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Autore: Kim NaNa    06/10/2012    7 recensioni
[Altri attori/telefilm]
Storia vincitrice del Premio Worldwide per il Worldwide Contest, indetto da Yuki_ sul forum di Efp e giudicato da Sulfuslove
Lee Min Ho è un famoso attore coreano e, come tutti gli attori, ha una vita frenetica e piena di impegni. Una vita che lo assorbe così tanto da impedirgli di amare liberamente.
Dal testo:
Cammino senza far caso alla meta, i miei passi sono lenti e pesanti. Sento il carico di queste settimane gravare sulle mie spalle, sulle mie gambe. E i pensieri si mescolano ai ricordi, e non c’è più differenza tra belli e brutti, tutto mi ferisce fino a star male.
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questa storia ha partecipato al Worldwide Contest indetto sul forum di Efp da Yuki_Chan e giudicato da Sulfuslove, aggiudicandosi il Premio Worldwide. Si tratta di una RPF sul bellissimo e bravissimo attore coreano Lee Min Ho.
Il mio pacchetto riguardava la Corea, comprendeva di utilizzare il Kimchi, la canzone di Bi Rain Love Song ( che potrete ascoltare a questo link http://www.youtube.com/watch?v=hbqbZDx1Yr8 ) e l'immagine sottostante.

Detto questo: BUONA LETTURA!

Kim NaNà


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Sotto il cielo di Seoul.

