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Autore: Oscar_    05/10/2012    1 recensioni
Una volta mi hanno raccontato che è importante credere, che se si ripone sempre la fiducia in qualcosa, alla fine si sarà ricompensati per aver persistito durante le avversioni, e che si riceverà una ricompensa al momento del giudizio. Si sarà riconosciuti.
(...) « Ma dimmi: ci siamo mai visti prima? » Un quesito in grado di scatenare un turbinio di dubbi atroci, che condussero subito a una forte emicrania; le certezze crollarono come carta, perdendosi in anfratti troppo distanti per poter essere raggiunte ancora.
[Incentrata sulla SpaMano; potrebbero esserci sorprese]
[Le descrizioni forti, come anche le scene, arriveranno verso il terzo capitolo]
Genere: Azione, Guerra, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Nord Italia/Feliciano Vargas, Spagna/Antonio Fernandez Carriedo, Sud Italia/Lovino Vargas, Un po' tutti
Note: AU, Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti
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All that remains, is the ghost of love





 
 





 

Una volta mi hanno raccontato che è importante credere, che se si ripone sempre la fiducia in qualcosa, alla fine si sarà ricompensati per aver persistito durante le avversioni, e che si riceverà una ricompensa al momento del giudizio. Si sarà riconosciuti.
La voce di chi me lo disse, ormai, appare distante e intoccabile, come d’altronde la stessa persona, scomparsa tempo addietro dalla mia vita, dopo ovviamente avervi impresso un segno di passaggio tale da essere rammentato persino dopo anni di assenza. Mi ritrovo oggi a pensare a quanto sbiadito sia il suo viso alla mia memoria, a quanto atroce sia stato il dirgli addio, a quanto duri furono i primi tempi senza poterlo più avere affianco.
Non è semplice narrare certi eventi, non è semplice richiamarli alla memoria, come semplice non è parlare senza che la voce s’incrini pericolosamente, finendo per morire in gola, soffocata da ricordi irraggiungibili, non più in grado di tornare ad allietarmi. L’unica cosa chiara di lui rimastami sono i suoi occhi, quegli smeraldi limpidi e luminosi sempre stati per me fonte d’invidia; poiché incapace io di mostrare in ogni situazione, imperterrito, contro qualsiasi avversità, il mio pensiero. Incapace di portarlo avanti, di farlo valere oltre le opinioni altrui fino a dargli egual importanza, fiero di esso come un genitore del proprio figlio.
Vigliacco. Sento giorno e notte rimbombare questo termine, questa certezza, questa condanna. In fondo so anch’io perché non si trova più qui. Solo per colpa mia, perché non ho saputo mettermi in gioco, non ho impedito a nessuno di compiere il proprio operato. Ho pensato a me stesso, ho avuto paura. E chissà adesso lui dov’è, se mi pensa ancora, se ce l’ha con me. La cosa che più mi fa arrabbiare, è che non era in grado di serbare rancore; a nessuno. E che in silenzio magari, se ancora vivo è, mi invia preghiere e pensieri affettuosi, contribuendo solo ad accrescere il dolore immane al centro del mio petto, intensificatosi sin dal giorno della sua scomparsa.
Cominciare dall’inizio, dicono alcuni. Ma in fondo cos’è l’inizio? L’inizio non è propriamente una partenza, né un arrivo, né un pensiero, né una frase. Esso può nascere a metà fra un sentimento e un addio, fra un sorriso e uno sbadiglio, in quella frazione di tempo che separa il sonno dalla veglia; non sarà mai definito perfettamente, poiché nessuno è in grado di rammentare con precisione quando esso sia apparso per la vera prima volta. Ma mi sforzerò di ricordare il mio, di inizio. E di illustrarlo a chi bramoso è di storie la qual conclusione non è certa né veramente finale.
 
