Anime & Manga > Il mistero della pietra azzurra
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Autore: Puglio    05/10/2012    2 recensioni
Il capitolo finale del mio seguito di "Nadia: il mistero della pietra azzurra". Nadia è partita alla volta di Atlantide. Jean, in un ultimo disperato tentativo di ritrovarla, decide di rivolgersi all'unica persona che conosce abbastanza la cultura di Atlantide per aiutarlo... ma non è un'impresa facile. Ora è solo, e non può fare affidamento che sulle sue forze. Intanto, Winston scopre che la sua missione si fa sempre più complicata...
Genere: Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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La notte aveva lasciato spazio a un nuovo giorno, e il giorno a una nuova notte. Jean alzò gli occhi sugli ultimi bagliori di porpora che il sole lanciava all'orizzonte: ancora pochi istanti e il buio, che già incalzava alle sue spalle, sarebbe disceso su ogni cosa, avvolgendo il mondo nel suo velo denso e uniforme.

Esausto, si appoggiò a una roccia, che si ergeva come uno scoglio solitario in un mare di sabbia e detriti. Era tutto il giorno che camminava, da quando aveva incontrato quel ragazzino e il suo compagno nei pressi di quelle immense grate, che si aprivano come misteriose bocche nel deserto. Aveva vagato per ore, alla disperata ricerca di quella città che, se non aveva frainteso del tutto le spiegazioni del ragazzo, avrebbe dovuto trovarsi da qualche parte, verso sud. Ma per quanto avesse camminato, e per quanto si fosse sforzato di mantenere la giusta direzione, di città, Jean, non ne aveva vista nemmeno l'ombra.

Forse aveva davvero capito male, e quel ragazzo non aveva mai parlato di una città. Era più che plausibile: di tutto quello che il ragazzo gli aveva detto, Jean era riuscito a capire chiaramente solo una parola. Forse l'aveva semplicemente immaginato, spinto dal desiderio di trovare finalmente una via di scampo da quel maledetto deserto.

Oppure, molto più semplicemente, quel ragazzino si era preso gioco di lui.

No, questo non può essere.

Jean strinse la fune della tanica che portava a tracolla. Era qualcosa di reale, come l'acqua che aveva continuato a bere a piccolissimi sorsi per tutta la giornata. Se quel ragazzo gli aveva donato qualcosa di così prezioso, per quale ragione avrebbe poi dovuto ingannarlo? Non aveva alcun senso. Quella città esisteva, doveva esistere: si trattava solo di continuarla a cercare, e di avere la forza per farlo.

Jean sfruttò l'ultima luce del sole per osservare meglio il paesaggio. Chilometri di sabbia e rocce, in un susseguirsi di dune e muraglioni di pietra, tutti uguali tra loro. Nessun sentiero, nessuna traccia da seguire. Anche con una cartina alla mano, evitare di perdersi in un luogo come quello sarebbe stato quasi impossibile.

Individuò un pianoro, poco più in basso, circondato da alcuni spuntoni di roccia bruna che si levavano dritti verso il cielo, rigidi e silenziosi come la cresta di un drago sepolto. Accesi dalla luce obliqua del sole, conferivano a quel luogo desolato un aspetto quasi lunare. Per quanto non fossero altissimi, sembravano comunque adatti a fornire un riparo dal gelido vento che di notte spazzava violentemente le dune.

Jean immaginò che difficilmente avrebbe trovato qualcosa di meglio. Se non voleva farsi sorprendere dalla notte nel bel mezzo del nulla, avrebbe fatto bene ad accontentarsi.

Comunque, anche volendo non ce l'avrebbe fatta a continuare. Era sfinito. I muscoli, ormai allo stremo per il caldo e la fatica sopportati durante il giorno, non rispondevano più ai suoi comandi. Ogni movimento gli costava una fatica immane: persino alzare un braccio, gli strappava dal volto una smorfia sofferta. Era davvero arrivato il momento di riposarsi.

Jean si decise a scendere. Aveva appena mosso un passo, però, che i piedi gli sdrucciolarono. A causa del buio non si era accorto che il fondo era ricoperto di ciottoli levigati e sottili, quasi fossero stati modellati da un intenso calore, o dal vento insistente. Cercò di riacquistare l'equilibrio, ma il terreno sotto i suoi piedi continuava a franare, trascinandolo sempre più giù. Alla fine, Jean si abbandonò all'inevitabile: ruzzolò a terra, scivolando per qualche metro prima di riuscire a fermarsi. Quando finalmente ritrovò la stabilità, si risollevò lentamente, mettendosi a sedere.

In qualche modo, era comunque riuscito a scendere.

Si tastò in giro. Fortunatamente, aveva rimediato solo una sbucciatura alle braccia e qualche graffio al volto. Sarebbe potuta andare molto peggio, per esempio si sarebbe potuto rompere una gamba, o slogarsi una caviglia. Il che, nelle sue condizioni, avrebbe significato una morte certa.

Era stato fortunato, ma i suoi problemi, comunque, erano solo all'inizio. Ce n'era uno, soprattutto, che lo preoccupava. E cioè che gli si prospettava una notte gelida, senza che lui avesse nulla con cui coprirsi.

Era stato uno stupido, a camminare fino all'ultimo. Avrebbe dovuto cercare un riparo molto prima, e attendere la notte senza continuare a vagare inutilmente sotto il sole. Almeno, non si sarebbe trovato ad affrontare il gelo con i vestiti completamente fradici di sudore. Se solo avesse potuto accendere un fuoco...

Jean avvertì la sete farsi pungente, quindi si sfilò dalle spalle la tanica che il ragazzino gli aveva donato. La soppesò. Era quasi vuota e questo rappresentava un altro problema. Aveva razionato il contenuto in parti uguali, limitandosi a bere a intervalli regolari lungo l'intero arco della giornata; e questo nonostante la sete terribile che gli aveva seccato la gola. Ora gli restavano non più di tre sorsate. Quattro, se avesse provato a tener duro ancora per un po'. Ma era difficile che il suo corpo esausto, affamato di acqua e di cibo, riuscisse a trattenersi.

