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Autore: hypatia_of_alexandria    06/10/2012    8 recensioni
'[...]Scivolò un po' in avanti con il bacino. "Com'era quella tua fantasia?"
Le luci della città scorrevano veloci al di là del finestrino, e Haruka non esternò reazioni quando Michiru, con esasperante lentezza, iniziò a sfiorarsi il ginocchio, quindi la gamba. Fermandosi sull'orlo dell'abito a fiori, per poi insinuarsi al di sotto.
"Quella in auto." Suggerì in un soffio, benché fosse sicura che l'altra la ricordasse.
Nitidamente.[...]'
Genere: Fluff, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Yuri | Personaggi: Haruka/Heles, Michiru/Milena, Nuovo personaggio | Coppie: Haruka/Michiru
Note: AU, Lime, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna serie
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Lo speciale estivo, che alla fine è stato pubblicato in autunno inoltrato.
Lo so, faccio dei gran casini con le scadenze. Infatti devo smetterla di darne... ma ogni volta ci ricado :D Comunque, questa dello speciale era un'idea che avevo in mente già da un po', nata soprattutto pensando alle difficoltà che può avere una coppia come Haruka e Michiru nel crearsi intimità quando c'è di mezzo un bambino piccolo :)
Preciso che questo speciale è assolutamente attinente alla linea temporale della storia principale: ci sono anche un paio di spoiler, in mezzo. Non troppo difficili da cogliere.
Come sempre, grazie a tutti coloro che mi seguono, che leggono e commentano :)
H.

DISCLAIMER: Il titolo è ispirato da "The Steadfast Tin Soldier" ("Il Soldatino di Stagno" o "Il Soldatino di Piombo"), che appartiene a H.C Andersen; Haruka e Michiru appartengono all'immensa Naoko Takeuchi, NON a me. Di mio c'è solo tutto ciò che la mia mente sta partorendo con sudore :D


Ogni riferimento a fatti realmente accaduti e/o a persone realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.

The Steadfast Tin Soldier Summer Special

Happyness

10 Aprile 2008,
Virginia Beach.

Quella non sarebbe stata una grande serata di affari per il bar, pensò aprendo la piccola lavastoviglie e iniziando a riporre ordinatamente i bicchieri sulla stretta mensola al di sopra del pianale d'acciaio del lavandino: c'erano poco meno di una decina di persone, alcuni neanche troppo inclini alla consumazione. Ma dopotutto si rientrava appieno negli altalenanti ritmi del locale - poco da fare fino al mercoledì, con graduale aumento della clientela già dal giovedì, fino al boom del weekend; una di quelle sere in cui riusciva persino a sedersi sopra i fusti di birra e ripassare qualcosa per la mattina successiva. Che fosse Storia, Scienze o l'odiata Matematica, di cui non sarebbe mai riuscita a mutare l'insufficienza fissa.
"Ehy Becky!" La voce di Doug, il titolare del 'Prometheus', la distolse dai propri ragionamenti: lo guardò farle un cenno verso la sala. "Fai un giro per i tavoli. Vedi se qualcuno vuole ordinare altro."
Accantonò per un momento il pensiero che non si ricordava proprio nulla del Ciclo di Krebs e uscì dal retro del bancone, asciugandosi le mani su un canovaccio con su il logo della Carlsberg e afferrando quindi un vassoio di metallo. Recuperò un paio di bicchieri di birra vuoti mentre avvicinava il tavolo dove una coppia declinò l'offerta di aggiungere qualcosa alla loro ordinazione; lasciò dei menu e la carta delle birre a due ragazzi che si erano appena accomodati, dicendo loro in un sorriso che sarebbe ripassata non appena fossero pronti per ordinare. E riponendo il panno umido con cui aveva ripulito la superficie di un tavolo appena liberatosi in una tasca del grembiule, raggiunse in pochi passi quello all'angolo, accanto alla finestra.
"Ciao." Iniziò guardinga. "Ti porto qualcosa?"
Il ragazzo lì seduto non si mosse neppure, una mano che sorreggeva il mento, il viso rivolto verso il vetro dove la spiaggia di Virginia Beach - pochi metri più sotto, si perdeva nel buio. Becky spostò il peso da un piede all'altro, inarcando un sopracciglio: nell'attesa allungò una mano per prendere il bicchiere vuoto abbandonato sopra il tavolo, e fu nel momento in cui valutò se ripetere o no la richiesta che lui si voltò verso di lei.
Continuava a perseverare nel silenzio, e per Becky fu chiaro che benché la guardasse in realtà non la vedesse affatto; sostenne per un lungo momento lo sguardo color smeraldo di quello, realizzando che era anche piuttosto carino: alla fine sarebbe stata una piacevolissima perdita di tempo.
"Un altro." Lo disse a voce bassa dopo diversi istanti, spingendo un po' più avanti il bicchiere che aveva di fronte con un lieve movimento del dito e tornando, girando piano il viso, a guardare nel nulla al di là del vetro.
Becky si allontanò senza dire niente, e solo quando gli ebbe voltato le spalle si rese conto di non sapere cosa fosse il liquore che quello stesse bevendo; si fermò un secondo, indecisa se tornare indietro o meno. Ma un 'cameriera' attirò la sua attenzione, e in un sospiro avvicinò il tavolino in mezzo, dove i due ragazzi che le avevano fatto battute per tutta la serata attendevano palesemente il suo arrivo.
"Vi porto qualcosa?" Si stampò un sorriso di circostanza, anche se quei due non le piacessero un granché. Il tipo seduto alla sua destra, con i capelli biondicci, assunse un'aria pensosa. "Ehy, non mi ricordo come ti chiami."
"Becky." Disse piano. Era la terza volta che glielo chiedeva.
"Becky! Te l'avevo detto, Johnny!" Fu l'altro a parlare, prima di piegarsi nella sua direzione. "Lo sai che sei uno schianto, Becky?"
"Vi porto altro, ragazzi?" Domandò di nuovo, sviando il discorso a qualcosa che riguardasse il motivo per il quale stava ferma a quel tavolo, e non frasi già sentite e risentite.
"Perché non stai un po' qui con noi, invece?"
Scartò di lato non appena si accorse della mano che cercava di raggiungere una sua precisa parte anatomica; arretrando di diversi passi lanciò un'occhiataccia ad entrambi, ma l'azione sortì come effetto solo una gran risata e altre battute sarcastiche.
"Stronzi." Fu un sibilo tra i denti, aggirando il bancone. "Quei due sono odiosi, Doug."
"Sono ubriachi." La corresse lui, ormai avvezzo a quel tipo di clientela.
"Mah, non lo so." Borbottò. "Uno ha provato a toccarmi."
Doug inarcò un sopracciglio; da sopra una spalla cercò con lo sguardo il tavolo dei due ragazzi. "Okay, ci penso io." Disse in un sospiro. "Cos'hanno preso?"
"Niente." Becky lasciò i bicchieri vuoti nel lavandino. "Mi hanno rotto le scatole."
"Beh, se hai bisogno chiama." La rassicurò con una lieve pacca sulla spalla, tornando quindi alla cassa.
Iniziò a spillare le birre dell'ordinazione. Voltandosi appena tornò a guardare in direzione del tavolino accanto alla finestra, dove il ragazzo dagli occhi verdi ora fissava il bicchiere senza particolari emozioni. Pensò che non fosse stato un comportamento poi così bizzarro, il suo: dopotutto aveva avuto a che fare in più di un'occasione con avventori alticci o completamente ubriachi, traditi dal solito bicchiere di troppo. Eppure, ora che ci ripensava, ebbe la sensazione piuttosto netta che quell'assenza di reazioni immediate non fosse solo figlia dell'alcool.
"Una Miller al quattro, Becky."
Cercò di isolare quel pensiero insistente mentre apriva il frigo per evadere subito l'ordine suggerito da Doug; di focalizzare cosa l'avesse spinta a ragionare su un misterioso avventore che non l'aveva degnata della benché minima attenzione.
Un misterioso avventore molto carino. La precisazione si impose da un angolo della mente, e con un lieve sorriso a curvarle le labbra sistemò sul vassoio un bicchiere da whisky pulito. Aggrottò la fronte. "Doug, tu sai cosa ha preso il tipo dell'ultimo tavolo?"
Doug le andò accanto solo dopo aver battuto un conto. "Ultimo tavolo..." mormorò scrutando nella sala semi vuota. "Uhm sì. Gli ho dato un Jim Beam."
Con le bevande accuratamente sistemate sul vassoio, Becky tornò tra i tavoli: quei due l'apostrofarono ancora mentre lasciava come d'istruzione la Miller al tavolo quattro. Tenne il whisky per ultimo, ma girandosi per raggiungere il tavolo accanto alla finestra lo vide vuoto; la porta d'ingresso che cigolava ancora.
Quando si avvicinò trovò sulla superficie del tavolino 30 dollari. Pensò fossero troppi e se ne dispiacque. "Che peccato," mormorò. Non era riuscita nemmeno a dirgli nulla, al ragazzo con gli occhi-
Lo realizzò prendendo in mano il bicchiere mezzo piano che aveva lasciato lì, guardando il riflesso ambrato, caldo, del liquore sul vetro. Realizzò che quegli occhi erano belli.
Ma di una bellezza triste, perché vuota e spenta.

