosa, chiassosa, le infermiere portavano Higt in terapia intensiva, i poliziotti esaminavano l’ascensore, tutti sembravano aver voglia di rompere quell’interminabile silenziosa angoscia di poco prima.

Il loro abbraccio, in quella confusione, restò quasi inosservato ed Allison si prese tutto il tempo che voleva, godendo di quel contatto con l’uomo che amava e che aveva temuto di non rivedere più. Poi, quando si fu calmata, si staccò lentamente da lui.

Non dissero nulla.

Si scambiarono solo un lunghissimo sguardo che voleva dire tante cose, troppe cose, che a parole non sarebbero mai riusciti a comunicarsi.

“Cameron.”

La voce di Chase interruppe quel momento. Allison si voltò verso di lui. Lo trovò davanti a lei, sconvolto dall’angoscia di quegli interminabili minuti. “Oh, Chase.” disse accogliendolo tra le sue braccia. L’intensivista la strinse a se con una gioia quasi maniacale. “Perdonami.”

Affondò il viso tra i suoi capelli, trattenendo le lacrime a stento, tracciando disegni strani con le dita sulla schiena della donna. Allison accolse il suo abbraccio senza dire nulla, appoggiando una mano sulla nuca del ragazzo, sussurrandogli. “Non è colpa tua.” e per Chase quelle parole furono come ambrosia.

Si staccarono lentamente, dopo diversi secondi. L’immunologa gli sorrise, dolcemente. “Ehi. È tutto finito.- disse, più a se stessa, che a lui.- tutto finito.”

Lui annuì, lentamente, poi ancora mortificato, si allontanò rapidamente da lei.

Cameron lo seguì con lo sguardo per qualche istante, poi sussurrò. “Greg..” voltandosi.

Ma dietro di lei, House non c’era più.

 

 

 

 

             

“Posso?”

Gli occhi blu di Lisa Cuddy si alzarono da quei noiosissimi documenti che stava consultando ormai da un paio d’ore abbondanti, senza riuscire a venirne a capo e li puntò verso Wilson che si affacciava alla porta del suo studio. “Ciao.” Disse, affettuosamente. “certo. Entra.”

James obbedì celermente, richiudendo la porta alle sue spalle. “Volevo sapere come va.”

Lisa chiuse definitivamente la cartellina e si concentrò sull’uomo che adesso si era seduto davanti a lei.

“Molto meglio. La polizia se n’è appena andata ma ha garantito una sorveglianza assoluta per quel pazzo maniacale, in terapia intensiva. Cameron gli ha fatto troppo poco. Una pallottola nel polpaccio è non è niente per quel folle.”

Wilson annuì. “Ancora non riesco a crederci che lei abbia sparato.”

Cuddy alzò le spalle. “L’ho detto sempre io che non è carina e gentile come sembrava.” Risero entrambi, sfogandosi in una risata davvero liberatoria.

“Comunque.- riprese James.-  quando ti ho chiesto come andava non mi riferivo a lei. Intendevo te.”

Lisa lo fissò intensamente e sorrise. “Sto bene. E lo devo tutto a te, James. Grazie.” La sua voce suonò dolce, affettuosa, gentile. Con un tono così vicino che a Jimmy scaldò il cuore.

L’oncologo sorrise, ricordando la precedente serata. Dopo averla portata a casa e averla fatta asciugare di tutta l’acqua che aveva preso, sotto la pioggia, aveva cucinato per lei e a tavola, avevano parlato, tanto. Lei si era finalmente aperta a lui, confidandogli tutti i suoi problemi, i suoi tentativi, finiti nel nulla, di diventare disperatamente madre, le sue ansie, le sue notti, sola.

E lui l’aveva ascoltata, semplicemente.