 
 
 
« Romano! Tu fratello sta de novo piagnendo. Smettila de tenè per te tutti i modellini e dagliene uno! »
I rimproveri del nonno contribuivano solo a rendermi più geloso dei miei possedimenti. Che potevo farci io se Feliciano non era abbastanza veloce da accaparrarseli al negozio di giocattoli? Sempre così incantato dal bambino straniero, quello che sembrava seguirci ovunque; tedesco, diceva il nonno. Gente poco raccomandabile. Vi aveva avuto a che fare tempo addietro, ed i torti che gli avevano fatto, a sua detta, erano imperdonabili.
Odiavo sentir piangere Feli. Non perché mi dispiacesse per lui, ma perché con quella voce già acuta di suo riusciva a stordirmi come quando il nonno batteva i colpi sulla campana in giardino per dirci ch’era pronto il pranzo. Stufo ormai di star vicino a quell’antifurto ambulante gli rifilai il modellino che meno era di mio gradimento, quello con la croce teutonica, che nonno era stato tanto riluttante ad acquistare. Ed ecco tornare il sorriso su quel viso paffuto tanto simile al mio. A ripensarci adesso, Feliciano da bambino aveva delle guance morbidissime. Ricordo che una volta un’amica di nonno, una certa Elizabeth se non sbaglio, gliele aveva tirate così forte da lasciargli un nitido segno rosso per un paio di giorni, tant’è che in pieno inverno i passanti ci chiedevano se fossimo stati in vacanza; li scambiavano per i segni d’una scottatura! La giovane poi, per farsi perdonare, aveva chiesto ad un suo amico austriaco di preparare una torta per Feli. Ed aveva scelto la strada giusta; in meno d’una giornata era tornato col sorriso.
Libero dal baccano di quel pianto straziante tornai a concentrarmi sul mio aeroplano, montato già da un po’, alzandomi e sollevandolo appena sopra il capo, correndo in circolo per il giardino e mimando il rumore del motore. In poco tempo raggiunsi la staccionata, che dava direttamente sul selciato che a quel tempo era usato come strada improvvisata, più una scorciatoia che un viale vero e proprio. Rimasi a contemplare il lieve via vai mattutino: persone frettolose d’iniziare una nuova giornata lavorativa, individui dall’aria losca ben distanti dal centro della strada, gente distinta e d’una certa classe, con vestiti più buffi che eleganti, e poi un giovane dai tratti simili eppure tanto diversi dai nostri, che catturò immediatamente la mia attenzione di bambino. Di media statura, con un fisico piuttosto allenato, la pelle bronzea, i capelli castano scuro e un’espressione interrogativa, come se non sapesse nemmeno lui il motivo per il quale si trovasse proprio innanzi la nostra casa. Lo fissai qualche istante, inclinando inconsapevolmente il capo, forse per cogliere più particolari non risaltanti immediatamente all’occhio, notando solo un’evidente cicatrice su uno degli incavi tra collo e spalla che la camicia dal colletto aperto lasciava visibile. Intercettando il mio sguardo mi fissò a sua volta, anche lui inclinando in modo piuttosto infantile la testa, avvicinandomisi poi con aria complice.
« Hola, bimbo! » Mi salutò sottovoce, gettando sguardi furtivi attorno; nessuno ci guardava, quindi mi domandai il motivo di tutta quella confidenza. La parola con la quale mi aveva salutato mi risultò nuova, sconosciuta, e mi chiesi se fosse un insulto. Avrei chiesto dopo a nonno.