*

"Io vado, Doug."
"A domani, Becky."
"No," gli ricordò lei. "Domani non vengo, venerdì mattina ho il compito di Scienze." La smorfia che si dipinse sul volto di Doug la fece sorridere. "Ok, ok. Pensa a studiare, Baby." La canzonò. "Ci vediamo venerdì sera, allora."
Lo salutò di nuovo sulla porta, abbottonandosi poi la giacca leggera per ripararsi dall'aria della notte. Attraversò la strada in una breve corsa, costeggiando il ristorante cinese che occupava una larga porzione della Sunset Lane e finendo in Jameson Ave, dove sorrise quando si accorse che alla luce intermittente del '7 Eleven' si era fulminata più di una lettera creando un curioso '7 Elen'. In pochi minuti avrebbe raggiunto il parcheggio dove aveva lasciato la sua sgangherata Chevrolet, e un'occhiata rapida all'orologio le fece liberare un lieve sospiro. Erano già le undici e mezzo, e non sarebbe arrivata a casa prima di mezzanotte - sempre che non ci fosse stato traffico. E doveva ricordarsi di controllare la borsa della scuola, il pranzo e, accidenti, doveva farsi anche una doccia e avrebbe svegliato tutti e papà avrebbe ricominciato a dirle che doveva tornare prima, che era troppo tardi, che non gli piaceva che facesse la cameriera e che poteva essere anche pericoloso: l'ordinaria routine da quando si era trovata quel lavoretto da quindici ore la settimana che le permetteva di mettersi da parte qualcosa per il college.
Scrollando il capo scacciò quei pensieri, e fu solo in quel momento che si rese conto di una ulteriore presenza oltre a sé, nella stretta via di raccordo tra Jameson e la parallela - quella dove si trovava quel ristorante Italiano così carino, il Bella Italia.
"Ehy!" Nella semi oscurità vide solo una sagoma staccarsi dalla parete, imitata dopo pochissimo da un'altra. Becky vide volare il mozzicone di una sigaretta. "Ehy ciao!" L'apostrofò di nuovo.
Si strinse nella giacca, accelerando il passo senza rispondere.
"Aspetta... Becky, giusto?"
Trasalì nel sentire il proprio nome. Rallentò appena, e voltandosi riconobbe quei due del bar. Non fu un sollievo.
"Sono davvero di fretta." Disse, tornando a guardare davanti a sé.
"Solo un attimo, dai!" La luce di un lampione le permise di identificarli con sicurezza, e di capire che era stato quello con i capelli castani a parlare. "Ehy, mi ascolti?"
Rimase in silenzio, aumentando l'andatura. "E su, fermati!" Una breve risata. "Mike, guardala. Non si ferma!"
Continuavano a seguirla, e iniziò a sentire disagio. Si convinse che, a furia di ignorarli, avrebbero desistito.
"Perché non sei carina con noi?" Il tono era divertito. "Noi siamo stati carini con te, tesoro."
Non trovò consolazione nel silenzio che seguì, rotto solo dai passi veloci sul marciapiede.
Nontivoltarenontivoltare.
Il disagio divenne presto un sentore più ampio che non riuscì ad ignorare; per strada non c'era nessuno e la cosa non aiutò.
All'improvviso si sentì tirare per un braccio, una mano sul sedere. Girandosi di scatto allungò un braccio in un colpo tirato del tutto alla cieca: il suo pugno si infranse debole sul braccio del tizio dai capelli biondicci. E quando mosse la gamba intenzionata a sferrare un calcio là dove sapeva avrebbe fatto molto male, l'altro ragazzo fu lesto ad afferrarla per la vita.
"No!" Gridò agitandosi, i piedi che perdevano il contatto con il terreno. "Aiuto!" Lo disse con tutta l'aria che aveva in corpo, sperando di attirare l'attenzione di qualcuno in quel deserto di vicoli e strade.
"NO! N-mff!" Una mano finì sulla sua bocca, e nonostante il suo divincolarsi non ebbero difficoltà a trascinarla di peso nella stradina poco illuminata che aveva appena superato.
"Sta' zitta piccola!" La puzza d'alcool le punse le narici quando il suo aggressore glielo mormorò all'orecchio, il terrore che prendeva possesso di ogni sua percezione nell'ascoltare un 'tienila ferma, Mike.'
Nonovipregonono!
Urlò di nuovo contro la mano di uno dei suoi aguzzini; strattonò le braccia, le gambe alla ricerca di un bersaglio, ma scatenò solo risate.
"Te l'ho detto, vogliamo solo essere carini con te."
Non riuscì ad impedir loro di venir stesa su un bidone della spazzatura, il viso schiacciato sul freddo metallo. Ascoltò un clangore metallico e imprecazioni; quindi un peso su di lei.
Le lacrime pizzicarono gli angoli degli occhi mentre tentava di muoversi, di tirar via le braccia, le mani bloccate per i polsi. Ridevano e quelle risate le perforarono le orecchie, la paura a dilatare ogni interminabile momento. L'odore d'alcool tornò a disgustarla; un singhiozzo le scosse il corpo quando una mano armeggiò maldestra contro la zip dei jeans.
Vipregovipregovi-
Un grido si perse nel fracasso che avvertì alle sue spalle. Aveva le mani libere, ma non lo realizzò subito. Senza riuscire a fermare il tremore si sollevò dal bidone, due lacrime che scesero sulle guance: si accorse che quello che l'aveva tenuta ferma era a terra, rantolante, la testa tra le braccia; l'altro stava avendo una colluttazione con qualcuno che-
Trasalì quando riconobbe il ragazzo del bar.
"Va' via!" Le urlò quello, la camicia macchiata di sangue, in mano un'asse di legno spaccata. "Via! Vattene!!"
Non se lo fece ripetere due volte. Corse via di scatto, inciampando, cadendo in ginocchio ma senza fermarsi quando si rialzò. Si chiuse dentro l'auto e partì ignorando una precedenza, un clacson furioso nelle sue orecchie. Le dita tremavano sul volante, e al primo semaforo vide il rosso all'ultimo secondo, inchiodando in uno stridore di gomme.
Il suo respiro era rumoroso nel silenzio. E portandosi le mani alla bocca, il semaforo che si fece verde e poi di nuovo rosso, Becky iniziò a piangere.

