Stella, mia bella stella
San Lorenzo, io lo so perché tanto
di stelle per l'aria tranquilla
arde e cade, perché si gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.
Mezzanotte e un minuto.
Potrei scommetterci. L’orologio sulla parete segnava
l’una e un minuto, certo, ma è anche vero che quell’orologio porta
un’ora avanti da che io ne abbia memoria. L’undici agosto era
iniziato da ben un minuto quando lui arrivò.
La mia stella.
Ero convinto di essere troppo cresciuto per credere alle
favole di San Lorenzo: da anni non aspettavo più quella sera con ansia né mi
appostavo in terrazza sperando col cuore in gola di riuscire a vedere una
stella cadente.
E proprio quando ormai le stelle non mi interessavano più,
una venne di sua sponte a sbattere contro la mia saracinesca.
“E’ chiuso” borbottai a denti stretti,
chiudendo il cassetto con aria contrariata “C’è un cartello”
aggiunsi, alzando la voce visto che i colpi continuavano, sempre più forti
“Perché nessuno legge mai quel dannatissimo cartello?!”
“Il motorino”
La risposta era arrivata fievole, i pugni che smettevano
di abbattersi sulla serranda. Scuotendo la testa mi avvicinai, sollevandola
meno di un metro: mi piegai sulle ginocchia e sporsi la testa fuori, gli occhi
che faticavano a mettere a fuoco nel buio della notte; vedevo solo due scarpe
da ginnastica sdrucite:
“L’orario di chiusura è passato da un pezzo,
amico” mugugnai irritato “Siamo chiusi”
“E’ un’officina?”
“Sì” sospirai, ruotando gli occhi “Ma
siamo chiusi”
“Ho… ho visto una luce e…”
Era una voce esile, balbettante: si inceppava, la lingua
che sembrava ingaggiare una lotta con ogni singola parola. Vi era tristezza in
quella voce, e qualcosa di molto simile alla disperazione.
“Mi sono trattenuto un po’ più a lungo del
solito, oggi” accennai, facendo per alzarmi e chiudere la conversazione
“Come dice il cartello, però, siamo chiusi dalle dieci”
“Il motorino” tremò ancora la voce, sempre più
bassa.
Mi ero già alzato in piedi, le dita che fremevano per
riabbassare la grata:
“Non posso farci niente a quest’ora,
amico” feci, stringendomi nelle spalle “Gira a largo”
“E come faccio senza motorino?”
Mi passai le mani sul viso, imprecando fra i denti:
“Non me ne fotte un cazzo del tuo maledettissimo
motorino, okay?” sbottai, cominciando ad abbassare la serranda. Non feci
in tempo a portare a termine l’atto, però, che due piedi si infilarono
nel poco spazio rimasto: con un guizzo rapidissimo il corpo di un ragazzo
scivolò sotto la saracinesca, raggiungendomi.
Lo osservai basito: sdraiato di schiena sul pavimento
lurido dell’officina, l’espressione da cane bastonato. Si sollevò
sui gomiti, tirandosi agilmente a sedere:
“Ha dell’alcol?”
“Co… come?” fu la prima cosa che riuscii
a chiedere, ancora sorpreso dall’assurdo gesto di lui. Era strisciato sotto
la saracinesca. Come Indiana Jones. Gli mancava solo il cappello, constatai,
carezzandomi il mento:
“Esci” sibilai,
fissandolo con sguardo implacabile “Immediatamente. Fuori di qui”
“Ho bisogno di qualcosa di forte” continuò
lui, ignorandomi e alzandosi in piedi “Qualcosa di molto, molto forte”
Si pulì i jeans, spolverandoli con le mani, e sbatté le
scarpette sdrucite una contro l’altra. Poi si aggiustò la felpa, sì, la
felpa. Una felpa in agosto, considerai fra me e me: dovevo avere a che fare con
un pazzo. Probabilmente qualche casa di cura lo stava già cercando, mi dissi,
osservandolo inquieto mentre girava per l’officina:
“Non hai un posto dove andare?” domandai,
cercando di mantenere un tono pacato.