 
E’ una coltre leggera la pioggia di questa notte, scende piano cancellando gli odori intensi della sempre sveglia Seoul, come a ringraziarla per aver retto il peso di tutta quella gente.
Davanti a me quel piccolo ristorante tradizionale che mi ha visto sorridere mille volte.
Guardo il cielo denso di nubi e fitto di luci. Non è solo pioggia quel che bagna il mio viso.
E i ricordi, che si affacciano alla mente, al cuore, si fanno nitidi e letali.
Io so bene quando arriva l’amore, me lo hai insegnato tu, Eun Hee.
Ricordo bene lo scontro in quel corridoio, tu con tutte quelle pile di giornali sulle braccia, io troppo agitato per l’inizio del live show.
Portavi i capelli legati dietro la nuca, un elastico bianco teneva ferma una folta massa di capelli scuri. Nello scontro hai perso l’equilibrio e io ti ho aiutato a non cadere rovinosamente.
Ricordo ancora le tue urla e tuoi insulti. I giornali si erano sparsi per tutto il pavimento, tu avevi fretta, io anche.
«Ehi, tu! Aiutami a rimediare a questo disastro, almeno!» I tuoi occhi scuri, come i capelli, si tingono del colore della rabbia.
«Non posso, mi dispiace. Il live comincerà tra pochi minuti.» Metto le mani giunte in segno di scuse e mi allontano con te che inveisci ai danni del mio staff.
Non credevo ti avrei più rivista. Forse quel momento l’avrei cancellato, nella barca dei tanti ricordi che mi porto dietro, ma i tuoi occhi, quelli no. Non potevo dimenticarli.
Per questo ti riconobbi, qualche sera dopo, davanti a quel piatto di Kimchi fumante, in quel ristorante all’aperto che frequentavo da poco.
È così che ho scoperto l’amore, con te che me lo insegnavi lentamente. Con quegli occhi neri e grandi che si mangiavano anche il cielo tanto erano affamati di guardare.
E poi ho scoperto che la vita non potrà mai guardare dalla tua stessa prospettiva, fungerà da spettatrice e al massimo ti lascerà con in mano un pugno di notti in bianco passate a memorizzare sceneggiati. Non è la vita che sposta la prospettiva per far sì che tu possa guardare il cielo e ringraziare un Dio qualunque, sei tu che volgi lo sguardo tra le stelle e forse, un po', sorridi.
Sarà per quella mano che ti tiene ben stretta per la vita, sarà perché in quegli occhi c'è solo parte di ciò che ti ha portato sino a quel punto.
Sarà che in quell'anima c'è il punto d'arrivo, l'attimo in cui ti siedi e pensi che la vita sta sull'orlo del precipizio di un amore destinato ad esistere oltre i confini dell'eternità.
Così ho scoperto da dove arriva quel sentimento, in un appartamento a sei piani, improvvisamente condiviso con qualcuno inaspettato.
E ricordo come ci amavamo, in quel modo assurdo e sconsiderato che è degli innamorati e nulla più.
L’amore vien giù tra i pianerottoli di quell’appartamento; nella notte, rintoccano i tacchi, i tuoi, neri, sbandati, scomposti in piccoli passi per non disturbare, che il mondo vuol dormire.
I tuoi tacchi. Quei due, invece, sembran non voler dormire mai.
Le mani aggrappate alla ringhiera, picchia il tacco e il cuore corre.
Io da giù alzo il capo, sorrido.
Tu dal secondo piano abbassi il capo, mi ami. Tra le dita, sfiorate appena dalle labbra, ti scivola un bacio.
Quanto rumore in un gesto così lieve, ma è tutto gradevole quel che viene da te.
Io lo vedo volar giù, quel bacio, e con garbo, prendo quell'aria macchiata di rossetto a sfiorarmi le labbra.
Tra i pianerottoli vien giù l'amore, nella notte, rintoccano i cuori, due, intrepidi, instancabili, rumorosi, che il mondo, il nostro, vuol vivere…
Sono questi i ricordi che piovono stanotte dal cielo plumbeo di Seoul. O forse no.
Continuo a mentire a me stesso. Vorrei che la pioggia lavasse via i ricordi infelici, vorrei che la luce di questi lampioni schiarisse solo quell’amore che hai provato per me, vorrei che il cielo di questa notte ti riportasse indietro, che mi riportasse indietro. Indietro a quella sera quando, per le strade di Insadong (*), con le bodyguard che ti intralciavano ad ogni passo, con la mano intrecciata alla mia, hai capito che qualcosa stava per sgretolarsi dentro di te. Ricordo bene il momento in cui hai aderito le dita della tua mano tra gli spazi vuoti della mia, mi hai sorriso con la consapevolezza di chi è pronta a ricevere il colpo basso del nemico e, impotente, ti ho stretta in un abbraccio soffocante. Era un singhiozzo quello che udì appena.
Ti tenni stretta fino alla fine, perché no, non avrei mai voluto lasciarti andare. Ma ho mentito.
Quella sera io, Lee Min Ho, ho mentito davanti al microfono di quella giornalista e al mio cuore stesso. Per una clausola firmata con la mia agenzia. Per un patto che non mi era dato infrangere.
Li ricordo i tuoi occhi, due grandi chicchi di caffè, lucidi, velati dai una scia di paure ed ansie.
C’eravamo solo io e te in quella cucina, la mia. Potevo sentire i tuoi respiri, frequenti, tremanti.
«Ma tu mi ami?» Sgrani gli occhi profondi ed io ci affogo con tutto il cuore.
Soffoco in un no malconcio, intristito, svilito, vigliacco.
«Dio mio, perché fai così allora?»
« Così come? Che c'è? Cosa vuoi da me? Cosa ti aspetti? Cosa?» Alzo la voce per proteggermi, per fuggire. Finché ti confondo col chiasso inutile della rabbia e del vuoto; svincolarmi da quel appiglio sicuro che son le tue labbra è più facile, mi camuffo da camaleonte moderno in una riciclata armatura di cartone. Perché Ti amo.
Ma Ti amo di un amore che non posso permettermi.
E Ti amo di un amore che non conosci, che non pensi, che non capisci, ma che senti.
Ma Ti amo di un amore che non vuoi.
E ti amo ancora, lo stesso, negandolo, cacciandolo dentro fino alle lacrime.
Ma Ti amo e mi irrigidisco.
E Ti amo e mi sciolgo.
Poi scappo implorando i tuoi passi a seguirmi.
Che vita è questa? Quando si acceca l'amore con la paura e la vigliaccheria, che rimane poi a questi corpi stanchi?
Sono un vigliacco, un egoista. Antepongo, questa carriera in ascesa, all’amore, un amore che sto perdendo.
«Va’ via, ti prego.» E ti spingo sulla soglia.
Prendimi il braccio, prendilo e stringimi!
Ma Ti amo di un amore che non voglio ed i bisogni rimangono segreti.
Un passo indietro, oltre lo zerbino, già oltre il pianerottolo, sei in macchina e pensi alla cena che volevi prepararmi, poi a me, poi a te con me. Lo sai che Ti amo.
Ricacci il pensiero, le mani sul volante. Nessuna lacrima riga le tue guance. Eppure loro sono lì, le vedo, le sento ed in silenzio continuano a scendere dentro di te.
Buffo come la sorte giochi con le regole. Mentre tu guidi oltre la tua vita, in compagnia di una canzone nostalgica messa alla radio, io lascio le mie mani sulla porta, lì dove ti ho chiuso, con il rimpianto di non aver rischiato.
 