« Ciao, signò. » Alcuni paesani salutavano sempre così gli sconosciuti; per intimidirli, dicevano. Se non avevano cattive intenzioni allora non avrebbero chiesto cosa significava. Se invece volevano derubare sarebbe stata la prima domanda.
L’occhiata perplessa con cui mi guardò in seguito mi sarebbe rimasta sempre impressa. Come la successiva risata, che rimbombò tutt’intorno, attirando questa volta l’attenzione di alcuni passanti, come anche quella di Feli, all’altro capo del giardino.
« Come sei carino, chico. » Aveva un accento differente da quello di nonno. Non l’avevo mai sentito prima. Sembrava una specie di cantilena allegra, con le vocali un po’ più chiuse delle nostre. « Forse puoi aiutarmi. Che ne dices? » C’erano quelle parole sconosciute, in grado d’inquietarmi sempre di più, portandomi a credere che quel tipo fosse uno straniero in tutto e per tutto. Di chissà dove! Tedesco non poteva essere. Nonno mi aveva insegnato a riconoscerli. E allora da quale anfratto poteva mai giungere, un tipo così?
« Forse. » Un’altra risata, forse persino di maggior intensità della precedente.
« Mi servirebbe che ti infiltrassi in quel campo, quella piantagione di tomates, che risalta tan bene in mezzo al verde, per prendermi il tomate más rojo che riesci a veer. Cosa ne pensi? Puoi farlo para mí? » Impiegai qualche istante per comprendere appieno ciò che mi stava chiedendo; quindi annuii, mentre il quesito del perché non potesse andarci lui mi sorse spontaneo. « Bien! Vieni dunque, ti porto yo. »
E mettendomi le mani sotto le braccia mi sollevò delicatamente, sistemandomi poi in braccio, camminando sino all’inizio del campo, appena all’altro lato della strada. Fece per farmi posare i piedi a terra, quando rammentai d’avere ancora in mano il modellino. Glielo agitai davanti alla faccia, tentando di fargli capire che doveva tenermelo finché non avessi fatto ritorno. Il primo sguardo fu perplesso, il secondo divertito, il terzo di sfida. Adagiandomi al suolo terroso della piantagione prese l’aeroplano, tenendolo con cura tra le mani, invitandomi con un cenno a fare i primi passi.
« El más rojo, recuerda! » Sussurrò, dandomi una spintarella perché mi muovessi.
Nonno mi diceva sempre di non entrare nei campi degli altri. Un po’ perché nessuno avrebbe voluto che uno sconosciuto gli entrasse nello stipendio; un po’ perché potevo rovinare il lavoro d’un stagione; un po’ perché era da maleducati e da ladroni; e un po’ perché c’erano i cani da guardia. E potevo rischiare d’essere sbranato; o, peggio: beccare il contadino col fucile, che di certo non avrebbe esitato a piantarmi una pallottola addosso, adulto o bambino che fossi.
Lasciai vagare lo sguardo intorno, i piedi piantati nel terreno fresco del mattino, ancora inumidito dalla rugiada, ritiratasi forse una mezz’ora prima, soffermandomi sui pomodori più maturi e dal colore più sgargiante; ero indeciso. Se avessi preso quello che allo sconosciuto non andava bene che mi avrebbe detto? Forse si sarebbe tenuto il modellino! Che rottura, pensai. E quella locuzione mi rammentò il pescivendolo al mattino, sempre costretto a rincorrere gli sciamannati ladruncoli della Napoli dell’epoca; in realtà ce ne sono ancora. Ma quelli non avevano proprio pudore né precauzione. Gli inizi del Novecento eran duri per tutti.