*

12 Maggio 2008,
Portsmouth,
Virginia

Becky rimase ferma, le porte dell'autobus che si richiudevano alle sue spalle prima che il mezzo ripartisse per proseguire la propria corsa. Un passante la evitò con uno scarto di lato, e decise di muovere un passo in avanti per smettere di essere un ingombro sul marciapiede. Le labbra liberarono un sospiro leggero, la borsa stretta a sé, il biglietto tra le dita su cui aveva scarabocchiato il suo nome. E, poco sotto, il luogo in cui l'avrebbe trovato.
Un'identità finalmente, che le era costata un mese di ricerche vissute con stati d'animo altalenanti: giorni in cui avrebbe voluto solo dimenticare e giorni in cui non faceva altro che pensare al ragazzo dagli occhi verdi - il soprannome che ormai gli aveva affibbiato - che era stato il suo angelo custode. A come stesse, a dove si trovasse; se per colpa sua, ora, si trovasse nei guai.
Da Doug aveva saputo che la polizia aveva sedato una rissa ad appena un isolato di distanza: quando gli aveva detto che non era stata affatto una rissa ma che quei due tizi l'avevano aggredita, Doug non aveva detto niente.
Non si finisce mai di conoscere le persone, aveva pensato quando l'uomo si era mostrato molto più preoccupato per il locale e per sé che per lei, tanto da chiederle di non sporgere denuncia. Alla fine aveva deciso di non farla.
Si era licenziata quella sera stessa.
Attese il verde del semaforo pedonale, attraversando quindi l'incrocio e avviandosi nella larga strada privata che portava al complesso dell'ospedale militare 'Edward Dewenish VA Medical Center': si trovava lì, il ragazzo dagli occhi verdi, perché era un soldato.
L'aveva scoperto grazie all'indiano del drugstore all'angolo tra Pacific e la Decima, dopo giorni passati a setacciare articoli di giornale, a chiedere informazioni a quelli dei ristoranti e dei locali nei pressi di dove avevano cercato di abusare di lei. L'aveva scoperto quando si era messo ad inveire contro l'America che una volta era un paese sicuro ed ora non lo era più perché c'erano più rapine, più delinquenza e 'non si può star tranquilli se anche i militari picchiano le persone così senza motivo', snocciolando ad un anziano cliente quanto sapeva della rissa a pochi isolati di distanza. La mattina seguente aveva bigiato la scuola e aveva telefonato al centro reclutamento di Norfolk, alla base aerea di Oceana, alla segreteria del distaccamento dell'US Navy di Portsmouth, raccogliendo spesso risposte intrise di ironia alternate a un 'Mi-dispiace-non-possiamo-divulgare-questo-tipo-di-informazioni.'
Non avrebbe voluto perdere le speranze ma il ragazzo dagli occhi verdi sembrava essere stato inghiottito dal nulla, finché Allison non le aveva detto di aver scoperto che il padre di Flynn - quello che le piaceva del quarto anno - era un agente di polizia. E dopo giorni e giorni di insistenti richieste accampate con la scusa di una ricerca per un'attività extra-curricolare sull'aumento della criminalità a Virginia Beach, infrantesi per lo più su mura di 'non-posso-devo-chiedere-papà-ci-passerà-dei-guai-non-posso-davvero', alla fine Flynn - che non era proprio sveglio, le aveva portato dei fogli fitti di date e statistiche. E tra quei fogli aveva trovato anche tutti i fermi del mese di Aprile, inclusi quelli del giorno della sua aggressione.
A un centinaio di metri c'era una guardiola e una sbarra chiusa, che si aprì al passaggio di una Jeep grigia; quando fu lì di fronte, un ragazzo con una polo bianca e quelli che sembravano gradi sulle spalle avvicinò le labbra al microfono. "Documenti, prego."
Becky rovistò nella borsa e gli porse la propria ID, quello che gli rilasciò un pass con su scritto "visitatore" e la istruì sul fatto che avrebbe dovuto riconsegnarlo una volta che se ne fosse andata.
La strada pedonale costeggiava un parcheggio pieno a metà, arrivando fino ad una palazzina piuttosto grande: porte a vetro scorrevoli si aprirono sull'atrio di quello che un ampio cartello indicava come 'Ala A'. Spiazzata dal vasto ambiente, Becky avvicinò incerta la reception.
"Io, ehm-" giocherellò nervosamente con le dita sul bancone. "Io cerco Haruka Tenou." Disse allora tutto d'un fiato all'infermiera che, riagganciando la cornetta di uno dei telefoni, le aveva prestato attenzione. "So che è ricoverato qui."
"Lei è una parente?" Inquisì immediatamente quella. Becky non seppe se mentire o meno; alla fine scosse la testa. "No." Disse piano. "Sono una sua amica."
L'infermiera - dalla targhetta sulla divisa sanitaria Becky lesse un 'Shonda' - digitò rapidamente qualcosa al computer. "Uhm, psichiatria." Mormorò. "Solo i parenti e il personale possono accedere al blocco 'E'." L'informò. "Deve attendere qui, o nel parco sul retro se preferisce." Concluse sollevando una cornetta.
Becky si sentì mancare un battito. "Va bene." Sorrise, facendo un passo. "Allora vado-" Mosse una mano di lato. "Esco nel parco."
Chiese informazioni ad un inserviente, e raggiunse l'esterno sbagliando strada solo una volta: era uno spazio verde sul retro del complesso, e complice la giornata soleggiata vi trovò molti degenti. Seduta su una delle panchine che costellavano il sentiero del parco iniziò a tormentarsi le dita, guardandosi intorno per cercare di non fissare la vetrata dell'ospedale: c'era un continuo andirivieni di camici e infermieri, sia fuori che all'esterno. E stampelle, sedie a rotelle, arti artificiali. Un variegato campione di umanità spezzate, Becky non trovò altro modo per definirlo.
Sistemò la borsa, il giubbino; sospirò, gli occhi di nuovo alla porta a vetri: e finalmente lo vide comparire accompagnato da quello che doveva essere un infermiere.
Balzò in piedi muovendo alcuni passi verso di lui che, lo comprese, non realizzò subito la sua presenza. Ma quando la vide osservò l'inarcarsi di un sopracciglio, l'unica reazione sul suo volto. Guardò negli occhi verdi del ragazzo dagli occhi verdi, e pensò di nuovo che fossero belli ma tristi. Ed era anche più alto di come se lo ricordava.
"Ciao." Lo approcciò cauta, sorridendo. "Ti-" Era in imbarazzo. "Ti ricordi di me?"
Non disse nulla per un lungo momento, il viso privo di emozioni. "Come stai?" Aveva la stessa voce bassa e roca che aveva ascoltato al bar.
Becky non si trattenne dal sorridere. "Sto bene." Era un po' emozionata, veramente. "E tu?"
Le labbra di lui si incresparono in un sorriso appena accennato, e sfilando una mano dalla tasca dei pantaloni in felpa mosse le dita in un cenno, ad indicare l'ospedale e il parco intorno a sé. Si sentì una stupida.
E' ricoverato, scema!
"Beh, già." Si sistemò una ciocca di capelli rossi, senza sapere bene cosa dire. Vide passare una ragazza con un mazzo di fiori decorato da un grande fiocco giallo, e il ricordo le attraversò i pensieri. "Oh!" Spostò la borsa davanti a sé. "Ti ho portato dei cioccolatini!" Estrasse un pacchetto infiocchettato. "Ce ne sono un po' di tutti i tipi." Glielo porse. "Ti piace la cioccolata?"
Lo guardò allungare il braccio verso di lei accettando i dolcetti, soppesandoli quando li ebbe sul palmo. "Cioccolatini." Sentì mormorare, prima di tornare a guardarla. "Sei gentile." Rimase in silenzio. "Ti ringrazierei se sapessi come ti chiami."
Becky sgranò gli occhi, una silenziosa esclamazione sulle labbra. "Hai ragione." Curvò la bocca in un sorriso. "Mi chiamo Rebecca Saunders. Tutti però mi chiamano Becky."
Di nuovo quella lieve increspatura alle labbra che non era un sorriso vero e proprio, ma si accontentò. "Va bene, Becky."
"Tu sei Haruka, invece." Esitò. "Giusto?"
Haruka non replicò. "Ho dormito poco stanotte, vorrei sedermi." Disse iniziando ad incamminarsi verso una panchina.
Becky annuì e lo seguì in silenzio.
Pensava solo che l'aveva trovato.
Pensava solo che era felice.