Jean stappò la tanica. Al suo interno, l'acqua emanava un disgustoso odore stagnante, ma in quel momento gli sembrava quanto di più buono ci fosse al mondo. Ne bevve un sorso, quindi si sforzò di staccare le labbra. Per qualche istante, il senso di rassegnazione che l'aveva accompagnato per tutto il giorno tornò a pungerlo, spingendolo a desiderare di finire in una volta sola tutta l'acqua che ancora gli restava, e placare così l'arsura che lo divorava. Perché soffrire la sete, se risparmiare sull'acqua non gli sarebbe servito comunque a nulla? In fondo, il suo non era che il vano tentativo di rimandare di qualche ora un inevitabile destino.

Jean scacciò quei pensieri negativi, tappando la tanica e rimettendosela a tracolla, senza più guardarla. Non aveva intenzione di arrendersi adesso, non dopo tutto quello che aveva fatto per arrivare fin lì. Invece di commiserarsi inutilmente, avrebbe fatto meglio a rimanere lucido, e a studiare per bene la sua situazione. Alzò gli occhi su quanto aveva intorno, per cercare di organizzarsi in vista della notte. Come temeva, non trovò nemmeno un arbusto, non un pezzo di legno secco. Non c'era nulla, lì vicino, che potesse servirgli, e niente che facesse pensare a una qualche forma di vita. Solo roccia e sabbia. E il cielo infinito, sopra di sé.

Ma davvero Nadia è venuta fin qui... solo per questo?

Jean rinunciò a capire. Era troppo stanco. Per quella notte ancora, avrebbe fatto in modo di resistere, come poteva. Fece per distendersi e prepararsi così a trascorrere le ore gelide che lo separavano dal mattino, quando in lontananza risuonò un grido improvviso. Fu un grido terribile, che squarciò la notte levandosi alto e stridente, come il suono di una lama che incida del ghiaccio. Pochi istanti dopo, a quel grido ne rispose un altro più vicino, e poi un altro ancora, che Jean udì risuonare alle sue spalle.

Non era nulla di buono.

Nervoso, prese a scrutare la notte densa attorno a sé. Di qualunque cosa si trattasse, l'impressione era che lo stessero lentamente accerchiando.

Cercò di mantenere la calma. Non doveva farsi prendere dal panico. Forse si stava preoccupando per niente.

O forse no.

Continuò a scrutare nel buio, finché non intravide una sagoma scura materializzarsi improvvisamente sulla sommità di una duna, dietro di sé. Due lampi argentei bucarono la notte, risplendendo fissi e vicini come due piccole e gelide stelle. Immobili, puntavano dritto verso di lui. Jean impallidì. A poca distanza, un altro di quegli esseri si stagliò nel buio, piantando su di lui i suoi occhi di brace.

Proprio come temeva. Era circondato.

Jean studiò le fattezze di quegli esseri. Non sembravano lupi, erano troppo grossi. E nemmeno iene. Non sapeva con esattezza di cosa si trattasse, ma l'aspetto di quelle bestie non era certo rassicurante.

Si guardò attorno, alla disperata ricerca di qualcosa con cui difendersi. Non aveva nulla, con sé, né un bastone, né un coltello. Una di quelle bestie prese a muoversi in cerchio, sulla cresta della duna, come se avesse intuito di trovarsi di fronte a una preda disarmata. Continuava a fissare Jean, quasi a volerlo ipnotizzare, mentre ondeggiava in modo sghembo sulle sue zampe smagrite. Jean restò immobile a fissarlo, senza reagire, come pietrificato dalla paura. Poi, di nuovo, un grido straziante risuonò nella notte, questa volta così forte e tagliente da incidere quasi la carne.

Per Jean fu sufficiente a riprendersi. Ritrovò la lucidità e le energie necessarie per pensare a qualcosa. A causa dell'ansia le idee gli si affollavano in testa, sovrapponendosi in modo indistinto una sull'altra; ma riusciva comunque a districarsi tra esse, mantenendo quel filo sottile, legato all'istinto, che sentiva affiorare dietro l'irrazionalità della paura.

Tentando di mantenere la calma, si sfilò la tanica e si mise in cerca di una pietra affilata, a punta. Mentre tastava a caso il suolo di sabbia e rocce, alzò gli occhi sul buio che aveva di fronte. Ormai non vedeva più nulla: la notte era quasi completamente scesa, intorno a lui, avvolgendo fittamente ogni cosa. Gli parve comunque di scorgere un'ombra che si agitava. Aguzzò gli occhi: sgomento, si rese conto che una di quelle bestie aveva cominciato a muoversi lenta verso di lui.

Jean ebbe un tuffo al cuore. L'attacco era cominciato. Non aveva un minuto da perdere.

Cercò disperatamente. Continuava a raccogliere e a scartare le pietre che trovava. Nessuna era simile a quella che stava cercando.

Avanti! Avanti, dannazione!

Cominciò a udire il rumore sordo della sabbia e delle pietre smosse dalle zampe pesanti di quegli animali. Jean trasalì. Quegli esseri dovevano essere enormi, molto più grossi di quanto avesse in un primo momento immaginato. Doveva assolutamente impedire che gli si avvicinassero troppo, o sarebbe stata la fine.

Finalmente, trovò quello che stava cercando. Una pietra lunga e appuntita, non troppo grossa e facile da tenere in mano. Jean la afferrò saldamente e lanciò un'ultima occhiata alle bestie che si stavano avvicinando. Erano ancora distanti, e sembravano avanzare con estrema cautela. Probabilmente, lo stavano ancora studiando.

Questo gli avrebbe dato un vantaggio, anche se forse sarebbe stato l'ultimo. Valeva comunque la pena tentare.

Jean passò la mano sulla tanica. Era realizzata in un materiale metallico simile all'alluminio, leggero ma resistente, facile da modellare. Senza pensare a cosa ne sarebbe stato di lui senz'acqua, Jean vuotò a terra il contenuto della tanica; quindi alzò la mano, e stringendo saldamente la pietra, l'abbatté con violenza contro il barilotto.

Ci fu un suono sordo. Ma, al di là di questo, non accadde nulla.

Mosso dalla disperazione, Jean ritentò. Stavolta, la pietra gli sfuggì e lui si ferì alla mano.

«Al diavolo!»

Le bestie erano sempre più vicine. Jean sentì che non avrebbe avuto altre occasioni. Era il momento: non poteva più permettersi di fallire.

Strinse forte la pietra, quindi la abbassò deciso sul barilotto. Stavolta, la superficie liscia della tanica cedette e la punta dura della pietra vi si conficcò, aprendovi un foro. Jean lo allargò e ripeté la stessa operazione più volte, in altri punti.