“No” si strinse nelle spalle lui “Sono
scappato”
Ecco, come volevasi dimostrare. Fra un po’ si
sentono le sirene di un’ambulanza.
“Com’è possibile che
non ci sia alcol, in questo posto?” fece ancora il ragazzo, cominciando
ad aprire i vari cassetti, le dita che frugavano fra chiavi inglesi e cacciaviti
“E’ un’officina, no? L’alcol non è una prerogativa
qui?”
Trattenni l’insulto che mi era salito alle labbra e
ostentai un sorriso di convenienza:
“Siamo sempre chiusi, lo sai?”
“Io sono dentro, però”
“Non ti ho invitato”
“Avresti dovuto farlo”
E poi aprì lo sportello giusto: si chinò in avanti con un
gridolino soddisfatto, la bottiglia già stretta nelle mani.
“E’ roba pesante, quella” borbottai,
facendo per avvicinarmi.
“Non mi interessa” rispose lui, fermandomi con
un solo gesto “Più forte è, meglio è” affermò sicuro.
“E’ troppo forte per te”
“Meglio”
Scossi la testa, guardandolo rapidamente dalla testa ai
piedi: era un fuscello. Forse anche per colpa della felpa di qualche taglia più
grande della sua, ma sembrava uno stecco. Probabilmente lo avrei mandato a
gambe all’aria solo soffiando, un tipino così.
Ripensai alla casa di cura e decisi di riprovarci:
“Rischi di restarci secco”
Lui rise, stappando la bottiglia e portandola direttamente
alle labbra: buttò giù un sorso dopo l’altro, veloce, senza fermarsi
nemmeno per riprendere fiato. In un colpo solo.
“Meglio, davvero” ripeté, allontanando di poco
la bottiglia e asciugandosi le labbra con il dorso della mano “Voglio
dimenticare. Dimenticarlo. E’ stato lui, lo sai? A
rompermi il motorino”
Bevve un altro sorso e mi si avvicinò, traballando
leggermente: si appoggiò al cofano della macchina più vicina, gli occhi lucidi
e brillanti. Mi fissava, l’espressione di un
pazzo.
“Sono andato sotto casa sua, oggi” biascicò,
la voce impastata ma più sicura “Lui mi ha accolto urlando, mi ha dato
della puttana, del deficiente” tirò su con il naso, bevendo ancora, il
tono più arrabbiato “Ha preso una spranga, poi… una spranga”
Si fermò, riprendendo fiato. Un altro sorso. Un respiro.
Come se quasi non riuscisse a credere alle sue stesse
parole.
“Ti ha colpito?” mi trovai a chiedere,
lanciandogli occhiate indagatrici, sinceramente preoccupato.
“No” ridacchiò isterico “Ha colpito il
motorino. Lo ha preso a sprangate e ha continuato ad
insultarmi, capisci?”
Non dissi niente. Aspettai.
“Una spranga, dico, ma dove
cazzo l’ha trovata?” borbottò, continuando a bere e guardandomi
fisso “Ha colpito lo specchietto, poi il vetro…” ansimò,
gesticolando enfaticamente “E diceva che era colpa mia! Non è assurdo? Caspita,
assurdamente assurdo. Proprio assurdo. Assurdo. Assurdo. Che strana
parola… assurdo. Non è una strana parola? Con tutte queste esse? Asssssurdo, vedi?”
Ecco. Partito.
“Dammi la bottiglia” gli intimai, allungando
la mano verso di lui.
“Certo” sorrise il ragazzo, svuotandola
definitivamente “Ecco, ora è tutta tua”
Mi rigirai fra le mani la bottiglia vuota e rabbrividii.
Lanciai un’occhiata al fuscello e mi sembrò più instabile del solito,
l’espressione trasognata, il sorriso a trentadue denti. Ubriaco fradicio.
“Non è un problema per te?” mi chiese,
prendendomi in contropiede.