*

Giugno 2009,
Portsmouth,
Virginia

L'estate era arrivata dirompente, un'esplosione di colori nel giardino sempre ben curato.
Percorrendo il vialetto, il nano che ora faceva capolino tra i tulipani in fiore, Michiru si chiese se non stessero facendo un buco nell'acqua. Forse, valutò, sarebbe stato meglio telefonare.
"Non c'è, mamma?"
Hotaru alzò il viso a guardarla quando nessuno rispose al suono del campanello, il disappunto negli occhioni viola. Michiru si strinse nelle spalle, pensosa. "Non saprei, hime. Aspettiamo ancora un momento."
Lei assunse un'aria corrucciata. "Ma io la voglio salutare."
"Proviamo di nuovo." Propose, aiutandola nel saltello che le permise di raggiungere il campanello. Ma dopo un lieve trillo la porta si spalancò, il viso di Charlotte che si illuminò non appena le riconobbe.
"Ehy, ma che sorpresa!" Proruppe scostando la zanzariera, Hotaru che già saltellava sulla soglia. "Disturbiamo?" Michiru lasciò che la donna la stringesse in un abbraccio mentre poneva la domanda, raccogliendo in risposta un movimento del capo. "Ma certo che no cara." Con un passo di lato le invitò ad entrare, indicando poi con la mano un punto alle proprie spalle. "Ero in veranda a leggere." Disse loro, richiudendo la porta d'ingresso. "Là è appena un po' più fresco. Il ventilatore non serve a molto e Bobby non vuol davvero saperne di mettere un condizionatore."
"Con Haruka invece è una guerra continua." Michiru curvò appena le labbra in un sorriso nel rivelarlo. "Tiene l'aria condizionata a temperature polari, in casa. E ad Hotaru non fa certo bene."
Charlotte cercò di arginare una leggera risata, dando quindi alla bambina l'attenzione che stava richiedendo nella forma di un lembo della camicetta tirato con una certa insistenza. "Guarda zia Charlotte! Guardami!"
Piegandosi un po' verso di lei osservò la t-shirt rossa su cui era scritto 'Washington Basketball'; in un saltello Hotaru le mostrò come, stampato all'altezza delle spalle, ci fosse anche scritto il suo nome - non è che lo sapesse leggere, puntualizzò, però gliel'aveva detto Haru che lì c'era scritto Hotaru.
"E' un regalo di Haruka." Spiegò Michiru. "E ora se la vuole sempre mettere."
"Torna questo weekend?" Inquisì la donna, leggendo nello sguardo di Michiru solamente sollievo quando annuì. "Dovrebbe arrivare stasera." La guardò piegare le labbra all'insù mentre posava una mano sulla testina di Hotaru. "E sinceramente non vedo l'ora. Sono quasi tre settimane che non ci vediamo."
Charlotte annuì in un lieve cenno, nei pensieri il ricordo di quando le avevano parlato di come Haruka avesse iniziato ad affiancare Takeshi in alcuni lavori, al Pentagono: insieme a quello tornò la sensazione chiara e netta che aveva avuto all'epoca, ovvero di non riuscire a trovare niente di positivo in quella decisione. Scelse comunque di non dire nulla, evitando qualsiasi commento e lasciandosi contagiare dal sorriso di Michiru. E dalla pura felicità che aveva negli occhi alla sola idea di di rivederla.
"Accomodati Michiru, per favore." Indicò il divano nel dirlo, l'altra mano che andava a stringere le dita paffute di Hotaru. "Ti va un caffè? O preferisci qualcosa di freddo?"
"Non possiamo trattenerci molto, purtroppo." Frugò nella borsa prima di proseguire. "Siamo passate per darle questo."
Le porse la busta su cui era stampata l'intestazione dell'Opera House di Norfolk. "Alla fine di questo mese ho un concerto. Ho pensato le facesse piacere venire."
Charlotte inclinò il capo, avvicinandola per prenderla dalle sue mani. "Mi fa ben più che piacere, cara. Assolutamente." Le sorrise. "Ti ringrazio."
Michiru ne fu felice: la guardò riporre la busta nel cassetto della libreria, osservandola poi dirigersi in cucina insieme ad Hotaru mentre le diceva che anche Bobby avrebbe certamente apprezzato, dal momento che amava la musica da camera.
Si mosse senza rumore nel soggiorno, i passi attutiti dalla moquette; avvicinò il mobile delle fotografie, osservando la stampa del Sephirot e le nuove immagini dei gemelli che si erano aggiunte alle numerose già presenti. Sorrise quando ne trovò in cui la piccola Beatrice tentava di tirare i baffi del nonno.
Ascoltò Charlotte invitare Hotaru a sedersi quando furono di ritorno, e voltandosi nella loro direzione guardò Hime accomodarsi su una delle sedie del soggiorno, iniziando quindi a bere il succo di frutta che la donna le aveva appena offerto.
"Hai detto che Haruka torna stasera?" La domanda attirò la sua attenzione; annuì avvicinando il tavolo.
"Sai Michiru, mi chiedevo-" Charlotte si interruppe. "Domani Rudy e Danielle tornano dalla Florida e i gemelli hanno già detto che vogliono dormire qui." Sorrise. "Così pensavo che potreste portarmi anche Hotaru."
Michiru alzò le sopracciglia, una certa sorpresa scaturita da quell'affermazione. Charlotte curvò le labbra in un sorriso. "Bobby monterà una tenda da campeggio e faremo anche i Marshmallow. Sarà divertente."
"E' un'offerta gentile da parte sua, Charlotte. Grazie." Michiru non sapeva cosa dirle: non che non si fidasse della donna - ormai la fiducia in Charlotte non era davvero oggetto di discussione, ma le uniche volte in cui Hotaru aveva passato la notte fuori era stato a casa di Usagi e Mamoru, in ambienti conosciuti e familiari.
"Ovviamente solo se la cosa vi fa stare tranquille." Charlotte ne cercò lo sguardo, interpretandone l'indecisione. E prendendo il bicchiere di succo di frutta ormai vuoto dalle mani di Hotaru, proseguì. "E solo se fa piacere anche ad Hotaru. Che ne pensi, tesoro?" Aggiunse piegandosi in direzione della bimba, che la guardò alzando gli occhioni viola. "Che cosa?"
"Ti andrebbe di stare qui a giocare con me, Benji e Bea?"
In un saltello scese dalla sedia. "Quando vengono Benji e Bea?" Un altro piccolo salto. "Adesso?"
"Domani sera." La donna le accarezzò la testina. "Faremo un sacco di giochi e dormiremo in tenda come dei veri esploratori." Lo disse in un tono così entusiasta che Hotaru non riuscì a nascondere l'ardente desiderio di restare. "Posso mamma?" Andò ad aggrapparsi alla gonna di Michiru. "Posso dormire nella tenda come i sporatori?"
All'annuire di Michiru la bimba festeggiò con numerosi saltelli. "Allora vi aspetto domani." Le salutò sulla porta Charlotte.
In macchina Hotaru esternò il dubbio se Haru si fosse dispiaciuta del fatto che se ne sarebbe andata a dormire da zia Charlotte.
E prima che Michiru riuscisse a rispondere, sentì il telefono squillare nella borsa.

*

Haruka allungò il braccio, distendendo le dita per riuscire a raggiungere il telecomando del condizionatore abbandonato all'angolo opposto del divano: quando lo ebbe in mano abbassò la temperatura di un altro grado.
Michiru non avrebbe avuto niente da ridire.
"Haru!" Hotaru le posò la manina sulla guancia. "Guarda Haru!"
"Sto guardando."
Lanciò l'oggetto sul cuscino accanto, la bimba che si accoccolava meglio su di lei; un basso ronzio le diede coscienza del comando ricevuto dal condizionatore, e arrivò alla conclusione che Michiru esagerava sempre: le temperature che preferiva non erano affatto artiche, come le piaceva definirle quando le rimproverava il presunto abuso di aria condizionata - soprattutto se in casa c'era anche Hotaru. E poi non era mica colpa sua se fuori faceva davvero troppo caldo, senza contare il fatto di avere costantemente la piccola appiccicata addosso. Proprio come in quel momento.
In un lieve sospiro incrociò le caviglie sul basso tavolino di fronte, tornando a dare attenzione al televisore dove scorrevano le immagini del film animato.
"Scricciolo," inclinò un po' la testa, perplessa. "Perché una principessa dovrebbe vivere con quelle tre-" Si interruppe, cercando un sinonimo consono all'epiteto - sicuramente calzante - che le era venuto in mente per definire le tre fate che si occupavano di quella che, se aveva capito bene, sarebbe divenuta la bella addormentata. "Uhm, stordite?"
Hotaru alzò il faccino a guardarla. "Perché si nasconde, Haru." Spiegò tirandosi un lembo della t-shirt rossa. "Aurora si deve nascondere dalla strega cattiva."
Tornando a guardare il film, Haruka limitò la propria replica ad un pensoso annuire. La scena cambiò in nuove immagini: appoggiando il viso sul palmo della mano, corrugò la fronte. "Questo bellimbusto invece chi è?"
"E' Pilippo!" Hotaru rotolò veloce dalle sue gambe al divano per saltellare vicino a lei. "E' il principe, Haru!" Si mise a ridere. "Si innamorano!"
"Ma se si sono appena incontrati." Obiettò Haruka; lei fece due nuovi saltelli, un cuscino che finì a terra insieme al telecomando del condizionatore. "Pilippo la va a salvare e gli da un bacio e Aurora si sveglia."
Haruka tamburellò le dita sul bracciolo, lo sguardo al televisore. E indicando la nuova scena tornò a rivolgersi ad Hotaru: "Ma è lo stesso che all'inizio era un ragazzino?"
Lasciandosi cadere seduta sul divano, Hotaru si portò le manine alla testa. "Haru uffa!" Disse tutta compita. "Io però mi stanco! Non ti posso sempre spiegare tutto!"
Haruka inarcò un sopracciglio. "Ti sto annoiando?" Posò una mano sul ginocchio nel chiederlo, piegandosi verso la bambina che incrociò le braccia al petto. "Sì."
Guardò Hotaru rafforzare l'affermazione con un movimento della testa, e rimase un istante in silenzio. "Sai cos'è veramente noioso, nana?" Proruppe quindi, prima di allungare una mano e infilarle un dito nell'orecchio. "Questo è noioso."
Hotaru liberò un gridolino, scostando le dita con entrambe le manine; Haruka andò a pizzicarle il fianco. "E anche questo è molto noioso. E fastidioso." La bimba gridò ancora e scoppiò a ridere, e quando Haruka iniziò a farle il solletico si divincolò fino a scendere dal divano, correndo via e raggiungendo la porta che si stava aprendo, dopo un giro intorno al pianoforte.
"Mamma, Haru mi da fastidio!"
Michiru non riuscì a non sorridere, la bimba che saltellava aggrappata alle pieghe del suo vestito. "Haru, perché sei fastidiosa?" Scherzò allora, richiudendo la porta e lasciando la borsa sul ripiano lì accanto.
Haruka portò una mano a grattarsi la schiena mentre si alzava dal divano. "Perché le chiedo le cose e non mi risponde."
Le labbra di Michiru liberarono una risata, schioccando quindi un bacio ad Hotaru una volta che la ebbe tra le braccia. Ma il disappunto le animò il viso non appena si accorse del capo di abbigliamento indossato dalla piccola. "Amore, ancora questa maglia?"
Lei annuì con forza, giocherellando con la collana che aveva al collo.
"Haruka?" Ne attirò l'attenzione, "perché gliel'hai messa di nuovo?"
"Se l'è voluta mettere da sola. Non sapevo fosse di nuovo." Si giustificò in una scrollata di spalle, avvicinandola. Il petto di Michiru si sollevò in un breve sospiro, un'occhiata alla t-shirt rossa della squadra di pallacanestro di Washington. "Saranno già due giorni che la mette." Commentò laconica, lasciando tornare la bimba con i piedini a terra dopo un breve divincolarsi. "Tra poco si getterà da sola in lavatrice."
"Ehy, ma sono i Wizards! Lasciala stare." Haruka incrociò le braccia, trovando con il fianco il bordo del tavolino mentre Hotaru tornava verso il divano, l'attenzione di nuovo al film animato. "Avremmo dovuto iscriverla a pallacanestro. Non capisco proprio perché si ostini a voler fare la ballerina."
Michiru l'avvicinò di un passo. "Le piace la danza." Ne cercò lo sguardo. "Tu non avevi niente che ti piacesse fare, da bambina?"
"Correre." Haruka lo disse dopo un momento, muovendo poi le dita davanti a sé. "Avanti e indietro, correvo e basta. Lo spazio non mi mancava di certo, la casa di Washington l'hai vista."
Michiru annuì, ricordando la villa di East Potomac; bandendo dai pensieri quello che v'era successo dentro. Sentì le dita di Haruka spostarle una ciocca dietro l'orecchio. "Com'è andata in ospedale?"
Sorrise: gli slanci affettuosi dell'altra non erano più così rari, ma erano sempre una piacevole sorpresa. "Bene." Disse piano, posandole le mani sulle spalle e alzandosi sulle punte a sfiorarle le labbra: le era mancato il contatto con Haruka, le era mancato guardarla giocare con Hotaru. Le era mancata da far male, punto. "Che cosa avete fatto stamattina?"
Haruka si strinse nelle spalle, allacciandole le mani appena sopra il bacino. "Niente di particolare. Ti stavamo aspettando per uscire."
Michiru lasciò che le labbra di lei si prendessero un nuovo breve bacio. "Ieri ho portato a Charlotte l'invito per il mio concerto." Le disse, sommità dell'iceberg di tutte le cose che voleva raccontarle.
"Hai fatto bene."
"E mentre parlavamo si è offerta di tenere Hotaru, visto che organizza una sorta di pigiama party con i gemelli."
Haruka corrugò la fronte: da quando avevano deciso di lasciare tranquilla Usagi vista la situazione, ritagliarsi piccoli angoli di intimità era diventato un problema di entità decisamente notevole. "E scricciolo cosa dice?" Aspettava ancora un momento a trasformare l'illusione in certezza.
"E' sembrata molto entusiasta all'idea."
Piegò appena le labbra all'insù, senza dire niente; i passetti in corsa di Hotaru attirò la loro attenzione. "Usciamo mamma?"
Sciogliendo l'abbraccio, Michiru si voltò per stringerle entrambe le manine. "Certo hime.” Si accucciò davanti a lei. “Dove vogliamo andare?"
La piccola aprì le labbra, ma per liberare un rumoroso starnuto. E lì Michiru focalizzò.
"Haruka." Alzò un po' il viso, gli occhi nello sguardo smeraldo. "A quanti gradi è il condizionatore?"
Lei non tradì emozioni, e incrociando le braccia al petto agitò le dita in un vago cenno. "A una temperatura normale."
Normale per un orso polare. Michiru gemette il proprio disaccordo. "Abbassalo. Subito." Era un tono che non ammetteva repliche, sollevandosi e prendendo la via del corridoio insieme alla piccola.
"Sei esagerata, Michiru." Le camminò dietro senza fretta; Hotaru si liberò della presa della madre, andando ad aggrapparsi alla sua gamba.
"Mi faccio una doccia veloce," Michiru ignorò la sua obiezione, fermandosi sulla porta del bagno. "Cambia Hotaru, per favore. Ma prima-"
"Abbassa il condizionatore, ho capito." Inclinò la testa, un'aria sorniona. "Posso entrare nella doccia con te?"
La guardò appoggiarsi alla porta, inclinando un po' la testa, prima di richiuderla senza rispondere.
“Andiamo Haru? Eh, andiamo?"
Abbassando lo sguardo trovò gli occhioni viola di Hotaru. "Devi cambiarti, o il Generale Kaioh ci metterà in contenimento."
"Guarda che vi sento!" Le parole furono piuttosto chiare, sebbene attutite dal battente. Haruka piegò le labbra in un sorriso mentre anche Hotaru si metteva a ridere, stringendosi più forte alla gamba.
"Andiamo, Capitan Scricciolo, in marcia. Hop, hop!" Mosse una mano, e lei rise di nuovo... senza spostarsi di un millimetro.
In un sospiro, Haruka si rese conto di aver perso la propria autorità.
Ma probabilmente dire che non ne aveva mai avuta sarebbe stato più corretto.