Le bestie erano ormai a poche decine di metri da lui, e ora riusciva a distinguerle bene. Erano tre, e l'avevano accerchiato. Simili a grossi cani, lanciavano un ringhio basso e sinistro, mentre avanzavano con le orecchie schiacciate all'indietro, i muscoli tesi. Jean si alzò lentamente in piedi. Infilò la pietra in tasca, deciso a tenerla come ultima difesa. Quindi strappò un'estremità della fune dal barilotto e la impugnò saldamente, facendosi forza nel raccogliere tutto il coraggio che ancora gli restava.

Non sapeva se avrebbe funzionato. Era stato l'istinto a guidarlo: tempo prima, aveva visto fare una cosa simile ad Atahualpa, per allontanare i serpenti. E lui ne aveva sfruttato l'idea.

Solo che, questa volta, non si trattava di scacciare dei semplici serpenti.

Jean cominciò a far roteare il barilotto, tenendolo per un'estremità della fune. In un primo momento non accadde nulla; poi, man mano che il barilotto acquistava velocità, l'aria che passava attraverso i fori sulla superficie cominciò a produrre un debole ronzio, sempre più forte una volta che questo accelerava. Jean strinse i denti, chiamando a raccolta le sue energie e cercando di far ruotare il barilotto il più velocemente possibile.

Con sollievo, vide gli animali fermarsi. Lo fissavano perplessi, o incuriositi; sembrava comunque che quel rumore improvviso fosse riuscito a bloccarli.

Jean sapeva che quella calma improvvisa non sarebbe durata per molto. Si guardò attorno, in cerca di una via di fuga. Cominciò a indietreggiare, lentamente. La bestia che aveva alle sue spalle si scostò, lanciando un ringhio basso e sinistro. Fissava Jean con attenzione, minacciosa, come se fosse pronta a balzargli addosso alla minima opportunità. Jean si fece coraggio, e continuò a indietreggiare. Era riuscito ad aprirsi un varco, ma dove sarebbe andato? Quegli animali erano affamati almeno quanto lui, se non di più. Sapevano bene che la loro preda non avrebbe potuto fuggire per sempre. E Jean sapeva bene che non avrebbe potuto continuare a mulinare per sempre quella tanica. Erano i suoi muscoli indolenziti a dirglielo.

Cominciò a muoversi all'indietro, a passi sempre più lunghi. Talvolta il ronzio che lanciava il barile si faceva più tenue; e allora quelle bestie riacquistavano coraggio e riprendevano ad avanzare. Jean represse un'imprecazione. Stava solo rimandando l'inevitabile.

Improvvisamente, il barile urtò contro qualcosa: lanciò un rumore sordo, un attimo prima di cadere a terra. Jean si voltò, smarrito. Era finito senza volerlo in un vicolo cieco. Alle sue spalle si innalzava una parete di roccia, non troppo alta, ma sufficiente a bloccare ogni sua via di fuga. Jean provò a risollevare il barile, ma le bestie avevano riacquistato coraggio e si erano ormai fatte molto vicine.

Non aveva più spazio. Non sapeva come fare a roteare il barile, e senza di esso non avrebbe avuto più alcuna speranza di uscire vivo da quella situazione.

Era la fine. Jean abbandonò le braccia lungo i fianchi, quindi lasciò andare la fune che ancora teneva in pugno. Il barile rimase a terra ai suoi piedi, inerte. Jean strinse la mano attorno alla pietra che portava in tasca, deciso a dare battaglia; quindi la estrasse, serrando i denti. Gli animali lo fissavano, bramosi. Cessarono improvvisamente di ringhiare, quasi fossero consapevoli che la lotta era finita. Avevano vinto, o quasi. Qualcuno di loro avrebbe forse riportato una leggera ferita, ma il pasto era assicurato, almeno per quella notte.

Jean tese i muscoli, spostando gli occhi da una all'altra delle tre bestie, chiedendosi quale di esse l'avrebbe attaccato per prima. Se voleva guadagnare tempo, pensò, non avrebbe dovuto aspettare che fossero loro a scagliarsi su di lui. Doveva attaccare per primo, e cercare di ferirne duramente almeno una. Poi...

Probabilmente, non ci sarebbe stato un poi. Ma, almeno, avrebbe venduto cara la pelle.

Una delle bestie scattò, bruciando Jean sul tempo. Preso alla sprovvista, il ragazzo indietreggiò istintivamente, rovinando a terra. Batté la testa contro la roccia dura dietro di sé e lo sguardo gli si annebbiò. Riuscì in qualche modo ad alzare la mano con cui stringeva la pietra, ma il dolore alla testa l'aveva completamente disorientato. Gli occhi gli si chiudevano, nonostante lottasse con forza per tenerli aperti. Stava già per abbandonarsi alla fine, quando la bestia che si era lanciata contro di lui deviò improvvisamente la sua traiettoria, finendo scaraventata contro la roccia. Lanciò un guaito, accucciandosi nel buio. Quindi, un'ombra si fece avanti torreggiante, frapponendosi tra il corpo di Jean e quegli animali. Lui udì un nitrito quasi selvaggio e uno scalpiccio pesante di zoccoli. Fu l'ultima cosa che vide, prima di cadere privo di sensi.

 

 

*

 

Da qualche parte giungeva una voce sommessa, simile a un mormorio. Si faceva strada lentamente, risuonando lieve come una morbida melodia, anche se piuttosto confusa. Ma era comunque molto dolce.

Jean aprì gli occhi. C'era qualcuno, accanto a lui. Si trattava di una ragazza, e stava davvero cantando tra sé, a bassa voce.

Quindi, pensò, sono ancora vivo.

Ricordava di aver riacquistato i sensi per qualche istante, e di aver vagamente udito la voce calda di qualcuno mormorare una canzone. Ricordava anche l'odore forte e il movimento ondeggiante di un cavallo, sotto di sé, prima di svenire di nuovo.

Una mano calda e sottile gli toccò delicatamente la fronte, scendendogli poi dolcemente lungo la guancia. Jean assaporò quel tocco delicato, chiudendo gli occhi e assaporando il refrigerio che lei gli procurava tamponandogli la fronte con un panno umido. Quando lui alzò gli occhi a guardare la ragazza, questa si irrigidì, ritraendo immediatamente la mano.