Alla fine avevano anche bevuto e forse un po’ troppo per la verità. Lisa gli era sembrata così fragile, così delicata, con gli occhi un po’ slavati dal trucco e il sorriso reso disinvolto dal buonissimo vino rosso. Tutti e due, un po’ brilli e più spigliati, si erano avvicinati, anche parecchio a volte e c’erano stati momenti in cui aveva dovuto fare forza su se stesso per non baciarla.

Non che non lo volesse.

Ma non poteva farlo, non in quelle condizioni. Baciare Lisa era qualcosa di troppo grande perché potesse essere sciupato e ridotto a conseguenza del vino.

Le prese la mano, con la stessa tenerezza con cui gliela aveva presa poco fa, in quei momenti d’angoscia. La mano di Lisa reggeva ancora la penna ma a quel contatto la stilografica cadde immediatamente e i suoi occhi blu furono subito in quelli castani ed affascinanti dell’oncologo.

Lui si sporse per baciarla, nonostante la posizione non fosse delle migliori, e lei, per facilitargli il compito, gli si fece incontro, appoggiandosi sulla grande scrivania d’ebano.

Le loro labbra si congiunsero a metà strada, in un bacio dolce ma appassionato che riassumeva e nello stesso tempo coronava tutte le emozioni che entrambi avevano iniziato a provare da un mese a questa parte, senza che nessuno dei due fosse in grado di avvicinarsi in maniera più concreta all’altro.

Fino alla sera precedente, almeno.

James le prese delicatamente il viso con la destra mentre si distanziavano lentamente, con piccoli baci. “Di niente.” sussurrò Wilson, ad un passo dalle sue labbra.

Lei si sorrise, facendo luccicare i suoi occhi blu.

“Mi aspetti quando finisci?” domandò lui, con un sorriso smagliante. “Un mio amico ha aperto un ristorante da pochissimo.. cucina messicana… come ti suona?”

Lei gli regalò un bacio a stampo. “Ho già l’acquolina in bocca.”

Wilson annuì e s’avviò alla porta, mise mano alla maniglia, l’aprì ma prima di varcarla si fermò, pensieroso. Si voltò, quasi avesse qualcosa da dirle. La fissò alcuni secondi poi, ricacciando indietro quel ‘ti amo’ che aveva premuto alle sue labbra. “A questa sera allora.” Disse sorridendo ed uscendo dallo studio, decidendo mentalmente che una confessione del genere sarebbe stata troppo prematura.

Lisa fissò la porta ancora per alcuni secondi. “Ti amo, James.” Sussurrò, chiedendosi se avrebbe mai avuto il coraggio di dirlo con lui presente.

Una telefonata improvvisa la fece quasi sobbalzare e la tirò a forza lontano dai suoi pensieri, trascinandola nel suo lavoro.

“Cuddy.” Alzò la cornetta e si rimise in carreggiata.

“oh, detective Smith. Sì, anch’io sono contenta che tutta questa situazione si sia risolta nel migliore dei modi..” iniziò, dopo essersi accuratamente asciugata una lacrima che aveva osato scalfire il suo autocontrollo e scivolarle giù, lungo la guancia.

Lacrime di gioia, questa volta.

 

 

 

William Higt stava adesso lungo, nel lettino di terapia intensiva, con la gamba rotta ed ingessata, a causa del colpo sparato dalla giovane dottoressa. Sorridendo tra sé, pensò che non avrebbe mai immaginato una cosa simile. Allison era davanti a lui e lui la puntava con la pistola. Un nuovo sobbalzo aveva fatto improvvisamente perdere loro l’equilibrio ed erano caduta a terra  e lui, idiota, si era lasciato sfuggire la pistola dalle mani. 

 

La pistola era lì, davanti a lei. Con uno scatto la prese e la puntò contro di lui, tremando d’eccitazione e di terrore. Higt aveva cercato d’avvicinarsi ma lei gli aveva caparbiamente puntato contro l’arma. “Fermo.”

“Che cosa vuoi fare dottoressa? Vuoi completare l’opera ed uccidere anche me? O forse vuoi ucciderti da te, soffocata dai tuoi sensi di colpa?”