*

'La riduzione del drop-out riportata nel periodo di osservazione (15% Vs 55.5% precedentemente rilevato tra coloro che avevano già intrapreso una psicoterapia), rappresenta un dato incoraggiante a sostegno della validità del-'
Le parole fuggirono alla vista di Michiru, gli appunti tra le mani di Haruka. "Che roba è?"
"Un articolo." Sorrise, piegando appena le gambe mentre l'altra si sedeva sul letto accanto a lei. "Devo studiarlo per un aggiornamento."
Haruka sfogliò rapidamente il plico, prima di lanciarlo via con poca eleganza. "Smetti di studiare." Le scivolò più accanto, le dita a posarsi sul ginocchio lasciato scoperto dall'ampia t-shirt che l'altra indossava. "Studia me." Aggiunse piano.
Appoggiandosi alla testiera del letto, Michiru le permise di sistemarsi tra le sue gambe. "Hotaru si è addormentata?" Stava aspettando solo quello, e gli appunti che teneva sul comodino le erano sembrati un buon diversivo.
La replica di Haruka fu un lieve annuire, le dita che si mossero leggere sulla coscia. "Hai finito di trattarmi male?" Glielo chiese sulle labbra, liberando un sibilo sottile quando Michiru, aprendo la bocca, le lasciò un morso sul labbro inferiore. "No."
Le mani si insinuarono sotto la maglia, accarezzandone la vita. "Che crudele."
Un angolo delle labbra di Michiru si piegò all'insù. "Mi ha chiamata Becky ieri. E' tornata da Chicago per le vacanze estive, ti saluta."
Haruka le accarezzò piano la schiena. "Cosa dice quella piattola iperattiva?"
La guardò con disappunto, strappandole un lieve sorriso. "Domani delle sue amiche hanno organizzato una festa in una casa al mare, e se vogliamo andare siamo le benvenute."
"Un party di ragazzini a Virginia Beach. Meraviglioso." Haruka non provò nemmeno a nascondere l'ironia. Lei le accarezzò le braccia. "Il tuo entusiasmo è contagioso, Haruka." Scherzò. "Andiamo, è un'idea carina," tornò a dire. "Non vado a una festa da quando Kate era incinta di Hotaru." Si avvicinò al suo viso. "E ci andai con un tipo piuttosto belloccio."
"Bene, allora chiama lui per andarci." L'altra ne sostenne lo sguardo. "Io potrei farmi tenere compagnia da qualcun altro."
Michiru inclinò la testa, senza replicare. Haruka non si aspettò la mano in faccia che la fece quasi cadere all'indietro. "Ouch!"
"Qualcun altro, uh?" La provocò, provando a colpirla ancora mentre si metteva in ginocchio sul letto; le strappò un sorriso quando, dopo diversi infruttuosi tentativi, riuscì a spingerla distesa sulla schiena, mettendosi poi a cavalcioni su di lei. E fermandole i polso sopra la testa Michiru incrociò le iridi smeraldo attraversate da un guizzo divertito.
"Vediamo,” sussurrò, “perché non chiami la tua amica Minako?"
Haruka alzò le sopracciglia. "Ancora con questa storia?" Ma si accorse che le veniva da ridere, e forzando la presa delle mani se ne liberò, andando a sfiorarle il profilo delle gambe; Michiru lasciò scivolare le dita sul suo viso, scendendo sul collo fino al ventre coperto dalla maglia: infilandosi al di sotto di quella andò alla ricerca delle piccole cicatrici che amava accarezzare, sorridendo al pensiero che presto le avrebbe assaporate e-
"Cosa fai, mamma?"
Quelle tre parole furono una doccia gelida. Si voltarono quasi all'unisono verso la porta dove Hotaru le guardava con in braccio Luna, gli occhioni viola pieni di stupore. "Err-" Michiru si raddrizzò immediatamente, Haruka che si sollevava sui gomiti. "Giocavo con Haru."
"E che gioco è?" In un saltello fu in ginocchio sul letto, abbracciandosi ad Haruka ed ottenendo in risposta un leggero sbuffò.
"Come mai ti sei alzata, tesoro?" Inquisì, sviando il discorso; la piccola si accoccolò sul grembo di Haruka. "Voglio stare con te e con Haru." Scivolò sul lettone mettendosi al centro, tra i due cuscini. "Vieni, mamma?"
Incrociò brevemente lo sguardo di Haruka prima di stendersi accanto a lei. Hotaru Invitò anche Haruka, e quando furono tutte e tre distese lasciò andare un soddisfatto 'aah'. Finse di nascondersi sotto le coperte, giocando a spaventarle; chiacchierò un po' della scuola e dei pesci e del cane che avrebbe chiesto a Santa, addormentandosi dopo un numero imprecisato di sbadigli.
"Certo che sta quasi diventando un lavoro." Haruka si girò sul fianco, lasciando una carezza sulla schiena di Hotaru; Michiru sorrise, cercandone le iridi smeraldo. "Potrei darti appuntamento."
"Già. Controlla l'agenda." Scherzò. Seguì un silenzio rotto solo dal pesante respiro di Hotaru.
"Una sveltina sul divano?" Haruka lo propose dopo un lunghissimo momento, e Michiru trattenne una risata.
"Haruka."
"Allora in bagno. Dai.”
Michiru si sollevò, e facendo attenzione alla piccola distesa a pancia in giù allungò le dita a sfiorare la guancia di Haruka. "Per adesso deve bastarti il fatto che-" sorrise, "ti amo tanto."
L'altra liberò un sospiro pieno di rassegnazione. “Solo per stasera.” Precisò, incrociando le braccia sotto la testa. La camera piombò nel buio quando Michiru spense la luce dall'interruttore sopra il comodino.
“Il tavolo della cucina?”
“Smettila!” Sibilò divertita. Haruka non disse altro.
Ma nessuna delle due si addormentò.