«Ti sei svegliato».

Jean sbatté le palpebre, lasciando che gli occhi la mettessero lentamente a fuoco. Non la vedeva bene, ma poteva comunque scorgere la sua pelle liscia e scura, gli occhi che brillavano al buio, ancor più accesi alla pallida luce che splendeva debole da un angolo remoto della stanza. Sospirò. I capelli che incorniciavano scuri quel suo volto dall'aspetto delicato, sfioravano il suo collo e il suo petto, solleticandolo. Quando la ragazza gli si avvicinò, chinandosi su di lui per scrutarne l'aspetto, Jean avvertì un dolce sentore di mandorla sprigionarsi dalle mani e dal corpo di lei, che lo avvolse completamente.

«Nadia?» mormorò. La ragazza non rispose. Si sollevò da lui e intinse di nuovo il panno in una bacinella. Lo strizzò, quindi glielo posò sulla fonte.

«Se sei Nadia, devo essere in paradiso» scherzò Jean, intuendo che non poteva trattarsi realmente di lei. Avrebbe dato qualsiasi cosa, perché fosse così. Ma non era così.

La ragazza lo fissava in silenzio, rivolgendogli uno sguardo enigmatico. Evidentemente, non capiva una parola di quanto lui le stesse dicendo. Jean si ammutolì, quindi si portò una mano alla nuca. Gli doleva ancora.

«Dove mi trovo?» mormorò. Si guardò attorno. Gli sembrava di essere in una specie di tenda, simile a quella di un circo. Era arredata con mobili semplici ma decorosi ed era decisamente spaziosa. Al suo interno c'era un dolce tepore, e aleggiava vagamente una fragranza fresca, floreale.

Incuriosito, Jean fece per alzarsi; ma la ragazza premette le mani aperte sul suo petto, costringendolo delicatamente a rimettersi supino. Fu solo allora che si rese conto di essere nudo. Abbassò gli occhi e vide che indosso aveva solo un panno di lino, a coprirgli le parti intime.

Lui guardò la ragazza, avvampando. Ora che la vista non era più annebbiata, riusciva a distinguerne chiaramente i contorni del volto e i lineamenti del corpo. Era una bella ragazza, di non più di quindici o sedici anni. Aveva la carnagione scura, proprio come quella di Nadia. Portava i capelli lunghi, che aveva raccolto frettolosamente sulla nuca e che ora le ricadevano sulle spalle in modo disordinato, ma che donavano al suo volto una nota fresca e spontanea. Jean notò che era davvero molto bella, nonostante il naso forse un po' troppo grosso e leggermente incurvato, che però conferiva al suo volto una certa personalità. Gli occhi, di un verde intenso e brillante, erano affusolati, ornati da lunghe ciglia scure e sormontati da sopracciglia arcuate e sottili, eleganti, quasi fossero dipinte.

Jean la fissò senza sapere cosa dire. Provò a pensare a qualcosa, ma quella semplice azione gli bastò a procurargli una dolorosa fitta alla testa.

«Dovresti riposare» la sentì dire. Aveva una voce pastosa, morbida. Sorrideva, pur mostrando verso di lui un certo imbarazzo.

Jean non capiva cosa gli avesse detto, anche se poteva intuirlo. Non voleva che si alzasse.

Non era un problema, visto che faceva fatica persino a muovere un muscolo. E poi, non poteva certo mettersi ad andare in giro senza vestiti.

In quel momento, qualcuno entrò nella tenda. Jean vide che si trattava di un uomo, piuttosto giovane, forse della sua stessa età. Entrò deciso, come se si trovasse a casa propria: quando si accorse che Jean era sveglio, si fermò improvvisamente, restandosene in piedi sulla soglia a fissarlo. Jean pensò che anche lui doveva sembrare molto affascinante: alto e dal fisico asciutto, aveva la carnagione ambrata come quella della ragazza, anche se forse ancora più scura. Gli occhi però erano diversi: neri e luminosi, molto profondi, ardevano come due astri incastonati tra gli zigomi alti e pronunciati. Una barba folta e ricciuta gli ornava elegantemente la mascella forte, conferendo al suo volto un aspetto ancor più giovanile ed energico. Portava i capelli raccolti in una treccia sottile, che gli girava attorno alla nuca.

«Si è svegliato» disse, spostando gli occhi da Jean alla ragazza. «Come sta?»

«Sembra piuttosto bene, anche se è presto per dirlo» disse lei, rivolgendosi all'uomo senza curarsi minimamente della presenza di Jean, lì con loro. Probabilmente, aveva intuito che non avrebbe mai potuto capire i loro discorsi.

«Ha detto qualcosa?» fece il giovane, avvicinandosi a Jean e chinandosi accanto a lui. La ragazza nicchiò.

«Solo un nome, mi sembra».

L'uomo aggrondò. «Un nome?»

«Non sono sicura, ma credo abbia detto ''Nadia''».

Il giovane fissò Jean.

«Potrebbe essere la sua compagna» suggerì lei, abbassando la voce improvvisamente. «Hai notato nessun altro, dove l'hai trovato?»

Il ragazzo scosse la testa, mesto. Quindi si chinò sul volto di Jean, sorridendo amabilmente.

«Come va?» chiese. Jean, vedendolo sorridere, immaginò che gli avesse chiesto della sua condizione. Annuì, ricambiando debolmente il sorriso.

«Sto bene» fece. «Grazie».

Il ragazzo aggrottò leggermente, mentre ascoltava quella lingua sconosciuta.

«Riposati» disse, posando a Jean una mano sul braccio. Era forte, e nodosa. «Qui sei al sicuro».

Jean si rilassò. Inutile tentare di comunicare, almeno per il momento. Era troppo stanco. Perciò, chiuse gli occhi e voltò la testa, abbandonandosi al sonno.

«Tienilo d'occhio» disse il giovane alla ragazza. «Se dovesse svegliarsi e dire qualcosa, chiamami subito. Per ogni evenienza, ti lascio qualcuno qui fuori».

«Va bene» fece lei. «Grazie, Kirda».

Lui le ammiccò, e si alzò in piedi. Si voltò un istante sulla soglia, a guardare prima Jean e poi la ragazza, che era ritornata ad accudirlo. Quindi, senza aggiungere una parola, uscì.