Una delle succose e tondeggianti verdure attorno attirò la mia attenzione; era più grossa delle altre, sebbene si trovasse troppo in alto per me. Avrei dovuto inerpicarmi su per il bastone che serviva a far crescere dritti gli arbusti. Sbuffai, rimboccandomi le maniche della camicetta nuova, che di sicuro si sarebbe insozzata di terriccio e moscerini, e cinsi con decisione la parte più alta, almeno per ciò che i miei limiti mi consentivano, del bastone, facendovi leva e saltando, tenendo aperta e diretta verso il cielo terso l’altra mano, provando una prima volta a raggiungere il pomodoro. Ovviamente, quale primo tentativo, fu vano. Non mi diedi per vinto, ed anzi il secondo salto mi parve più slanciato del primo; ed in effetti dovette esserlo, visto che afferrai con successo la soda verdura, riuscendo per poco a non farla ricadere a terra. Corsi trionfante in direzione dell’inizio del campo, abbandonandomi ad un sorriso lieto e soddisfatto, vaneggiando su cosa avrebbe potuto donarmi lo sconosciuto in cambio del mio favore. Ma non feci in tempo a compiere quattro passi, che un ringhio gutturale alle mie spalle mi bloccò, mozzandomi il respiro. Ero così contento d’aver raggiunto il mio obiettivo, da essermi dimenticato completamente del cane. Nonno diceva che correre con un cane alle calcagna avrebbe solo contribuito a farsi prendere prima. Perciò deglutii, imponendomi un contegno che raramente ero stato in grado di dimostrare, respirando a fondo, reggendo con le dita tremanti il pomodoro, ripetendomi che sarebbe andato tutto bene.
« N-nonno... » Prima un flebile sussurro, ripetitivo, incessante. « Nonno! » Poi un grido acuto e l’inizio d’una corsa verso nessun dove, frenetica, mossa dall’istinto di sopravvivenza, quell’insieme d’azioni premeditate in grado di salvarci nelle più svariate situazioni di pericolo. Avvertivo chiaro il passo del cane dietro di me, come anche i ringhi e gli abbai furiosi, e mi dissi che non sarei riuscito a percorrere un altro metro. Per fortuna mi sentii sollevare di colpo, per poi non scorgere più nulla dell’ambiente attorno, se non dei colpi sordi seguiti da guaiti e da un rapido indietreggiare in mezzo a frasche. Aprii lentamente gli occhi, riconoscendo la capigliatura e la barba del nonno.
« Romano! Che t’è saltato in mente? Te sei ammattito, bimbé? Che te dice sempre nonno? De nun disturbà ‘r can che dorme! Mannaggia a li pescetti, ma guarda te... » La preoccupazione nella sua voce roca era palpabile. Probabile fosse stato Feliciano ad avvertirlo ch’ero uscito con uno sconosciuto dal recinto; se non l’avesse detto, a quest’ora sarei un ammasso d’ossicini in decomposizione in qualche cuccia.
Totalmente sordo ai rimproveri e alle imprecazioni del mio familiare mi guardai frenetico attorno, cercando con gli occhi lo sconosciuto dall’accento buffo, trovando solo vari negozianti del paese e qualche altro bambino col quale ero solito trascorrere pomeriggi a fantasticare sulle nuvole e sulle loro forme. Sconsolato e col cuore di bambino infranto strinsi al petto il pomodoro, mentre un’ira cieca iniziò a spargersi poco a poco nelle membra, assieme a un rancore forse troppo forte per un infante qual ero. Avevo rischiato di morire e quel tizio? Era scomparso bellamente, come non fosse mai esistito, portandosi peraltro via il mio modellino! Mi ripromisi che, se l’avessi mai rivisto, sarebbe stato per spalmarglielo in faccia il pomodoro.
 