«Potresti pentirti di ciò che hai fatto!» L’indomani la voce di mia sorella fa eco in questa stessa cucina.
«Ero già pentito mentre negavo di amarla.»
Si avvicina e senza aggiungere altro fuoco su quell’incendio che ho creato, mi accarezza la schiena col suo inconfondibile calore.
Sono settimane d’inferno quelle che passo. Dal set di un Dráma, al salotto di un Talk Show, passando per le aperture di alcuni concerti, senza mai smettere di pensare a te, Eun Hee.
«Min Ho! Min Ho!» Il mio manager cerca di catturare la mia attenzione, sventolandomi un dépliant davanti agli occhi.
«Sì?» È una risposta automatica la mia, in momenti come questi vorrei solo chiudermi nel mio silenzio e rispolverare le ceneri del mio disastro.
«Mi hanno appena telefonato. Bi Rain (*’) ti vuole all’apertura del suo tour a Singapore. Mi ha detto di darti questi.»
Mi passa un paio di fogli, li prendo senza neanche controllarne il contenuto.
«Vorrebbe che duettassi con lui per la canzone Love Song
Un tonfo, un battito. È il mio cuore che cerca un ritmo più adagio, perché così rischia di impazzire.
È proprio quella. La stessa canzone che, la sera del mio addio, venne fuori dalla radio della tua macchina.
Non si dimenticano i dettagli dell’amore, neanche se son quelli che ti sporcano il cuore e avvelenano l’anima.
Guardo i fogli che stringo in mano e leggo il testo.
«Non ce la posso fare.» Dico.
Lo dico per davvero, a voce alta, sotto gli occhi increduli e un po’ stupiti del mio manager.
Le frasi del testo scorrono frenetiche, in un vortice senza fine, mi entrano dentro, negli occhi, nella testa, nel sangue.
 
Il tuo respiro è andato via, ma io continuo ad amarti. Cosa dovrei fare? Ti prego, oh ti prego, ritorna.
Penso a te, continuo a pensare a te, non posso tenerti la mano come facevo in passato.
 
La mia riservatezza è conosciuta in questo mondo di pellicole, musica e lustrini. Piego i fogli in quattro parti e me li infilo nella tasca del pantalone.
«Scusami. Devo andare. Ho un appuntamento con mia sorella.»
«Ma hai un servizio fot…»
La voce del mio manager si confonde nel brusio della sala. La mia mente è già lontana. È venuta via con te, Eun Hee, in quella macchina.
Afferro il mio telefono e rileggo quel messaggio che mi ha tenuto compagnia nelle notti del dolore.
 
Non preoccuparti per me, sto bene. Tra poche ore hai le riprese del Dráma, sta’ attento a non prendere freddo, stasera la temperatura scenderà di molti gradi sotto lo zero.
 
Non faceva poi così tanto freddo quella sera. Neanche nevicava. Eravamo noi, io e te, ad aver freddo, in quella solitudine assordante alla quale ti avevo costretta.
Apro l’ombrello che mi sono portato dietro, calco il cappello sugli occhi e mi porto il cappuccio della felpa sulla testa. Non voglio essere riconosciuto, non voglio firmare autografi. Oggi voglio solo restarmene un po’ spento, a passeggiare per questi rinomati vicoli coreani, impregnati degli odori della cucina tipica.
Cammino senza far caso alla meta, i miei passi sono lenti e pesanti. Sento il carico di queste settimane gravare sulle mie spalle, sulle mie gambe. E i pensieri si mescolano ai ricordi, e non c’è più differenza tra belli e brutti, tutto mi ferisce fino a star male.
Cammino e cammino, così lento che mi chiedo dove mi porterà quest’inutile gesto. E poi lo sento. La voce di quell’ajhussì (*’’) che ho imparato a rispettare col passare del tempo.
Chiudo e riapro gli occhi. Lo faccio ancora e poi di nuovo. Un moto istintivo, quasi a volermi  svegliare da quello stato di trance nel quale mi ero lasciato sprofondare.
Sono arrivato fin qui senza neanche accorgermene. La nostra cucina all’aperto, con quell’ajhussì che tanto ti faceva ridere con le sue storie da vecchio marinaio.
Mi fermo. Respiro a fondo quell’intenso profumo speziato e mi lascio attrarre dai piatti messi sul banco.
È Kimchi. Di tutti i piatti coreani, quello è sempre stato il tuo preferito. Adoravi quel piatto di cavolo cinese sotto sale e salsa di peperoncino piccante, dicevi che il tuo palato andava in paradiso quando lo mangiavi.
Sorrido. Un sorriso beffardo, tra il consapevole ed il sarcastico.
Mi avvicino con le mani sprofondate nella giacca. Le luci della strada si riflettono sulle vetrate, le voci, i suoni e i rumori si sovrappongono, ma qualcosa, in pochi istanti, spegne il mondo. Il mio.
Lunghi capelli neri e un cappotto di velluto rosso.
Seduta sulla panca di quell’anziano signore, qualcuno gusta, in silenzio, quel Kimchi messo nel piatto.
Sei tu.
Non importa se non ho ancora visto i tuoi occhi, mi basta guardare come tieni i piedi incrociati mentre mangi per averne la certezza. Mi basta avvicinarmi un po’ di più e riconoscere l’odore del tuo bagnodoccia, quello che usi da anni, perché sei una che le cose non le cambia mai dopo averle provate e averle trovate buone.
Sei tu, quella che stava ore ed ore su una altalena, a dondolarsi, e a pensare, che il mondo fa troppo rumore se lo si lascia chiuso in una stanza.
Alzi lo sguardo e ti vedo. Vedo un sorriso e la mia vita incastrarsi in quegli occhi che si sono presi tutto.
Quegli occhi color caffè, che mi hanno perseguitato di notte e tormentato di giorno, erano lì e sorridevano a quell’uomo che cucinava per lei.
Non so perché, ma quella canzone ritorna alla mente, il suo motivo è lì, nelle mie orecchie e chiede di essere ricordato.
 