*

Giugno 2009,
Virginia Beach,
Virginia

Nella casa rimbalzavano musica e risate, e Haruka si scostò per far passare due ragazzi che sorreggevano pesanti scatoloni di birra.
Ormoni liberi e pericolosissimi, pensò vagando con lo sguardo per la stanza: nel soggiorno era stato eliminato ogni elemento d'arredo superfluo, lasciando solo due divani e un piccolo tavolo addossato alla parete su cui si potevano trovare diversi tipi di alcolici. Appoggiando le labbra alla bottiglia di birra scorse Michiru intenta a chiacchierare con due ragazze che si erano immediatamente palesate come sue ammiratrici, spiegando di averla sentita suonare al concerto per il Memorial Day del maggio precedente.
Sospirò, provando a rilassarsi: Michiru sembrava contenta, anche se lei avrebbe preferito di gran lunga rimanere a casa ad occuparsi di ogni singolo centimetro del corpo di lei, scricciolo che sarebbe rimasta fino l'indomani mattina a casa di Charlotte. L'aveva lasciata intenta a creare fantasiosi lavori di pasta di sale insieme ai gemelli, Robert che montava la tenda dove la donna le aveva spiegato si sarebbero messi a dormire fingendosi campeggiatori.
Attraversò il soggiorno in pochi passi, finendo per curiosare nel corridoio: c'era una scala che saliva al piano superiore, ma la ignorò ipotizzando che portasse alle camere da letto. Per un breve momento valutò di salirle con Michiru in spalla, ma sorridendo a quell'immagine da cavernicola priva di raziocinio passò oltre, percorrendo lo stretto disimpegno nella sua interezza e fermandosi nei pressi di una porta a vetri. La fece scorrere, uscendo quindi sulla larga terrazza che sembrava circondare tutto il piano terra, travi a sostegno che si piantavano sulla spiaggia sotto di loro. Mosse alcuni passi, le assi che producevano leggeri scricchiolii sotto i suoi piedi; c'era una grande luna in cielo a specchiarsi sulla tavola quieta del mare. E affacciandosi sul retro non si aspettò di trovare Becky seduta a terra, un'aria completamente assorta.
Rimase in silenzio, osservandola per un lungo istante dal momento che sembrava non si fosse accorta della sua presenza: era strano vederla così quieta, lei che era sempre un'esplosione di energia. Risate dirompenti saturarono l'aria prima che qualcuno richiudesse la porta a vetro, smorzandole.
"Momento malinconico?" Decise di palesarsi; la guardò sobbalzare appena. "Sei tu." Becky le rivolse un sorriso.
"Come mai non sei in mezzo a quel caos primordiale?" Glielo chiese dopo aver tirato un sorso di birra. La ragazza rise, stringendosi poi nelle spalle. "Volevo stare un po' qui da sola."
Inarcando un sopracciglio, Haruka pensò che era sicura di aver visto Gabriel, in casa. E anche piuttosto sorridente. Però forse- "Hai litigato con il moccioso?"
"No, no." Lei scosse la testa a rafforzare la negazione, corrucciandosi appena al nomignolo con cui si era rivolta a Gabriel; le mise a vista la Reflex dopo averla sollevata con entrambe le mani.
"Volevo fare delle foto."
Haruka annuì, e appoggiandosi alla balaustra pensò che quella villetta fosse carina. "Di chi è la casa?"
"Dei genitori di Allison." La spiegazione arrivò in un istante, preludio a un breve silenzio. "Come va al College?" Le sembrò una cosa carina da chiedere.
Becky intrecciò le dita sopra le ginocchia. "Mi piace, sto bene." Una pausa. "Credo mi confermeranno la borsa di studio."
"E' una bella cosa."
Lei fece un cenno affermativo con la testa. Quindi la guardò divertita. "Se non ti interessa non ne dobbiamo parlare per forza."
La replica di Haruka fu un incomprensibile grugnito che le strappò una risata. "Non pensavo di vedervi, sai?" Disse allora.
"Beh, Michiru ha iniziato a dire 'non-facciamo-mai-niente-non-mi-porti-mai-in-nessun-posto'." Schioccò le labbra. "Sai come sono le donne, no?" Le fece l'occhiolino mentre lo diceva, un sorriso che animò il viso della ragazza.
Ascoltò un vociare confuso: sporgendosi immaginò che qualcuno avesse deciso di proseguire la festa in spiaggia.
"Haruka?" Becky attirò la sua attenzione in un lieve mormorio. "Posso farti una domanda?"
Mosse la bottiglia di birra, agitandone il contenuto all'interno. "Me l'hai già fatta." Constatò. Becky non disse niente. "Tu-" Si fermò. "Te lo chiedi mai se sei felice?"
Corrugò la fronte, spostando il peso del corpo sul gomito appoggiato alla ringhiera. "E' una domanda impegnativa."
"Lo so, hai ragione." Becky strinse le ginocchia al petto. "Scusami."
"Non ti senti felice?" Inquisì, ma lei scosse la testa. "Non è quello. Io sono felice," la guardò. "Però a volte tutto va troppo veloce, e se riesco a fermarmi un attimo inizio a chiedermi se sto realmente facendo quello che voglio, oppure se lo stia facendo solo perché deve essere così." Corrugò la fronte. "E' un po' contorto. Non so se-"
"No, ho capito." La fermò: dopotutto era un problema che conosceva bene. Non replicò subito, ma quella conversazione le portò alla mente le parole che si era scambiata in Iraq con Richard; certe paure, certi dubbi che ritrovava identiche sebbene si trattasse di contesti totalmente diversi.
"Una volta non me lo domandavo mai, se fossi felice." Iniziò a dirle, e Becky attese. "Non me lo chiedevo perché quando lo facevo, significava stare lì a chiedermi che cosa avessi fatto per meritarmi di non esserlo."
Lei non fece alcun commento. "E ora?"
Un angolo della bocca si curvò all'insù. "Ora penso che non sia la domanda in sé, alla fine." Una pausa. "Credo piuttosto che il problema sia nel tempo in cui ci metti a rispondere se sei felice o no." Le iridi smeraldo trovarono gli occhi chiari della ragazza. "Perché se devi pensarci, c'è già qualcosa che non va."
"Dici sia quello il punto?" Becky era incuriosita dalla teoria. Haruka allargò appena le mani, "Ah, non lo so. E' solo una mia idea." Tornò a sorridere. "L'idea di una testa di latta vuota, quindi prendila con le dovute precauzioni."
"Smettila," la rimproverò; quindi si appoggiò con la guancia alle ginocchia. "Però non mi hai risposto. Sei felice?"
"Adesso sì." Non doveva più pensarci. "La mia vita è cambiata drasticamente in questo ultimo anno. Voglio dire, te lo ricordi com'ero."
Becky rimase pensosa, annuendo. "Ti ho portato dei cioccolatini in ospedale." Sorrise al pensiero, prima di portarsi una mano alla fronte. "Che stupida, eh?"
"Credimi, lo apprezzai molto." Era sincera. "Tu sei la prima persona che mi sia venuta a trovare. Fu piacevole."
La ragazza non smise di sorridere; liberò un sospiro tornando seria, i ricordi di nuovo ad occuparle la mente. "Quella volta-" si fermò, ma Haruka comprese lo stesso. "Io non ti ringrazierò mai abbastanza, lo sai questo vero?"
"Non sono un eroe, Becky. “ Si accigliò. “E' un'etichetta che non mi è mai piaciuta."
"Non lo devi essere per gli altri." Una pausa. "Lo sei per me."
Haruka scelse di non rispondere, ingoiando un altro sorso di birra.
"Quando sono venuta a trovarti mi dicesti che volevi cambiare medico." Becky inclinò un po' la testa, sul volto un nuovo sorriso. "La dottoressa Kaioh ti piaceva già, vero?"
"C'erano tante cose di me dalle quali volevo tenere Michiru lontana, “ la risposta arrivò dopo alcuni istanti, “ma che lei si ostinava a voler conoscere." Tornò ad appoggiare la schiena alla balaustra per poterla guardare. "Il suo perseverare è stato spiazzante sotto molti punti di vista." Si fece assorta. "Ci sono tanti modi di salvare una persona, Becky, non per forza eclatanti. A volte bastano," sorrise. "Dei battiti d'ali.”
Becky pensò che avesse ragione. Un sospiro riempì l'aria tra loro. “Alla fine peso di essere cresciuta molto nell'ultimo anno."
"Certo.” Convenne Haruka. “Prima eri una bambina. “ Mise la mano a mezz'aria, all'altezza della gamba, prima di sollevarla di pochi centimetri. “Adesso sei una bambina un po' più grande."
"Oh, ma vai un po' a quel paese!" La reazione di lei le impedì di trattenne una risata; girandosi tornò a guardare la tavola ferma del mare. Si voltò quando sentì il click della macchina fotografica. "Non mi hai fatto una foto, vero?"
Becky si mise in volto un'espressione del tutto innocente. "Sei un soggetto molto fotogenico, sai?"
Haruka mormorò un seccato 'bah', le assi che cigolarono sotto il peso di qualcuno che le stava avvicinando. "Becky, ti ho cercata dappertutto!" Gabriel sembrava sollevato di averla ritrovata. "Che ci fai qui?"
"Chiacchieravo con Haruka."
“Ah.” Gabriel realizzò la presenza di Tenou. “Allora ok." Si grattò la testa nel dirlo. Ad Haruka non sembrò troppo convinto.
"Ehy, Gabi." Schizzò in piedi, lui che continuò a darle attenzione. "Sei felice?"
Gabriel non capì il senso di quella domanda: guardò brevemente entrambe nella speranza di trovarlo, ma non accadde. "Sì." Decise comunque di rispondere, le labbra piegate all'insù. "Certo che lo sono." Non ci aveva pensato.
Haruka si staccò dalla ringhiera, la bottiglia di birra ormai vuota.
"Haruka?" Becky l'aveva avvicinata di un passo, le dita intrecciate a quelle del ragazzo. "Non è che ti posso abbracciare, vero?"
Inarcò un sopracciglio. "Abbraccia lui." Indicò Gabriel. "Ci sta apposta."
Ascoltò la risata di Becky. E rientrando in casa, Haruka scosse la testa in un sorriso.