“Tu?” sogghignai, decisamente infastidito
“Sì, sei un problema”
Lui dischiuse le labbra, incerto:
assunse un’espressione concentrata, assorta. Guardò me, poi la bottiglia,
poi le sue mani: come se le vedesse per la prima volta. Sospirai, avvicinandomi
di nuovo alla serranda e aprendola del tutto.
“No” esclamò di colpo il ragazzo “Non mi
riferivo a me!”
“Devo aver capito male, allora”
Gli stavo dando corda, ignorando il fatto che di lì a
qualche minuto sarebbe probabilmente crollato a terra. Morto. Individuai in
pochi istanti il motorino incriminato, accasciato contro il muro: con uno
sbuffo lo tirai dentro.
“Intendevo l’essere
gay!” ridacchiò lui, barcollando verso di me “Ho parlato del mio
ragazzo, no?
Oddio” si fermò un attimo, scivolando a sedere sul pavimento
“ex-ragazzo. Ecco. Decisamente ex. Non puoi brandire una spranga e
sperare di non diventare un ex, no?”
“Decisamente”
Strinsi le labbra, osservando il motorino: era messo
indiscutibilmente male. Strano che fosse ancora quasi intero. Quasi. Sfiorai
con cautela i vari pezzi ancora utilizzabili, troppo pochi.
“E quindi… che stavo dicendo?”
“Il tuo ex-ragazzo”
“Sì” arricciò le labbra, strisciando a terra
per avvicinarsi ancora “Ecco. E quindi parlavo del mio ex, un uomo, e tu
non hai fatto una piega. Cioè, intendo, non ti sei lamentato. Non mi hai
cacciato. Perché?”
L’ultima domanda aveva assunto una sfumatura
sinceramente stupita.
“Avrei dovuto cacciarti” borbottai io
“Perché siamo chiusi, però, non perché sei gay”
“Ah”
Si sdraiò, piegando le braccia dietro la testa. Chiuse gli
occhi.
Sospirai, pregando quasi che si addormentasse. Che cadesse
in uno stato di catalessi, così avrei potuto
andarmene. A lui, poi, ci avrebbero pensato i ragazzi la mattina dopo. Non ebbi
fortuna.
“Come mai non ti do fastidio?”
“Mi dai fastidio” scandii “Molto
fastidio”
“Sì!” esclamò lui, aprendo di nuovo gli occhi
“Non come gay, però, come persona!”
“Non hai il vago sentore che sia peggio?”
“Certo” approvò “Ma è anche positivo.
Significa che non ti danno fastidio i gay in sé. E… oh.
Sei gay?”
“Non sono gay”
“Sicuro? Perché così si spiegherebbero diverse cose”
“Sei ubriaco, ne sei
consapevole?”
“Certo”
Lasciai perdere il motorino e mi piegai su di lui:
schioccai le dita per attirarne l’attenzione già labile. Aveva gli occhi
neri: due enormi occhioni neri. Si fermarono nei miei e per un momento
dimenticai cosa dovevo dire.
“Non posso fare niente per il tuo motorino”
borbottai, allontanandomi di scatto.
Lui si sollevò a sedere, non senza difficoltà, e lanciò
un’occhiata affranta prima al mezzo e poi a me. Piegò le labbra in un
broncio, gli occhi che si inumidivano:
“Come non puoi?” sussurrò, la voce tremante
“E’ il mio motorino”
“E’ stato preso a
sprangate” spiegai pacato “Ripetutamente”
“Lo so!” esclamò lui, allargando le braccia
“Te l’ho raccontato? Sono andato sotto casa sua e lui si è messo a
urlare, e poi ha preso una spranga e ha cominciato a colpirlo. Assurdo, vero?
Assurdo. Asssssurdo. Che strana par…”
“Oh per l’amor di Dio!”
Lo tirai in piedi afferrandolo per il colletto della
felpa: lo trascinai fuori dall’officina, fino alla mia macchina, e lo
buttai sul sedile del passeggero. Ignorai i suoi occhioni sgranati e chiusi lo
sportello. Tornai indietro: spensi le luci e chiusi la saracinesca con un gesto
liberatorio. Entrai in auto con la vaga speranza che lui non fosse più sul
sedile.