Volevo farti desiderare di restare, ma non sono sicuro che tornerai.
 
Stringo la mano in un pugno. Desidero posare il mio sguardo su di te, sfiorare piano una tua mano e stare fermo, immobile, con questo ombrello tra le mani, ad osservarti mangiare, mentre sorridi alle battute di quell’uomo che tanto ti diverte, mentre vivi quella che è sempre stata la tua vita.
Non lo faccio, sento di averti ferita troppo. Ho gettato via quel che avevo tra le mani, nonostante l’amore.
Nonostante l’amore.
Ti volti appena alla tua destra. Rivolti la borsa in cerca di qualcosa o forse in cerca di parole.
Ne esci una manica stropicciata e un portamonete color corallo, con appeso quel pendente d’argento che ti ho regalato al primo appuntamento.
Ed è lì che si rincontrano i nostri occhi. Come se non t’avessero mai abbandonata, i miei si accendono di una forza fino ad allora sopita.
Io ti ho amata e ancora t’amo, Eun Hee. Ti ho amata a tal punto da sentirti mia nonostante t’avessi detto di andar via. Ti ho amata così tanto che ho subito capito di non poter vivere senza i tuoi occhi, senza il movimento dei tuoi capelli, senza il profumo della tua pelle, senza il tuo respiro sul mio corpo. Io ti ho amata ogni giorno come se fosse il primo e l'ultimo della mia vita, senza badare a nulla, neppure al tempo...
Lo vedo lo sgomento, lo stupore, nei tuoi occhi, ma sorridi. Mi indichi il posto vacante accanto al tuo e mormori qualcosa all’anziano signore che ride, armeggiando con le sue pentole e stoviglie.
Io non lo so quel che mi accade, ma sento il cuore pronto ad esplodere, ad infrangersi in pezzi di arcobaleno.
«Come puoi avermi perdonato?» Ti chiedo in un soffio.
Hai, sul volto, quell’espressione calma e tranquilla, di quando stai per affrontare un discorso serio, eppure gli occhi sorridono. In fondo lo so che sei felice di rivedermi.
«Odiarti non mi avrebbe fatta sentire meglio e, ad ogni modo, tu non saresti tornato.»
«Perché» Lo dico così, senza neanche rifletterci.
«Perché nel tuo mondo non c’è spazio per una come me. Una che lavora un po’ qui, un po’ lì. Una che mangia per strada perché le piacciono i profumi, i rumori, le luci. Io sono una delle tante che incontri per strada e alle quali non fai neanche caso.»
Eccolo il tuo modo di parlare.
Quel dire tutto insieme, come un treno in corsa, per paura che qualcuno ti fermi e ti impedisca di mettere barriere di cartone che fai fatica ad innalzare.
E allora abbasso gli occhi, tristi, un po’ spaesati e mi alzo, scavalcando la panca.
Ti volto le spalle e sento i tuoi occhi picchiarmi con forza la schiena. Nella mia testa prende musica la tua voce e li sento, gli insulti che vorresti darmi, li sento quei singhiozzi che ancora non riesci soffocare.
«Non ho mai…» inizio.
«Non ho mai avuto una così pessima idea di te! Io… Semplicemente io… Non volevo strapparti dalla tua quotidianità per catapultarti nella mia vita frenetica e senza sosta. Ricordi quella sera ad Insadong, quando eravamo braccati dalle mie stesse guardie di sicurezza? Ricordi il disagio con cui ti guardavi attorni? Beh, io sì, mi ricordo tutto e ricordo di aver visto una lacrima scenderti piano, una lacrima che ti sei affrettata a cancellare col dorso di una mano. Quella sera, Eun Hee, io ti ho guardata negli occhi e, in quell’istante ho capito quanto tu fossi importante per me. Mi piace quel tuo piccolo mondo e so anche che piace a te, perché tu le cose le vivi senza pensarci su troppo, perché la vita va presa così come viene, che a pensarci troppo passano solo gli anni e arrivano le rughe. Questo me lo hai detto tu, sempre. Come potevo perderti? Non riuscivo neanche a dirla a voce una cosa simile, ma il pensiero di vederti rinunciare alla tua quotidianità, solo per adattarti ad una vita piena di impegni e lavori come la mia, mi faceva impazzire. Dovevo lasciarti andare! Il tuo posto non era qui con me, perché non ero io ad essere l’uomo giusto per te, non ero io quello che avrebbe respirato la stessa aria che respiri tu, non ero io che potevo farti felice…»
Mi ammutolisco mentre la mia mano sbatte un pugno sul bancone.
Non dici nulla, non mi sembra neanche di sentirti respirare, ma inaspettatamente lo sento, quel contatto.
Sei dietro di me, appoggiata alla mia schiena. Mi irrigidisco appena, un moto di stizza, ma passa subito. Tu sei calda e profumi d’arancia. Mi sento a casa, mi sento sereno. Ora il mondo ha smesso di tuonare e far rumore.
Non parli, ma il tuo respiro regolare allontana il mio peccato, la mia vergogna.
È soffusa all’inizio, ma comincia a farsi sempre più incalzante.
È Bi Rain a cantare, dagli altoparlanti del negozio di musica qui accanto.
 