Gli occhi di Cameron si erano riempiti di lacrime. “Tu non muoverti e non t’accadrà nulla.” Ma la sua voce vibrava, instabile. Non aveva mai tenuto in mano una pistola prima d’ora e il potere che si percepiva nel tenere quell’oggetto in mano era immenso e terrificante.

William l’aveva voluta sfidare, aveva cercato d’avvicinarsi così lei aveva sparato. Ma non su di lui. Aveva sparato alla parete e ben due volte.

“Hai paura di uccidermi, vero?- aveva commentato l’uomo.- ammazzare con le medicine è molto più facile che con una pistola in mano.”

Cameron non voleva sparargli. Ma una rabbia dentro di lei la spinse a premere il grilletto a quelle parole, mirando al polpaccio dell’uomo.

 

Un rumore di tacchi interruppero i pensieri di Higt.

Questi volse lo sguardo verso l’entrata della camera, da dove sentì la guardia parlare con una donna. La  porta si aprì un attimo dopo e Cameron entrò nella stanza.

“Non posso crederci.- grugnì l’uomo.- tu qui?”

Allison piegò la testa di lato. Stava meglio adesso, si era medicata, cambiata, riposata, aveva mangiato qualcosa. Era tornata se stessa, in qualche modo. “Sei un paziente.- disse, con voce fredda.- anche se per poco. Presto andrai in prigione per duplice e tentato omicidio.”

L’uomo scoppiò a ridere. “ E sei venuta a dirmi addio?”

“Non lo so perché sono venuta.” Confessò, abbassando lievemente lo sguardo. “Forse per guardare in faccia l’uomo che voleva uccidermi, guardarlo negli occhi, per un istante. Perché non riesco ancora a credere a tutta questa follia.” La voce gli tremò alla fine.

William distolse lo sguardo. “Io non andrò in prigione.- prima che Allison potesse chiedergli spiegazioni l’uomo continuò.- sto per raggiungere mia figlia. Andrò da lei.” disse, sospirando alla fine. “in qualche modo farò. Non posso più vivere adesso.”

Cameron incurvò le sopracciglia. “Perché mi dici queste cose.”

“Perché so che non le riferirai alla guardia che mi sorveglia.- disse, fissandola negli occhi.- Perché so che anche tu una volta nella vita hai desiderato seguire la persona che amavi nella morte, piuttosto che continuare a vivere.” Quelle parole lasciarono Cameron completamente spiazzata.

Lui continuò. “ Ma adesso è ora di andare. Io a morire, voi a vivere. Chi di noi vada verso una situazione migliore è oscuro a tutti tranne che al dio.” Sorrise. “Conosce Platone, dottoressa? Chrystal lo adorava.”

Allison lo ascoltò, in silenzio. “Sì.- sussurrò.- conosco Platone.” Non seppe cos’altro dire. Quell’uomo, quell’assassino, quel disperato, le aveva appena confidato che si sarebbe ucciso. Infondo capiva la sua sofferenza, capiva la sua pazzia, capiva il suo stato d’animo, capiva il suo odio. Anche lei aveva odiato il mondo, i medici, aveva odiato anche il suo marito per tutto l’amore che non avrebbe potuto darle più, e aveva odiato se stessa, per tutto l’amore che forse non era stata in grado di dargli mai.

Higt aveva ragione. Non l’avrebbe detto alla guardia.

Non sapeva bene il motivo.

Forse perché voleva che Higt morisse, come erano morti Park e Law. Forse voleva semplicemente vederlo morto, anche se andava contro tutti i suoi principi. 

“Addio.” Disse quindi girando le spalle ed uscendo finalmente da quella stanza, promettendosi di lasciarsi alle spalle quel folle e tutta quell’assurda situazione con la stessa facilità con cui richiudeva, dietro di sé, quella porta.

Trovò House lì fuori.