 

 

*

 

 

Il mattino seguente, Jean fu svegliato dalle grida allegre dei bambini e dal rumore sordo della folla, che si spingeva fin dentro la tenda.

Stava molto meglio. La testa gli doleva ancora, ma non aveva più grosse fitte. Si sollevò a sedere, guardandosi attorno: sembrava che la ragazza se ne fosse andata, lasciandolo lì da solo.

Lentamente, cercò di alzarsi in piedi. Era ancora senza vestiti, ma vide che qualcuno aveva lasciato degli abiti piegati ordinatamente, a fianco al suo giaciglio. Jean li prese e li spiegò, tenendoli tra le mani. Erano molto semplici, e probabilmente erano passati attraverso diverse mani, prima di finire tra le sue. Ma erano puliti e sembravano della sua misura: chi li aveva scelti, dimostrava di possedere un certo occhio per quelle cose.

Jean si slacciò il panno di lino che teneva avvolto attorno al bacino e fece per infilarsi i pantaloni. Aveva i muscoli ancora intorpiditi e faceva fatica a muoversi, perciò un piede gli si impigliò maldestramente nei calzoni, rischiando di fargli perdere l'equilibrio. Istintivamente, Jean lasciò andare i pantaloni, che caddero a terra lasciandolo completamente nudo.

In quel momento, la ragazza fece il suo ingresso nella tenda. Entrò sbadigliando, gli occhi chini, reggendo un secchiello d'acqua insieme a quelli che sembravano gli indumenti di lui, appena lavati. Quando alzò lo sguardo e si ritrovò davanti Jean, in piedi e senza alcun vestito addosso, la ragazza lanciò un grido soffocato e si lasciò sfuggire il secchio, che cadde ai suoi piedi rovesciandosi completamente. L'acqua si allargò velocemente in una pozza, che impregnò il duro fondo di terra battuta trasformandolo in fango, su cui finirono anche i vestiti di Jean, che la ragazza aveva lasciato inavvertitamente cadere.

«Oh, no!» fece lei, chinandosi a raccoglierli. Imbarazzato, Jean si affrettò a infilarsi i calzoni. Quindi corse ad aiutarla.

«Mi spiace» le disse. «Non immaginavo che...»

Era davvero dispiaciuto. L'aveva messa in imbarazzo, facendosi vedere da lei in quelle condizioni. Senza considerare che, a causa della sua goffaggine, le aveva fatto cadere un intero secchio colmo d'acqua. Non era difficile da immaginare che, in un luogo come quello, anche la minima goccia d'acqua non poteva essere sprecata.

La ragazza non rispose, limitandosi a scostare un ciuffo di capelli dal volto e a passarselo dietro l'orecchio. Aveva l'aria stanca e gli occhi arrossati, e sembrava piuttosto a disagio. Jean immaginò che non avesse dormito molto la notte precedente, e probabilmente a causa sua. E quello che era appena successo, non aveva certo migliorato le cose.

«Mi spiace averti dato tanto da fare» mormorò, chinando gli occhi «E anche per... il resto».

Lei gli piantò gli occhi in volto e li abbassò sui pantaloni ancora mezzo slacciati, seguendo lo sguardo di lui. Improvvisamente avvampò, sollevandosi in fretta e voltandogli le spalle.

«Mi dispiace davvero!» fece lui, trattenendola. Si sentiva stupido a non trovare il modo per farle capire la propria gratitudine per quanto lei aveva fatto, e quanto gli dispiacesse per quello che era appena successo. Ma lei sembrò intuire dal suo tono di voce che era realmente desolato. Si voltò a guardarlo, indugiando con gli occhi sui tratti del suo viso, e del suo corpo. Quindi arrossì, e distolse in fretta lo sguardo.

«Non... non fa niente» esalò. Strinse a sé i vestiti, allontanandosi di corsa. Jean la seguì fuori dalla tenda. Avrebbe voluto fermarla, ma lei era già lontana quando si voltò nuovamente per rivolgergli un'occhiata indecifrabile. Poi, stringendo al petto gli indumenti di lui, si volse e sparì, questa volta definitivamente.

Improvvisamente, Jean si rese conto che la gente gli lanciava occhiate strane, mormorando. Una ragazza che fugge dalla sua tenda in preda al panico, reggendo dei vestiti mentre viene inseguita da un uomo mezzo nudo, non era certo qualcosa che si vedeva tutti i giorni. Jean capì che sarebbe stato meglio per lui rientrare nella tenda al più presto, e uscire solo quando fosse completamente vestito.

Indossò gli ultimi abiti, quindi uscì. Una volta in strada, si guardò attorno, evitando con cura di incrociare gli sguardi curiosi dei passanti, che ancora lo scrutavano sorridendo divertiti. Sospirò. Sarebbe stata dura, per lui, farsi capire. Era grato a quelle persone per averlo salvato, ma era ancora nei guai. La sua situazione non sarebbe cambiata di molto, e incomprensioni come quella che si era appena verificata sarebbero state all'ordine del giorno, finché non avesse trovato un modo per comunicare con quanti lo circondavano. Ma al di là di tutto, superare quello scoglio era necessario, se davvero voleva ritrovare Nadia.

Ammesso che quel pianeta desolato fosse realmente il luogo in cui si trovava Nadia.

Per quanto ne sapeva, dopo il disastro dell'Exelion, la Merkaba che si era improvvisamente aperta e che aveva risucchiato lui, Sanson e Hanson, avrebbe potuto depositarli chissà dove nell'universo. Se, come credeva, la Merkaba non era altro che una specie di ''scorciatoia'' dimensionale, che permetteva agli Atlantidei di spostarsi nello spazio comprimendo il tempo fino all'inverosimile, allora non era che una porta potenzialmente spalancata sull'immensità del cielo. In poche parole, Jean avrebbe potuto trovarsi dovunque.

Non voleva nemmeno pensarci. L'idea di essere bloccato per sempre in un mondo di cui forse Nadia ignorava persino l'esistenza, con in più l'impossibilità di raggiungerla, era molto più che un incubo, era la disperazione. Jean non poteva rassegnarsi a credere che quello fosse il suo destino, il loro destino.