C’era. E mi fissava.
“Ti accompagno a casa” grugnii, avviando il
motore “Dammi un indirizzo”
“Sono scappato”
“Questo già lo hai detto, ma non posso lasciarti in
mezzo alla strada in queste condizioni. Dammi un indirizzo e ti ci porto. Un manicomio, una casa di cure, qualsiasi cosa”
“Non sono pazzo” mugugnò il ragazzo, facendosi
ancora più piccolo “Sono solo gay”
Sospirai, cercando di usare un tono più ragionevole:
“Allora perché sei scappato?”
“Per il gay”
“Come?”
“Ai miei la cosa non andava tanto bene, così me ne
sono andato”
Aggrottai le sopracciglia, studiando quella figurina
all’apparenza troppo fragile per affrontare il mondo.
“Quindi non hai una casa?”
“Ma che dici?” sbottò lui, raddrizzando le
spalle “Certo che ho una casa”
Stavo per tirargli un destro.
“Mi dai l’indirizzo di questa casa,
allora?” sussurrai, il tono piatto.
“Certo. E’ casa di mio cugino. Mi ospita, sai? Quando sono scappato, ecco, sono andato da lui
e lui mi ha dato una camera. Non è male, sai? Ci sto proprio bene. E poi per
lui non è un problema, il mio essere gay, dico. Come per te. Non mi guarda in
modo diverso, come facevano i miei. Non dice frasi strane, niente. Si spoglia
anche davanti a me, figurati…” ridacchiò, reclinando il sedile
all’indietro e allungando i piedi sul cruscotto “Non ha paura che
gli salti addosso: dice che se mai mi venisse voglia di assalirlo, ci
penserebbe lui a togliermela con un pugno ben assestato”
Spensi il motore.
“Non hai intenzione di darmi l’indirizzo,
vero?”
“Che indirizzo?”
Mi veniva voglia di piangere. Poggiai la fronte sul
volante, chiudendo gli occhi.
“Mio cugino è stato il primo a farmi sentire
normale, lo sai? Anche a scuola mi prendevano sempre in giro. Oh. Non mi sono
neanche presentato. Tu come ti chiami?”
“Voglio un indirizzo, ragazzo”
Lui girò il capo verso di me, l’espressione sorpresa:
“Oh, ma perché non lo hai detto subito? Via degli Olmi, 83”
Riaccesi il motore e ingranai la marcia in meno di un
secondo, il piede che già premeva sull’acceleratore. Assurdo. Quella
serata non avrebbe potuto essere più assurda. Asssssurda, ecco.
“Allora?” ricominciò lui “Come ti
chiami?”
“Ercole”
Annuì, dandomi un pugnetto sulla spalla. A stento lo
sentii.
“Ti sta bene. Con tutti quei muscoli e
l’altezza, e la forza… cioè, prima mi hai sollevato neanche fossi
un fuscello”
“Tu sei un fuscello”
“Sì, vabbè, ma tu sei muscoloso”
Accelerai ancora, svoltando a destra: mi addentrai nella
campagna, prendendo una strada secondaria.
“Oh” riprese di colpo lui “Io sono
Luigi. Luigi Stellato”
Si passò una mano fra i capelli, ravvivandoli: erano neri
come gli occhi, tagliati poco sopra le spalle.
“Che stavamo dicendo?” domandò, sinceramente
curioso.
“Ti sei appena presentato” risposi io, aprendo
il finestrino e beandomi dell’aria fresca della notte. Faceva caldo. Del
resto era pur sempre Agosto, mi dissi. Ignora il ragazzo con la felpa, è
Agosto. Deve far caldo.
“Già. C’era un motivo
però… oh! Ti stavo dicendo della scuola! Mi prendevano tutti in giro, lo
sai? E’ stato un vero e proprio incubo: non mi chiamavano nemmeno più
Luigi, sai? Mi chiamavano Stella. Per via del cognome, no?”