L’aspettava appoggiato con le spalle al muro e le braccia incrociate, mentre giocherellava con il bastone.

Sorrideva, con lo stesso enigmatico sorriso quando ha appena sciolto un enigma. “Hai sconvolto tutti.- esordì.- persino un uomo d’armi come Foreman.”

“Anch’io odio essere prevedibile.” Rispose lei incamminandosi verso di lui. “te l’ho sempre detto che ci sono moltissime cose di me che non sai.”

Lui sorrise. “Non così tante. Sapevo che eri qui ad esempio. Nonostante la tua piccola parentesi criminale, sei la crocerossina di sempre. Mi sono chiesto: Dove può stare una crocerossina, se non al capezzale del suo assassino?” domandò retoricamente. “ ed infatti eccoti. Il fatto che tu sia qui smentisce ogni tua replica.”

Lei si avvicinò finalmente a lui, fissandolo negli occhi.

“Anche il fatto che tu sia qui a cercarmi, smentisce ogni tua replica.” Era un tono sussurrato, esitante ma preciso e ben chiaro. “Dottor House- continuò, sorridendo maliziosamente.- non credere di essere l’unico a saper usare la logica, qui.”

Concluse, poi gli girò le spalle e fece per andarsene quando la sua voce la bloccò, a metà corridoio. “Che ci facevi da lui?”  Lui l’osservò abbassare il capo, silenziosamente.

“E tu dov’eri?- lei evitò la domanda, quasi risentita.- sei scomparso prima.”

House non rispose niente e, anzi, si rallegrò del fatto che lei fosse ancora di spalle perché  non avrebbe retto il suo sguardo. Che cosa poteva risponderle? Che a vederla tra le braccia di Chase si era innervosito così tanto che avrebbe volentieri risposto al pugno dell’inglesino?

Che per tutto il tempo in cui lei era stata chiusa nell’ascensore aveva avuto il terrore, e dico terrore, di perderla, così quando tutto era finito si era sentito così stordito che aveva bisogno di un po’ d’aria?

Che si era sentito così in colpa che non era riuscito nemmeno a guardarla in faccia all’inizio?

Non finì nemmeno quei pensieri che, alzato lo sguardo, si trovò davanti Cameron persona, in tutta la sua persona. Lo fissava, con occhi quasi supplici. “Non so perché sono andata da lui.”

Erano quasi le dieci e trenta di sera adesso.

Quel corridoio era buio e silenzioso e la voce della ragazza risuonò tra le pareti. 

House la fissò, senza dire nulla. Lei continuò. “Mi ha detto che si ucciderà.”

“Mi sfugge un passaggio.- borbottò lui.- mi dovrei dispiacere?.. o TI dovresti dispiacere?”

Lei negò dolcemente con il capo. “Non è questo il punto. Pensavo alla morte. Per sua figlia ha ucciso due persone..  Mi chiedevo se la rivedrà mai.” Sussurrò quindi.

House abbassò lo sguardo. “No.- rispose.- non rivedrà proprio nessuno. la morte è un capolinea, Cameron. Non c’è niente dopo. Niente.”

“Già- rispose lei, dolcemente.- eppure la morte fa paura. Non di per sé.. la morte di per se stessa è così semplice, così banale. Così facile a volte. molti in certe situazioni preferiscono morire piuttosto che lottare e affrontare la realtà. Eppure fa paura.” Si avvicinò a lui, pericolosamente, senza interrompere il contatto visivo.

“Fa paura perché proprio quando sei ad un passo dalla morte capisci tutto. Ti vengono in mente tutti i tuoi rimorsi, i tuoi desideri più segreti.. quello che avresti voluto fare, quello che vuoi e non puoi più. Perché non ne hai più il tempo.”

Ad House quelle parole fecero venire quel pazzo che gli aveva sparato, e il suo sogno, subito dopo, prima della ketamina. Riaffiorarono quelle immagini senza senso in cui aveva sentito fortissimo, dentro di sé, il desiderio di avere Cameron, di fare l’amore con lei, anche se attraverso un robot.