Quegli occhi che erano soliti guardarmi lascia che mi guardino ancora, quegli occhi me lo vogliono dire che tu mi ami ancora.
Ti prego, oh ti prego, ti amo.
 
E sorrido, mentre tu mi passi le braccia intorno alla vita. E allora mi volto e ti imprigiono in quell’abbraccio che chiedevo quella stessa sera. Stai tremando e nascondi il viso nel mio cappotto, ma tanto lo so che hai le gote arrossate, perché tu le cose le vivi a primo impatto, come se fosse sempre la prima volta.
Ti sfioro i capelli in un bacio e in un sospiro lascio andare quelle settimane buie. Seoul mi è testimone di questo amore che torna a fiorire dopo il gelo dell’inverno. Mi chino appena su di te e sussurro:
«Resta e stringimi. Più forte che puoi, prendimi le mani perché questa felicità mi fa paura.
Resta e sciogli questi pugni, aprili e riempili dei tuoi, invischiati tra il mio cuore e scaldami.
Abbracciami amore mio e legami a te come la prima volta. Come la notte, come un aquilone, come il dolore sedotto dal piacere, resta qui con me e dimmi che questa vita è nostra e lo sarà sempre. Dimmi che sono io, che l’uomo che può svegliarsi con te al suo fianco sono io, che mi amerai nonostante la mia vita tutta in corsa. Rimani, Eun Hee e dimmelo perché ho paura che sia solo frutto di questa felicità.»
Ridi, ti sento. Quella risata è più che sufficiente per me, ma a te non basta. Mi guardi con gli occhi della ragazza che ho incontrato in quel corridoio e con quel sorriso da bimba pestifera, al quale non potrei mai negare nulla.
«Ci sto. Resto. Questo treno dovrà fermarsi prima o poi. Non lo sai? Tutte le fermate le faccio io, che se anche vuoi scappare, quando scendi dal tuo bel treno mi ritrovi sempre lì, in quell’appartamento al secondo piano. Lì, dove abiti tu.»
Fu un attimo. Il più bello.
C’era tutto, c'era il cielo di Seoul, c’era la musica, c’era il Kimchi e c'era l'amore.
 

FINE
 


Note: Le frasi in corsivo sottolineato corrispondono alla traduzione italiana della canzone coreana Love Song di Bi Rain.
(*) Insadong, conosciuta come la strada della moda, è sempre affollata e piena di giovani e lungo le strade si trovano souvenir di vario genere e molte bancarelle e/o piccoli ristoranti di cibo coreano
(*’) Bi Rain, giovane e famoso cantante coreano.
(*’’) Ajhussì, in coreano vuol dire “Signore”
Kimchi, piatto tipico coreano, preparato con cavolo cinese sotto sale e salsa di peperoncino rosso macinato.

 

   
 
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