Avrebbe dovuto imparare la lingua. Era necessario. Una volta in grado di comunicare, avrebbe finalmente potuto chiedere informazioni sul pianeta su cui si trovava, e magari su Nadia stessa. Per fortuna, qualche parola di greco antico la ricordava ancora, merito di tutto il tempo passato a seguire Marie nei compiti a casa. Poteva cominciare da lì, e con metodo e costanza, avrebbe colmato le sue lacune.

Per prima cosa, però, avrebbe cercato di capire dove si trovava, e chi erano le persone che l'avevano salvato.

Jean lasciò la tenda, avventurandosi tra i sentieri di ciottoli e terra battuta che si dipanavano in quello che sembrava un vero e proprio accampamento nomade. Vi erano numerose tende, simili a quella in cui era stato accolto e curato, e tutte davano l'idea di essere ben organizzate e disposte secondo un criterio razionale. Lo spazio tra di esse era sufficiente a far scorrere il traffico di pedoni e di animali, carri e merci. A Jean sembrò quasi di trovarsi immerso in quei rioni che era possibile trovare negli angoli più bui e vecchi di Le Havre, vicino alla zona del porto dove si recava da bambino, insieme a suo padre; luoghi dove, proprio come in quel villaggio, gli acciottolati stretti tra ripidi muraglioni di case erano percorsi da bambini che si rincorrevano urlando, da anziani che si fermavano a parlottare tra loro sulla soglia di casa e che reagivano al passaggio dei ragazzini rimbrottandoli, mentre nascondevano un sorriso con aria di malcelata condiscendenza. Vide carriole, donne che portavano sulla testa ceste ripiene di indumenti, uomini carichi di assi di legno o di ceste di pietre che gli passavano davanti fissandolo incuriositi, prima di proseguire per la loro strada curvi sotto il loro peso.

Jean notò alcuni uomini a bordo di un carro, che gli passò accanto trainato da un animale simile a un grosso dromedario peloso. Questi lo salutarono allegramente e uno di loro gli ammiccò, indicando il carro vuoto, dietro di sé, quasi volesse invitarlo a salire. Jean approfittò dell'occasione, e aggrappandosi saldamente alle sponde, si issò saltando al volo sul fondo del carro. Gli uomini risero e lo accolsero come fosse stato uno di loro, indirizzandogli qualche battuta prima di ritornare ai loro discorsi. Jean prese posto tra le sporte vuote e umide che erano state accatastate sul fondo. Emanavano un odore caratteristico, di salsedine. Jean si avvicinò. Passò il dito sul bordo di una di esse e raccolse con il polpastrello una pasta rosea e grumosa. La avvicinò al naso, quindi la sfiorò con la punta della lingua.

Non si era sbagliato, era sale. Ma era molto amaro, di pessima qualità.

Il carro svoltò, per poi cominciare una lunga discesa, non troppo ripida. Jean si sporse e vide che sotto di loro si apriva un immenso bacino, forse un lago salato, o addirittura un golfo. C'erano numerosi uomini al lavoro sulla riva, evidentemente impegnati nella raccolta del sale.

Il carro si fermò subito dopo la discesa e gli uomini smontarono uno ad uno. Jean fece altrettanto, ringraziandoli con un gesto per il passaggio. Loro lo salutarono, caricandosi sulle spalle le sporte vuote. Jean si mise a osservare con curiosità il luogo in cui era arrivato: lì sulla riva, l'odore dell'acqua stagnante era fortissimo, misto a quello pungente del sale appena raccolto. La gente al lavoro era tantissima: con molta probabilità, quelle persone vivevano del sale che riuscivano a raccogliere, ma non disponevano di una tecnologia adeguata a svolgere quel lavoro al meglio. Senza le tecniche giuste e strumenti meccanici adeguati, il sale non poteva essere raffinato, e si riusciva a produrre solo quel sale estremamente cattivo che aveva assaggiato poco prima. Jean immaginò che non riuscissero a ricavarci granché, al momento della vendita.

Qualcuno lanciò un grido. Jean si voltò. Poco lontano da dove si trovava, vide l'uomo che era entrato nella sua tenda, la notte precedente. Lo stava salutando, rivolgendogli un cenno con il braccio. Era in piedi accanto ad altre tre persone, su un alto pontile sopra il quale veniva accatastato il sale raccolto, perché asciugasse al sole. Teneva dei fogli in mano, e sembrava distribuire ordini, mentre gesticolava animatamente. Jean lo vide discutere in modo deciso con quegli uomini, come se fosse il loro superiore; quindi, dopo aver riconsegnato loro i documenti, li congedò, dirigendosi verso di lui con un ampio sorriso sul volto abbronzato.

«Ben sveglio» fece, tendendogli la mano. «Ti trovo bene».

Jean non capì nulla, ma sorrise comunque, rispondendo alla sua stretta. L'uomo piegò le labbra in un'espressione rammaricata. Probabilmente, era dispiaciuto del fatto di non riuscire a comunicare, almeno quanto Jean stesso.

«Kirda» disse portandosi una mano al petto. Jean annuì.

«Jean» rispose. L'uomo inarcò un sopracciglio.

«Yo-abn

Jean rise. «Più o meno. Jean, mi chiamo Jean».

«Jan!» fece l'uomo, battendogli una pacca sulla spalla e accompagnando quel gesto con una risata allegra. «Diamine, che nome complicato che porti!»

Jean rise a sua volta, anche se non sapeva bene di cosa. Quindi entrambi si guardarono attorno, senza saper bene cosa dire né l'uno né l'altro.

«Dunque... e qui?» fece Jean, giusto per rompere quel silenzio imbarazzato, mentre indicava il lago e gli uomini al lavoro. Kirda si posò le mani sui fianchi, fissando orgoglioso la massa di gente impegnata a raccogliere il sale.

«Sale» disse. «Estraiamo il sale dall'acqua, e lo vendiamo. È un ottimo sale, l'hai assaggiato?»

Kirda si portò le dita alle labbra. Jean intuì che doveva essere parecchio fiero di quello che lui e la sua gente facevano, oltre che del sale che riuscivano a raccogliere. Per non offenderlo, preferì non mostrare il suo scetticismo e annuì con un sorriso.

«È un lavoro duro» aggiunse Kirda, socchiudendo gli occhi mentre osservava gli uomini che si muovevano sull'arenile. «Difficile. Ma ci dà da vivere».

Jean ascoltò con attenzione, cercando di cogliere qualche parola conosciuta. Kirda si era sforzato di parlare lentamente, ma era comunque veramente complicato riuscire a capire quello che gli stava dicendo.