“Fa paura.- continuò l’immunologa.- perché dedichi gli ultimi attimi alla persona che ami.- la voce le tremò adesso in maniera quasi irreversibile.- e il pensiero che non la vedrai più ti fa impazzire… questa è la morte vera.”

I suoi occhi pieni di lacrime non smisero di fissarlo, intrepidi ed quasi arrabbiati. “Una volta ti ho chiesto che cosa hai pensato quando credevi di morire, House.- sussurrò.- non vuoi sapere quello che ho pensato io?”

“Io non ho risposto”

“Lo so.”

“Tu lo faresti?”

La ragazza sospirò,dolcemente. “Sì.” Disse, tra i denti.

I passi di un’infermiera interruppero tutto.

Cameron abbassò lo sguardo, House distolse il proprio mentre l’anziana donna passava di lì, con un piccolo carrello, osservandoli, incuriosita.

House sospirò, infastidito e con una smorfia le voltò le spalle, proseguendo a camminare lungo il corridoio. Allison rimase interdetta. Non sapeva se quel gesto voleva dirle qualcosa. Per un attimo fantasticò sulla possibilità che lui le avesse lanciato davvero un segnale, magari le aveva chiesto di seguirlo.

Lo fissò, per qualche istante, indecisa sul dafarsi.. poi tornò realisticamente con i piedi per terra.. non c’era nessun segno, nessun segnale.

Basta Cameron.

Basta sognare.

Gli regalò un ultimo fugace sguardo poi si voltò e proseguì nella parte opposta.

 

 

 

 

Pioveva.

Pioveva ininterrottamente da ore ormai ma tutto l’acquazzone che aveva imperversato fino a quasi mezzanotte non aveva spento il suo desiderio di staccare un po’ la spina, di far andare il cervello con un bel giro in moto.

Adesso erano quasi mezzanotte e trenta e ritornava a casa, fradicio ma più rilassato e, soprattutto, con le idee molto più chiare di prima.

Cameron era un capitolo chiuso. Basta, ormai aveva deciso. Era stato a letto insieme a lei, si era tolto il chiodo fisso, adesso stop.

L’ansia prima di riabbracciarla? Semplice e stupida apprensione per una collega.

La gelosia? Una conseguenza dello choc emotivo causato dai motivi precedentemente elencati. Ecco fatto.

Aveva razionalizzato tutti i suoi sentimenti, catalogato le sue emozioni per causa ed effetto, espresso tutto in termini rigorosi e scientifici. Non usciva fuori nulla di insensato, nulla di stranamente sdolcinato.

E la sua vita poteva proseguire, finalmente. Tutto sarebbe tornato nella più assoluta normalità e anche queste sciocche emozioni causate forse anche da un uso eccessivo di Vicodin negli ultimi tempi –si era ripromesso di dare una buona occhiata al foglietto con le controindicazioni- sarebbero passate.

Atarassia.

Apatia.

Sorrideva tra sé mentre parcheggiava,confortato dalla sua razionalità, sotto un cielo ancora piovigginoso ma molto più calmo e si toglieva il casco, storcendo appena la bocca per il leggero fastidio che gli causavano i jeans bagnati e il giubbetto di pelle fradicio. Tuttavia quel fastidio non durò molto perché la sua attenzione venne immediatamente attratta da un taxi che parcheggiava in seconda fila, proprio lì acanto a lui.

Non ci fece quasi caso all’inizio, almeno finché non collegò l’auto alla giovane figura che usciva dal suo condominio, con un borsone a tracolla e camminava speditamente verso quell’auto bianca.

Sentì il cuore fermarsi per un istante.

Cameron.

Prima che la sua ragione potesse formulare qualche scusa logicamente corretta e portarlo al silenzio, il suo cuore, più veloce, lo spinse a chiamarla.