 
 
 
« Nonno, nonno! La storia di quando hai combattuto contro gli austriaci, dài! » Feliciano non smetteva mai di chiedergli di narrargli quella battaglia, tant’è che ormai il nonno era a un limite prossimo all’esasperazione. Ma, siccome era suo nipote, e siccome era un concentrato di tenerezza, alla fine gliela ripeteva ogni volta che lo desiderava.
Io, dal canto mio, ero troppo impegnato a disegnare in maniera stilizzata il volto di quel bastardo sconosciuto mentre il pomodoro gli si spiaccicava in fronte. Non avevo voglia di sentire per l’ennesima volta come il nonno avesse ipoteticamente stracciato quei soldati invasori, cacciandoli per sempre dalla nostra terra. A me bastava ascoltarle una volta le cose, poi diveniva noiosa la ripetizione.
« Romà, tesoro, non vuoi sentire, tu? » Il vocione del nonno mi aveva sempre ricordato le notti invernali, davanti al caminetto, quando ci permetteva di restare lì per più tempo del solito, ad aspettare non sapeva nemmeno lui cosa; forse il miracolo che diceva sempre un giorno sarebbe giunto. Ma che in verità non giunse mai.
« No, non mi va. »
« Allora vieni a coricarti, su, è tardi e domani c’è scuola. » L’accento del nonno era diverso dal mio e da quello di Feli. Più burino, sciolto, anche un pizzico volgare, eppure a me era sempre piaciuto. Non avrei mai smesso di sentirlo parlare. Sebbene il più delle volte ciò che diceva era una ripetizione perpetua.
Mi alzai di malavoglia dalla mia postazione, inviando un silenzioso pensiero a quel tizio dalla faccia stupida, augurandogli di essere investito dal carro della posta, che correva sempre e non rispettava gli incroci. Dopo essermi sistemato sotto le lenzuola fissai ammorbato Feliciano, che invece tutto contento e con aria rapita ascoltava le mirabili gesta del nonno, battendo le mani come si trattasse d’uno spettacolo in continuo sviluppo; anche se l’esito era scontato, anche se conosceva già tutta la storia, anche se avrebbe potuto lui stesso narrarla ad altri. E a volte in effetti lo faceva, incespicando però poco dopo con i termini in romanaccio del nonno, che anche con tutta la buona volontà non riusciva ad imitare in nessun modo.
« ... E cacciai gli austriaci sulle Alpi, da cui tornarono pessempre nella loro stramaledetta terra! » E Feli esultò, inneggiando al coraggio del nonno e alla sua audacia nel persistere durante la battaglia nei momenti difficili. Era un periodo tranquillo quello del 1913, niente ancora si stagliava nitidamente allo sguardo, niente di ciò che ci attendeva. Ancora non sapevamo che un giorno noi stessi avremmo narrato storie persino più cruente di quelle del nonno, storie vissute e mai inventate, storie meritevoli di seria attenzione, storie di abbandoni e morti, di feriti e dispersi, di viaggi e partenze verso luoghi da cui mai si sarebbe fatto ritorno.
Il nonno ci diede un bacio sulla fronte per uno, ci sussurrò che “Dio ci benedicesse” e spense la lampada, uscendo piano dalla stanza. Feli, come sempre, si addormentò subito, mugugnando qualcosa a proposito dei pranzi di Pasqua nel sonno. Io rimasi a contemplare il soffitto, illuminato fiocamente dal chiarore lunare filtrante dalla finestrella sul lato. Mi chiesi che stesse facendo lo sconosciuto a quell’ora, se si fosse dimenticato di me, se non me lo fossi sognato. Lo sperai per lui.
I tempi non erano bui, non ancora. Entro un anno tutto si sarebbe incupito per la prima volta, insegnandomi che le vere battaglie sono quelle interiori, difficili da sconfiggere definitivamente, complesse da annientare, impossibili da eludere. E la successiva sarebbe stata molto peggiore. Ma forse mi sto dilungando precocemente. Avrò tempo in seguito per confidare dettagli cruenti, passando per le dolorose perdite, quindi per i sogni infranti e per le speranze cancellate, sfibrate dal tempo l’invenzione più nociva che l’essere umano abbia mai ideato. Regolare, controllare, perfezionare. Sono o non sono queste le parole che ci assillano giorno dopo giorno, ora dopo ora, impedendoci di godere appieno dei nostri possedimenti? Non sono forse le attese a rovinarci dall’interno? Non è forse il tempo, infinito sovrano della nostra esistenza, a impartirci ordini, a decidere per noi il quando ed il come, a separarci da chi ci è caro? Ruba senza che nessuno glielo impedisca, opprime senza che nessuno protesti, e chi lo fa è predestinato a vivere eternamente con la consapevolezza, quella sorella un po’ scomoda e un po’ utile, che tante risposte dona eppure nessuna dà per certa. La verità è che cercare un senso è impossibile. Impossibile, perché il tempo non ci permetterà mai abbastanza di cercare a fondo. Impossibile perché non siamo padroni di niente. Impossibile perché non siamo infiniti, e perché alla fine, come da soli siamo nati, da soli moriremo.
 
 
 
 
***
 
 
 
 
Non mi sono mai dilungata tanto, in verità! Questo è uno dei capitoli più lunghi che io abbia mai avuto il piacere di scrivere. Non ho idea di cosa mi passasse per la mente! Comunque spero sia chiaro che si tratta di un AU, anche perché la Spagna, come ben sapete, non è coinvolta in nessuna delle Guerre Mondiali causa Guerra Civile. Mi auguro questo prologo sia stato di vostro gradimento! Nel primo capitolo, se sarò motivata a continuare e ne avrò il tempo, mi dilungherò ancora di più, magari con qualche altro dettaglio.
Se v'infastidiscono i termini in spagnolo o le locuzioni romanesche fatevene una ragione o smettete di leggere; mi piace coinvolgere il lettore coi piccoli dettagli.
Grazie per esser giunti fin qui, apprezzo l’attenzione e la cura; se volete lasciare un commento siete ben accetti, siano essi critiche o complimenti.
See ya!
   
 
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