Fece per ribattere qualcosa, sforzandosi di trovare le parole, quando il volto di Kirda si illuminò all'improvviso. Toccò Jean per un braccio, indicando qualcuno che stava scendendo verso di loro, lungo la strada che conduceva alla salina.

«Sari!»

Jean si voltò. Vide la ragazza che si era presa cura di lui, e che ora stava scendendo verso la spiaggia portando una sporta vuota sulle spalle. Quando si sentì chiamare, si voltò sorridente. Ma non appena vide che Kirda era in compagnia di Jean, il suo volto si rabbuiò.

«Sari è mia sorella» fece Kirda, sorridente. «L'hai già conosciuta».

Jean annuì.

«Sari?» chiese. «Onoma... gunèh... Sari?».

Kirda lo fissò compiaciuto.

«Sari, esatto. Mia sorella» rispose. «Quindi, qualcosa riesci a capirlo».

La ragazza li raggiunse in quel momento. Jean la salutò con un cenno amichevole, cercando di non mostrarsi imbarazzato; ma lei gli rivolse un'occhiata veloce e scostante, senza contraccambiare.

«Mi hai chiamata?» disse, rivolgendosi esclusivamente al fratello. Kirda le indicò Jean.

«Perché non porti il nostro amico a fare un giro, qui attorno? Credo che potrebbe trovarlo interessante».

«Come potrebbe trovarlo interessante?» obiettò lei decisa, imporporandosi in volto. «Non sa nemmeno dire una parola».

Kirda sembrò farsi confuso. Evidentemente, non si aspettava quella reazione così fredda da parte della sorella.

«Ma io non posso restare con lui, ho troppe cose a cui pensare e...»

«Anche io, se per questo» fece lei. «Sei stato tu a portarlo qui, perciò è un problema tuo. Se non hai tempo, trovati qualcun altro che badi a lui. Io ho di meglio a cui pensare».

Sari si allontanò, lanciando a Jean un'occhiata fredda. Lui arrossì. Capiva bene che lei potesse essere arrabbiata, ma lui le aveva comunque chiesto scusa. E poi, quello che era successo, non l'aveva certo fatto apposta.

Kirda strinse le labbra. Si voltò verso Jean, sforzandosi di sorridere, senza saper cosa dire. Jean tacque, fissando dispiaciuto la schiena di Sari, mentre lei si allontanava. L'espressione imbarazzata di Kirda lo faceva sentire ancora più colpevole, come se avesse abusato della loro gentilezza e ospitalità offendendoli in qualche modo. Probabilmente, pensò Jean, se Kirda avesse saputo quello che era successo tra lui e sua sorella, sarebbe andato su tutte le furie. Anche se, a dirla tutta, Jean non ne aveva molta colpa.

Insomma, c'era poco da fare. Era appena arrivato, e aveva già combinato un disastro.

 

 

*

 

 

Sari rientrò nella tenda solo quando era già sera. Si era tenuta lontana per tutto il giorno, per evitare di dover entrare nuovamente in contatto con quello straniero goffo e maldestro e magari dover rivivere ancora una volta un'esperienza imbarazzante e umiliante, come le era accaduto quella mattina.

Sapeva che non era colpa sua. Almeno non del tutto. Però non riusciva a perdonargli di essersi mostrato a lei in quelle condizioni.

Avrebbe almeno potuto avere l'accortezza di controllare, prima di...

Sari arrossì di nuovo, di fronte al ricordo di quanto era successo. Non aveva mai visto il corpo nudo di un uomo, prima di allora. E trovarselo di fronte così, inaspettatamente, l'aveva letteralmente scioccata.

Raggiunse l'ingresso alla sua tenda. Sospirò, mentre posava una mano sullo spesso tendaggio che fungeva da porta. Contò fino a tre, quindi si fece coraggio ed entrò.

Era convinta di trovare al suo interno il giovane straniero, ma invece fu sorpresa nel vedere che la tenda era vuota.

Era sollevata, ma anche infastidita. Non solo il fratello era ritornato a casa con quel tipo sconosciuto, che proveniva da chissà dove; ma le aveva persino chiesto di occuparsi di lui, cosa che aveva fatto per tutta la notte fino a cadere letteralmente dal sonno. Come se non bastasse, quello stupido si era messo a girare nudo per casa, le aveva fatto una paura tremenda con il risultato che lei aveva rovesciato per terra un intero secchio d'acqua. Senza contare che aveva dovuto lavare nuovamente i suoi vestiti, che le erano caduti per la sorpresa.

In più, se n'è andato via senza dir niente... ma che diavolo aveva, in testa?

Per fortuna aveva incontrato alcuni operai, che le avevano detto di averlo visto su un carro diretto alla salina. Se stava abbastanza bene da andarsene in giro, allora che la lasciassero in pace, tutti quanti! Non aveva voglia di passare altro tempo a far da balia a quel tipo dall'aspetto così strano e imbarazzante.

Sari si guardò attorno. Era già tardi, e presto sarebbe scesa la notte.

E adesso, dove si sarà cacciato?

Sbuffò. Gli aveva preparato la cena, come le aveva chiesto di fare il fratello. Un'altra cosa che aveva fatto per lui, e a quanto pareva ancora una volta per niente.

Se l'avesse avuto sotto mano, pensò Sari, la zuppa glie l'avrebbe rovesciata in testa, a quel tipo.

Alla fine lo trovò. Non dovette far molta strada: lo vide che se ne stava seduto per terra, sul retro della tenda, in cima a un piccolo promontorio che si affacciava sul lago. Era a capo chino e sembrava concentrato in qualche occupazione.

Sari fu lì lì per lasciarlo stare, ma per qualche ragione ci ripensò. Si avvicinò a lui in silenzio, posizionandosi alle sue spalle. Con sua grande sorpresa, vide che scriveva tracciando faticosamente delle lettere su una pietra piatta, utilizzando un ciottolo. Lo osservò per un po', quindi abbassò gli occhi su quello che stava scrivendo.

Si trattava di parole nella sua lingua.

«Tu conosci la mia lingua?» esclamò Sari, sgomenta.

Jean trasalì. Non l'aveva sentita arrivare e trovarsela lì, all'improvviso, lo sorprese.

«Oh, ciao!» fece. «Sei Sari, giusto?»