Lei si bloccò, sentendo il suo nome.

Si voltò verso di lui, ad appena pochi passi.  Rimase quasi senza parole all’inizio, ma poi la sua razionalità ebbe molto più tempo per riflettere e rimettere a posto le idee. “Io vado.- disse quindi.- grazie per l’ospitalità.”

Le menti di entrambi corsero ad un evento.

Quell’evento.

“Smith mi ha fatto sistemare l’appartamento.- continuò lei.- e dato che Higt è in prigione o già nell’al di là o dove diavolo gli pare, per me non c’è più alcun pericolo. E non c’è nemmeno ragione che continui a stare da te.”

Lui deglutì, lentamente.

Il tassista si sporse dal finestrino, un po’ infastidito per la pioggia e per quell’attesa. “Ah signorì, ce la damo ‘na mossa? Io non sto tutto il tempo appresso a voi, eh!”

Lei si voltò verso l’uomo. “Sì, mi scusi..” fece per andare ma di nuovo qualcosa la bloccò.

E questa volta fu la mano di House, attorno al suo braccio.

Incredula si voltò verso di lui. “ Che fai?” gli chiese.

Il diagnosta non trovò tempo di rispondere qualcosa di sensato. Quell’odiosissimo impulso che l’aveva portato a fare tante, troppe stupidaggini in questi giorni premeva ancora sulle soglie della sua mente. E non riusciva a spiegarselo adesso.

“A che cosa hai pensato?” Lei sgranò i suoi bei occhi verdi e le sue labbra si aprirono in un moto di stupore. Non disse niente, non trovò niente da dire. Impaurita che anche il più piccolo suono sbagliato avrebbe rovinato tutto preferì osservarlo, in silenzio.

“A che cosa hai pensato quando stavi per morire, Cameron?”

La stretta intorno al suo braccio si trasformò in una lenta carezza che la condusse ad avvicinarsi ancora di più al suo interlocutore.

Lei fissò le sue labbra, quindi lui. “A te.- gli confidò semplicemente.- ho pensato a te, Greg. A quante ne abbiamo passate a tutto quello che ci siamo detti ieri. A tutto il male che ci siamo fatti.” Fece una piccola pausa. “e tu che cosa hai pensato mentre io stavo per morire?”

House sorrise, appena, distogliendo lo sguardo.

“A niente.” disse quindi. Cameron trattenne il respiro, incredula. House continuò, lentamente. “Non riuscivo a pensare a niente. L’unica cosa che sentivo è che se tu fossi morta in qualche modo sarebbe morta anche la parte migliore di me.”

Per Allison quelle parole furono come ambrosia. Sentì le lacrime premerle sulle soglie dei suoi occhi in maniera orrenda, tentò di ricacciarle indietro ma con poco successo. “Io..”

“Posa quel borsone.” Continuò lui. “Steve Mc Queen mi ha confidato di essersi affezionato a te, non gli dispiacerebbe se rimanessi con lui.”

Lei sorrise con il viso bagnato un po’ dalla pioggia e un po’ dalle lacrime. “Stai dicendo sul serio?”

“No. Mi sto divertendo a sparare cazzate, sotto la pioggia, con un vento che soffia a venti nodi e tre gradi centigradi.”

“House io non sto scherzando.- ma il suo tono era allegro come quello di una bambina.- io ..”

“Cameron non farmi pentire d’averti assunta. Che cosa significa la frase: resta a vivere con me, se non che devi restare a vivere con me?”

Lei non rispose nulla soltanto gli buttò le braccia al collo e lo baciò con tutta la felicità che sentiva, con tutto il trasporto, la passione, l’amore che aveva in corpo..

Le loro labbra si congiunsero in un dolcissimo bacio, unendosi e fregandosene dell’autista che continuava a protestare, godendosi di quel piccolo momento, finché, piantato lì il tassista, non tornarono a casa di lui e lì vissero di nuovo il loro piccolo iperuranio, questa volta senza dubbi, senza false speranze o senza rancori di nessun tipo.