“Da quanto hai finito la scuola?”
“Da un anno” borbottò lui, incerto,
guardandosi le mani “Sì. Da un anno. Ora frequento l’università,
che poi è pur sempre una scuola, eh? Cioè, dico io, ma gli esami non finiscono
mai?”
“Perché ti prendevano in giro?”
Mi guardò come se quello ubriaco fossi io.
“Ma per l’essere gay, no?” sbottò,
l’espressione ferita “Non mi ascolti, allora! Di che stavamo
parlando?”
“Come facevano a sapere che sei gay?”
Lui schiuse le labbra, come preso in contropiede da quella
domanda.
“Gliel’ho detto io”
“Perché?” feci io, rifilandogli impulsivamente
uno scapaccione “Perché rovinarsi la vita? Non potevi startene zitto? Lo
hai sbandierato ai quattro venti, immagino, come hai fatto con me. Perché?”
“Perché no?” chiese lui, stringendosi nelle
spalle, l’aria stordita “Se è quello che sono, perché non avrei
dovuto dirlo? Perché nasconderlo? Cioè… tu mica
nascondi i muscoli, no? Non si nasconde il proprio essere”
Serrai le mani attorno al volante.
“Sei un ragazzino pazzo”
“No” ridacchiò lui “Solo un tantino
ubriaco”
Gli lanciai un’occhiata di sbieco e lo vidi mettersi
a sedere, improvvisamente inquieto. Aprì il finestrino e cacciò la testa,
sporgendosi fuori. Mancava solo che tirasse fuori la lingua.
“Torna dentro” intimai, afferrandolo per il
cappuccio della felpa. Lui si divincolò, facendo per aprire lo sportello.
“Che cazzo fai?!”
sbottai, frenando di colpo.
Lui spalancò del tutto lo sportello, cercando di
rimettersi in piedi quel tanto che era necessario per uscire. Si era
dimenticato della cintura: quasi si strozzò, la saliva che gli andava di
traverso. Lo liberai, sospirando, e lo sospinsi fuori dalla macchina:
“Contento?”
Le gambe quasi gli cedettero. Ci vollero diversi attimi
prima che trovasse un vago equilibrio:
“Ho bisogno di aria”
“Il finestrino non bastava?” chiesi,
tagliente.
Non rispose, muovendo qualche passo sull’erba: lo
guardai barcollare, affinando lo sguardo pur di non perderlo di vista. Ci
eravamo allontanati dalle luci delle case, dei lampioni: immersi nel buio a
stento lo vedevo. Con un gemito frustrato scesi anch’io, raggiungendolo e
afferrandolo per il cappuccio:
“Torna dentro” sibilai, strattonandolo.
“No” piagnucolò lui “Non voglio”
Quasi mi aspettavo che si mettesse a sbattere i piedi per
terra.
“Guarda” fece ancora, la voce genuinamente
contenta “L’erba, il cielo, le stelle… non ti vien voglia di
sdraiarti e non muoverti più? Hai mai dormito sull’erba? E’ bello,
sai? Certo, poi rischi di avere un po’ di mal di schiena ma non è grave,
ti assicuro. E… ma mi vuoi lasciar andare?”
“Torna in macchina”
“Ma non ci penso proprio!” si divincolò,
arretrando velocemente e rischiando di sbilanciarsi: traballò, correndo il
rischio di cadere “Non vuoi sdraiarti a guardare un po’ le stelle?”
Questa volta la domanda era stata dolce, gli occhioni neri
che di nuovo si spalancavano.
“Sei ubriaco”
“E allora?”
“E allora devo riportarti a casa”
“Non è casa mia” specificò lui, alzando un
dito e puntandomelo contro “E’ casa di mio cugino. E’ simpatico,
sai? Un po’ troppo etero per i miei gusti, ma simpatico. Devo fartelo
conoscere, sì. Non mi fa mai bere, sai? Dice che non
gli piaccio quando sono ubriaco. Dice che non reggo l’alcol. E dice che
dopo aver bevuto parlo troppo. E a vanvera. Non è assurdo? Assurdo. Asssssurdo.