A sentire pronunciare il suo nome, lei assunse un'espressione indignata.

«Chi ti ha detto di chiamarmi per nome?» fece, strappandogli la pietra dalle mani. Lui arrossì. Sari abbassò gli occhi sulle parole che lui aveva graffiate sulla roccia.

«Non si scrive così» fece poi, abbassando la voce. Jean inarcò un sopracciglio. Lei gli indicò una parola in particolare.

«Questa... non si scrive così. Guarda».

Sari afferrò il ciottolo, strappandolo dalla mano di Jean. Senza volere, lui le sfiorò le dita sottili e lei avvampò immediatamente. Stizzita, prese a cancellare con furia tutte le parole che lui aveva scritto, quindi si inumidì la punta di un dito e pulì la pietra dai segni che la ricoprivano. La ragazza lanciò a Jean un'occhiata in tralice, poi cominciò a tracciare qualcosa a sua volta, muovendo il ciottolo con decisione, quasi volesse incidere la roccia.

Jean si avvicinò, scrutando ciò che lei stava scrivendo. Sari si scostò di un passo, e gli riconsegnò la pietra.

«È così che si scrive» fece, secca.

Jean studiò la pietra; quindi le sorrise, annuendo.

«Grazie, anche se potevi evitare di cancellare il resto».

Sari gli porse il ciottolo, fissandolo con espressione truce. Jean non vi badò, ma sollevò la pietra, indicandogliela.

«Senti, non è che potresti aiutarmi?» le chiese. Sto cercando di imparare» disse. «Sou... ego... didaskein?»

Lei avvampò, inarcando le sopracciglia. Quindi si voltò, gettando via il ciottolo e allontanandosi in fretta.

«Ehi! Aspetta...»

«È pronta la cena!» esclamò lei un attimo prima di sparire, ritirandosi nella tenda.

 

 

*

 

 

Quella sera, Jean rimase nella tenda da solo. Avrebbe voluto intrattenersi con Kirda, dopo cena, e provare a parlare ancora un po' con lui... Se voleva davvero imparare la lingua, aveva un disperato bisogno che qualcuno comunicasse. E a parte Kirda, non riusciva a pensare a nessun altro.

Lui si era dimostrato subito disponibile e generoso. Durante la cena, aveva cercato di mostrargli l'uso di alcuni vocaboli, ridendo insieme a Jean degli errori che faceva. Ma poi se ne era dovuto andare, Jean non aveva capito bene per quale ragione. E così era rimasto solo con Sari, che per tutto il tempo era stata scontrosa, restandosene in silenzio e lanciandogli occhiate scoraggianti. Finché, poco dopo il fratello, anche lei non se n'era andata senza dire una parola.

Era chiaro, pensò Jean: quella ragazza non lo trovava molto simpatico.

Aggrondò. Non capiva perché ancora ce l'avesse così tanto con lui. Forse si era comportato in modo inappropriato, d'accordo... ma era davvero necessario continuare con quella sua testarda ostilità?

A quel punto, gli venne in mente che forse quella non era stata la prima volta che aveva fatto qualcosa di vergognoso, da quando era lì.

La prima volta che aveva visto Sari, l'aveva scambiata per Nadia. Non è che...

No, non era possibile. O forse sì?

Beh, di qualunque cosa si trattasse, era inutile stare a rimuginarci sopra. Lui non si ricordava nulla e finché non fosse stato in grado di chiederlo a lei direttamente, non avrebbe nemmeno potuto scusarsi. Perciò, Jean decise di non pensarci e di esercitarsi ancora un po' nella scrittura.

Aveva appena preso la pietra su cui aveva trascritto alcune parole per fissarle a mente, quando notò un rotolo di pelle sottile, che qualcuno aveva lasciato accanto al suo giaciglio. Non l'aveva notato prima, ma era sicuro che prima di cena non ci fosse. Kirda non aveva accennato a nulla in proposito, ma chiunque fosse stato a metterlo lì, accanto vi aveva lasciato uno stilo ricavato dall'osso di qualche animale, oltre a una boccetta contenente un liquido denso e scuro, simile a inchiostro.

Jean si sedette e aprì il rotolo. Era vuoto.

Qualcuno aveva pensato che, se davvero voleva scrivere, quello poteva fargli comodo.

In quel momento, rientrò Sari. Portava un secchio d'acqua, come la mattina. Per un attimo ignorò Jean, ma quando lo vide con il rotolo tra le mani, arrossì; quindi si affrettò a versare l'acqua in una ciotola, che porse a Jean inginocchiandosi al suo fianco.

«Per te» mormorò, confusa.

Lui prese l'acqua, ma si accorse che Sari fissava piuttosto il rotolo. Sembrava nervosa. Lui sorrise. Ora gli era chiaro chi era stato a lasciare lì quelle cose.

«Grazie» disse. «Sei stata gentile».

Lei sembrò capire, perché gli occhi le si spalancarono per la sorpresa. Jean si mise comodo e spiegò il rotolo per bene, stendendolo per terra. Quindi intinse la penna nell'inchiostro nero e cominciò a tracciare qualcosa sulla superficie di pelle chiara e secca, lentamente e con attenzione. Sari, dopo un attimo di esitazione, si avvicinò a lui, chinandosi a guardare il foglio mentre tratteneva il respiro.

Jean avvertì nuovamente il profumo di mandorla che le aveva sentito addosso la prima volta che l'aveva incontrata. Gli ricordava il profumo della pelle di Nadia, un profumo dolce, che non avrebbe mai voluto smettere di assaporare.

«Ecco» disse, voltandosi a guardare Sari, che ancora studiava curiosa le lettere che lui aveva tracciato, cercando di decifrarle. «È il mio nome. Emòs Ònoma. Jean».

Lei aggrondò. Fissò ancora una volta quelle strane lettere, quindi si morse il labbro. Avvicinò titubante la mano a quella di Jean e gli sottrasse la penna, ma questa volta delicatamente.

Jean la osservò tracciare in modo incerto qualche lettera sulla carta. Aveva una grafia ingenua, ma comunque ordinata. Quando ebbe terminato, lei si ritrasse, arrossendo.

«Sari» mormorò. Jean la fissò in volto. Vide che le tremavano gli occhi.

«Sari» ripeté. «Piacere di conoscerti».

E per la prima volta, lei sorrise.

 

 

 

  
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