Si amarono semplicemente con la nuova e bellissima consapevolezza che non si può liquidare l’amore, come spesso avevano pensato Cameron ed House e come spesso capita a noi di fare.

Possiamo soffocarlo, ma non ignorarlo; così come possiamo ingannare gli altri ma non noi stessi, allo stesso modo l’amore riemerge, quando meno te l’aspetti, e chiede il conto di tutte le volte che l’avevamo respinto che l’avevamo accantonato a favore della nostra razionalità.

E lì, tra le sue braccia, Cameron capì che l’amore premia.

Premia le sofferenze, premia le lacrime gettate nelle notti insonni, abbracciati al cuscino a pensare, stringendo le lenzuola tra le dita, mordendosi le labbra con i denti per soffocare i singhiozzi. Premia nonostante tutte le volte che l’aveva maledetto, tutte le volte che l’aveva odiato.

L’amore dà forza. 

E lo stesso House, anche se forse non l’avrebbe mai ammesso, per una volta aveva trovato qualcosa di molto più forte e duraturo della propria razionalità, della sua intelligenza, del suo sapere, qualcosa che sapeva non l’avrebbe mai tradito, che ci sarebbe stato. 

L’amore per Cameron.

Si ritrovarono questa volta sul suo grande letto matrimoniale, con la corsa ritmata di Steve come sottofondo assieme al battito assordante del cuore che rimbombava nel petto e nelle tempie.

Lei era ancora tra le sue braccia, calde e rassicuranti. Lo strinse più forte, chiudendo gli occhi. “Ho paura, Greg.” Gli confidò con una voce strana. “Tu?”

Lui le accarezzò la pelle sulle spalle, giocherellando con il punte arricciate dei suoi capelli.

“Sì. Ne ho..- continuò sospirando.- Allison sarà difficile. Io sono chiuso, introverso e credo di non essere capace d’amare.” Sospirò di nuovo. “non so se ti posso dare quello che meriti.”

Lei si sporse per guardarlo, rizzandosi su un gomito. “Mi dispiace devi applicarti di più.- disse, sorridendo.- non è facile spaventarmi.” Incurvò le labbra in un dolce sguardo. “ questa casa è accogliente,mi sono ambientata e .. sai che ti dico? Credo di piacere anche a Steve Mc Queen.”

“Come anche ?- rilanciò lui.- è per lui che sei qui. Te l’ho detto che sto cercando una compagna per farlo riprodurre?”

Lei gli regalò un piccolo pugno sulla spalla e poi un altro piccolo colpo con il cuscino. Nella piccola ribellione che nacque a vincere fu di nuovo lui, Greg, che l’immobilizzò sotto di lui, tra le risa generali.

“è troppo tardi Greg.- sussurrò Allison, sensualmente.- ormai non ti sarà facile liberarti di me.”

Le parole di Allison suonarono esattamente come la giovane voleva che facessero: come una dolcissima minaccia al sapore di ambrosia. Greg le coprì le labbra con un bacio, domandandosi di nuovo come potesse sentirsi così coinvolto da lei e contemporaneamente sentire una parte di sé che non accettava quell’irrazionalità e che forse non l’avrebbe fatto mai.

Lei non era la donna adatta a lui, lei era un’infinità di cose e lui un’infinità di altre.

Eppure, contro ogni logica, l’amava davvero.

 

 

 

<< Odi et Amo. Quare id faciam, fortasse requiris.

Nescio, sed fieri sentio et excurcior. >>

Carme LXXXV.  Catullo.

 

 

[Ti odio e ti desidero. Forse chiederai come sia possibile; non lo so, eppure mi rendo conto che ciò si verifica e mi tormento. ]

(forse sarebbe più corretto tradurre excurcior con ‘sono in croce’ ma mi sembrava un po’ cacofonico)

 

 

FINE

 

Diomache.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  
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