*

Michiru si avvicinò al tavolo degli alcolici, stupendosi del vasto assortimento. C'era persino - non riuscì a trattenere un sorriso sollevando la bottiglia di sake.
"Quello ti stende, se non ci sei abituata."
Si voltò verso il ragazzo che l'aveva avvicinata. "Ne so qualcosa." Si mantenne vaga rimettendo il liquore al suo posto, lui che faceva ancora un passo verso di lei. "Tu devi essere caduta dal paradiso, perché puoi essere solo un angelo."
... Paradiso?
Angelo?

Che tenerezza, pensò sorridendo. E si limitò a quello, perché stava per scoppiare a ridere ma sarebbe stato poco carino nei confronti del giovane, decisamente convinto della bontà di quell'approccio. "Io sono Ed." La mano di lui si tese nella sua direzione.
"Ehy Ed, come va?"
La mano di Haruka strinse con forza quella di lui, l'altra che finiva sulla vita di Michiru la quale non si era nemmeno accorta del suo arrivo. Il ragazzo la guardò perplessa, prima di spostare gli occhi scuri su Tenou. "Ehm, ciao." Rispose alla stretta, Haruka che non lo lasciava. "Io sono Haruka." Si presentò. "Che si dice al college?" Inquisì. "Scommetto che sei nella squadra di football."
Gli approcci amichevoli di Haruka portavano sempre a nulla di buono, ricordò Michiru: ma ora aveva imparato la lezione, e nell'eventualità di una boutade come nel caso del presidente della filarmonica, sarebbe stata pronta a tapparle la bocca.
"Ecco," Ed cercò senza successo di sfilare la mano. "Sì, gioco a football. Sono guardia ester-"
"So sparare con sette tipi di armi diverse, Ed." Haruka pronunciò il nome con estrema lentezza senza mutare espressione mentre, parlando sulle parole di quello, si infischiava ampiamente di quanto le stesse dicendo. "Se sei interessato, per la cosa del paradiso potrei aiutarti."
Finalmente Ed riuscì a togliere la mano. "Magari la prossima volta."
"Bravo, Ed." Aveva capito subito. Che perspicacia.
Michiru si girò nella sua presa, il ragazzo ormai lontano. "Penso tu l'abbia spaventato." Si portò le dita al mento. “No, spaventato è poco.”
Lei ne cercò lo sguardo, ignorando la frase. "Andiamo via?" Le toccò le labbra con le proprie. "Per favore? O ti prendo in braccio e ti porto fuori di peso."
Michiru curvò le labbra in un sorriso, prendendole la mano. "Andiamo a salutare Becky."

*

C'era poco traffico lungo la statale che riportava a Portsmouth, sporadiche automobili che percorrevano la carreggiata opposta, verso la vita notturna di Virginia Beach.
"Alla fine non è andata poi così male, no?" Michiru aveva un tono divertito, la Viper che scivolava silenziosa sull'asfalto. Curvando la bocca in un sorriso, Haruka preferì non replicare.
Le dita si posarono su quelle di lei abbandonate sul cambio, muovendosi poi lungo il braccio; perdendosi nei corti capelli dietro la nuca. Haruka le lanciò una brevissima occhiata, e quando si fermò al semaforo si voltò a guardarla. "Ti sei divertita un mondo, uh?"
Michiru lasciò scorrere le dita sul profilo del volto, posandole sulle sue labbra. "Ah-ah." Convenne in un mormorio, sorridendo quando l'altra le lasciò un lieve morso sui polpastrelli; le dita passarono sul mento per agganciarsi al primo bottone della camicia.
La Viper ripartì, e l'attenzione di Haruka tornò alla strada.
Aveva sempre pensato che fosse affascinante guardarla guidare, osservandone l'aria concentrata; la sicurezza di ogni gesto. E spostandosi sul sedile in pelle, sorrise all'idea che le attraversò la mente, i denti che affondavano sul labbro inferiore. L'avvicinò, una mano sulla plancia che divideva i due sedili, l'altra a posarsi sulla sua spalla: le labbra dischiuse accarezzarono piano la guancia, prima di posarsi leggere sul collo.
"Che fai?" Haruka lo sussurrò, quel tono di voce basso che stuzzicava così amabilmente i suoi sensi; tornando a sedersi, Michiru scivolò un po' in avanti con il bacino. "Com'era quella tua fantasia?"
Le luci della città scorrevano veloci al di là del finestrino, e Haruka non esternò reazioni quando Michiru, con esasperante lentezza, iniziò a sfiorarsi il ginocchio, quindi la gamba. Fermandosi sull'orlo dell'abito a fiori, per poi insinuarsi al di sotto. "Quella in auto." Suggerì in un soffio, benché fosse sicura che l'altra la ricordasse.
Nitidamente.
Rallentarono prima di un incrocio; una nuova accelerazione. "Già." Fu l'unica replica, ma Michiru notò quella ruga che si era formata sulla fronte. E, di nuovo ferme ad un semaforo, lasciò che la mano di Haruka le accarezzasse la coscia fino ad insinuarsi tra le pieghe del vestito.
“Mh, no no.” La tolse schioccando le labbra, Haruka che inarcava un sopracciglio. “Ero da sola, giusto?” Si era divertita ad illuderla.
“Michiru.”
“E' verde.” Le fece notare. E con l'auto d nuovo lanciata verso Portsmouth decise che anche per lei il limite era ampiamente superato: poco dopo essersi lasciate alle spalle le indicazioni per Norfolk tornò ad avvicinarla. "Gira per London Bridge."
Haruka non comprese, basita. London Bridge?
"Che cosa devi fare a London Bridge?" Sbottò, dal momento che tanto per casa sua che per l'appartamento di Michiru London Bridge Road costituiva una deviazione che portava dall'altra parte della città.
"Gira, Haruka."
Si sentiva esplodere. “Michiru, non puoi fare i giochini e poi uscirtene con-”
"Fidati di me," la interruppe. "Prendi London Bridge."
Haruka avrebbe sfondato il parabrezza dell'auto con la testa, se non avesse amato così tanto la sua Viper. E anche la sua testa - seppur un po' meno. Seguì le istruzioni di Michiru in un gemito frustrato, iniziando a percorrere la trasversale della London Bridge Road: conosceva poco quella parte di città, ma sapeva che si trattava per lo più di un agglomerato di quartieri residenziali.
Michiru rimase pensosa per un lungo momento, quindi le chiese di tornare indietro per infilarsi in una via che avevano appena superato. "Prosegui dritta," la istruì, e quando Haruka, oltrepassando l'ultima schiera di villette con giardino, credette di essere finita in un vicolo cieco, si accorse che la strada si immetteva in un inserto d'asfalto poco illuminato: un raccordo ad una stretta strada che costeggiava una fitta boscaglia.
"E' la vecchia strada di servizio per l'aeroporto militare." Spiegò Michiru. "Da quando l'ingresso principale è stato spostato sull'Apollo Rail, questo accesso è stato dismesso e non ci passa più nessuno."
Haruka era piuttosto perplessa. "Come fai a conoscere questo posto?"
Michiru la guardò ma non replicò. "Fermati qui." Mormorò quando gli alberi si diradarono in una piccola radura; in lontananza si vedevano le luci della stazione navale aerea Oceana.
Di sicuro sarebbero tornate sull'argomento , ma tirando il freno a mano Haruka decise che per il momento i motivi per i quali l'altra sapesse di quella strada le fregavano meno di niente, le dita di Michiru già sul viso per esigere un bacio.
Nemmeno il tempo di togliersi la cintura di sicurezza.
Sentì le sue mani sotto la camicia, sulla schiena, e aprendole le labbra si mosse sul sedile, un braccio a circondarle la vita provando a stendersi sopra di lei. Ma quando sollevò la testa per sistemarsi, il retro del cranio batté rumorosamente sull'abitacolo.
"Ti sei fatta male?" Michiru inarcò un sopracciglio, accarezzandole la guancia mentre Haruka si massaggiava la parte offesa. "No." La baciò. "Non ci pensare."
Curvando la schiena piegò un ginocchio per puntellarsi sulla plancia del cambio, le mani impazienti che scivolarono sotto il vestito: le sfilò le mutandine, Michiru che piegò le gambe per aiutarla nell'operazione difficoltosa vista l'assenza di spazio; liberandosene con un calcio della caviglia che le fece urtare il cruscotto con il ginocchio. “Ahi!”
“Che succede?” Haruka si reggeva aggrappata al sedile, il viso contro il suo collo. Michiru scosse la testa, e allungando una gamba posò il piede sul volante, le mani corse ai bottoni dei suoi pantaloni. Haruka cercò di spostarsi più di lato. “Aspetta, togli la gamba.” Suggerì: nel movimento tolse la marcia dal cambio e il gomito batté sul freno a mano.
Urtarono un vetro, lo specchietto retrovisore: il piede di Michiru ruotò la manopola della radio e per un momento interminabile le note di 'Lithium' rimbombarono a tutto volume nell'abitacolo prima che Haruka riuscisse a zittire l'inopportuna invadenza di Kurt Cobain.
“Ma perché devi essere così alta?" Michiru canzonò i movimenti maldestri dell'altra, prima di spingerla verso il sedile autista. "Siediti." Le ordinò, mettendosi poi sopra di lei. Nascose un lamento quando la schiena urtò sul volante, la mano che si posava sul tettuccio. "Il sedile può andare più indietro?"
"E' già il massimo."
"Ecco." L'avvicinò ancora, una gamba tra lo sportello e una sulla plancia, ma non infastidita dal freno a mano. "Così dovremmo esserci."
Fu quasi liberatorio riuscire a baciarsi senza colpire oggetti. Le mani di Haruka abbassarono le bretelline del vestito, le dita di Michiru tra i capelli, sul collo per poi scendere a sbottonare la camicia. Un gemito uscì rumoroso dalle labbra, le carezze di Haruka dolci sui suoi sensi.
"Haruka..."
Lei sorrise e Michiru morse quel ghigno. Si strinse contro Haruka, altre carezze sul suo corpo: carezze che presto si interruppero. “Haruka?”
Si era girata in direzione del finestrino ormai del tutto appannato. “Perché ti sei fermata?"
"C'è qualcuno." Disse piano. Michiru inclinò la testa, quindi le baciò l'angolo delle labbra. "Beh, sarà qualcun altro con le nostre stesse intenzioni, non pensi?"
Ma Haruka rimase ferma, e Michiru si sentì sul baratro della frustrazione. Ne rapì nuovamente l'attenzione, scivolando con le dita dentro i suoi pantaloni.
Ma il bagliore di una torcia irruppe violento nel buio. E qualcuno bussò al finestrino.
“Che cazzo-” Haruka si sistemò la camicia, Michiru che, dopo lo spavento iniziale, scrutò dal vetro benché dal vetro non si vedesse nulla.
“Polizia.” Si identificarono da fuori, la luce che si muoveva in un movimento da destra a sinistra. Inarcando un sopracciglio, Haruka abbassò il finestrino. E pensò fosse uno scherzo.
"Non riesco a crederci."
"Armstrong, ancora lei!"
Riconoscendola, il poliziotto non riuscì proprio a trattenere un sorriso carico d'ironia.

*

La lieve risata di Michiru ruppe il denso silenzio dell'abitacolo.
"Guarda che non fa poi tanto ridere."
Haruka non raccolse risposta, solo una mano alzata in cenno di resa. Ma presto alle sue orecchie arrivò un nuovo breve moto di risa. "Lo so, ma se ci pensi è esilarante." Michiru si coprì la bocca, e Haruka schioccò le labbra in disappunto. "Un'altra multa. Un'altra segnalazione." Si girò appena verso di lei. "Voleva denunciarci."
Lei le accarezzò il viso. “Non l'avrebbe fatto.” Ne era piuttosto certa. “Penso che si sia divertito a prenderti un po' in giro.”
Scosse la testa, tamburellando le dita sul volante. Non parlarono per alcuni minuti, e guardando fuori dal finestrino Michiru si accorse che si trovavano sulla litoranea. Stavano costeggiando l'oceano. “Fermati.” Proruppe.
Haruka si girò brevemente a guardarla. “Non seguo più i tuoi consigli, mi dispiace.”
Un lieve broncio adombrò il viso di lei. “Dai, Haruka, fermati.” Le scivolò accanto. “Per favore.”
In un lieve sbuffo seguì la strada a fianco della pista ciclabile, parcheggiando la Viper a poca distanza dall'ingresso della spiaggia: prima di scendere Michiru si tolse i sandali, e a piedi nudi si incamminò sulla sabbia.
Haruka si tenne alcuni passi dietro di lei, le mani intrecciate sulla nuca: il ricordo dell'aria divertita di quell'agente di polizia a farle ribollire il sangue. Michiru non sembrava affatto turbata da quanto era appena successo, anzi. La guardò sorridere e avvicinare la riva, facendo poi un cenno nella sua direzione.
“Che stai facendo?” Inarcò un sopracciglio, perplessa, quando l'altra iniziò a togliersi il vestito a fiori. E, nuda com'era, buttarsi in acqua. “Tuffati!” L'invitò quando riemerse.
Non raccolse subito la proposta, inclinando un po' la testa. Alcuni schizzi le raggiunsero il viso. “Dai, orso! Vieni qui!”
“E se ci rubano i vestiti?” Esternò quell'improbabilità, e Michiru tentò di nuovo di bagnarla.
Scuotendo il capo si tolse una scarpa, poi l'altra. Si sfilò la camicia che abbandonò sopra i pantaloni. E in una corsa fu in acqua anche lei.
“Tu e le tue idee strane.” La rimproverò con poca convinzione, le braccia di Michiru intorno al collo. Lei le sorrise. “Direi di accantonare l'opzione 'fare-l'amore-in-auto', per un po'.”
“Assolutamente.”
Michiru assaporò le labbra umide di Haruka, l'acqua che creava lievi increspature intorno ai loro corpi. “Tra poco è un anno che stiamo insieme.” Ricordò.
Haruka annuì, stringendole le mani sulla vita. E in quel silenzio, lo sciabordio dell'acqua quieto che rendeva superflua ogni parola, pensò che Michiru era la sua aria, il suo ossigeno. E avrebbe fatto qualsiasi cosa per-
“Sei felice, Michiru?” La domanda uscì da sola.
“Sì.” La risposta fu immediata, sfiorandole di nuovo in un lento lambire. "Tu sei felice?" Chiese piano di rimando.
La bocca di Haruka si piegò in un sorriso. Le spostò i capelli bagnati dal viso. “Ti amo.” Un leggero mormorio contro le sue labbra.
“Io ti amo di più.” Lo ribatté stringendosi ancora di più a lei.
Haruka sorrise, perdendosi nel proprio oceano.
Michiru era ogni forma della sua felicità.



NA:
Gli appunti letti da Michiru vengono da a href="http://www.rivistadipsichiatria.it/allegati/00155_2003_05/fulltext/241-246%20.pdf " target="_blank">QUI)
- La base aerea Oceana è (NAS OCEANA) è un aeroporto militare situato a Virginia Beach, base per i Jet e che fa parte dell'US Navy


   
 
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