Non è strana come parola, eh?”
Lo afferrai per la felpa e quasi lo lanciai contro la
macchina: in palestra sollevavo pesi che erano il doppio di lui.
“Ha ragione su tutto, tuo cugino. Parli troppo e
decisamente a vanvera. Ora, prima di ricominciare a discutere su quanto sia
strana la parola assurdo, torna in macchina. Sono stato chiaro?”
Lo sospinsi malamente e qualcosa cadde dalla tasca della
felpa, finendo nell’erba: mi piegai per raccoglierla e restai
imbambolato, osservando incredulo la confezione di lubrificante. Lubrificante?
Alzai lo sguardo e incontrai il sorriso incerto e leggermente imbarazzato del
ragazzo:
“L’ho preso nella tua officina”
“Lo hai rubato, vorrai dire” borbottai,
rigirandomelo fra le dita.
“No!” eruppe lui, agitando le mani con fare
forsennato “L’ho preso solo in prestito! L’ho visto lì e mi
sono detto che non ci sarebbe stato niente di male a provarci, no? In fondo non
ti facevo neanche schifo. Cioè, non mi hai cacciato, no? E non hai detto niente
sul mio ragazzo… no! Ex! Perché sbaglio ancora? Ex!”
“Perché lo hai preso?” lo interruppi, cercando
di capire qualcosa in quel fiume di parole prive di senso.
“Per provarci con te”
“Sono etero”
“Dicono tutti così”
Inarcai le sopracciglia, lanciandogli la confezione. Lui
la guardò cadere senza provare neanche a prenderla. Poi le diede un calcetto e
sogghignò, la voce che si faceva improvvisamente maliziosa:
“Secondo me c’è una parte
gay dentro tutti, sai? Solo in alcuni è più forte che in altri. Gli
altri la ignorano, capisci? Fingono che non sia così, che non ci sia.
Però… però quando e se arriva la persona giusta, secondo me, non importa
se è maschio, femmina o transessuale. Semplicemente è quella giusta. E non ci puoi fare niente”
Mentre parlava si era piegato sui talloni per afferrare la
scatola; poi si era accasciato sull’erba: prima seduto, quindi sdraiato,
completamente rilassato. La voce si era andata abbassando, lo sguardo che si
perdeva nel cielo.
Non sapevo cosa fare.
Per la prima volta dopo tanti anni, provai di nuovo un
senso di inadeguatezza e impreparazione che avevo quasi dimenticato. Fissai
quel ragazzino e sentii una ridda di domande farsi strada in me: perché non lo
avevo mandato subito a quel paese? Perché gli avevo permesso di bere? E ancora,
perché non lo avevo cacciato a calci nel didietro?
E per quale diavolo di motivo, poi, mi sentivo in dovere
di accompagnarlo a casa?
Più lo guardavo e più quesiti nascevano. Su di me e su di
lui. Lui che anche da ubriaco, fra tutte le cazzate, qualche cosa sensata la
diceva.
“Così hai preso il lubrificante” mormorai,
sedendomi sull’erba, accanto a lui.
Fu come se a sedersi fosse stata un’altra persona.
“Già” sussurrò “Non si sa mai che fossi
io quella persona giusta”
“Sono etero, Luigi”
“Più lo ripeti e meno suona vero”
Sorrisi, reprimendo l’impulso di sdraiarmi.
Non dovevo. Non ero più un ragazzino, insomma. Che diavolo mi stava passando
per la testa, eh?
“Come mi hai chiamato?” chiese improvvisamente
lui, tirandomi all’indietro.
Mi lasciai tirare, sdraiandomi al suo fianco.
“Luigi. Non hai detto di chiamarti così?”
“Già” fece, il tono
incerto “Suona strano, però. Non mi chiama mai nessuno così, sai? Neanche
mio cugino: lui mi chiama Gigi. E’ inutile ripetergli che non mi piace. E tutti gli altri mi chiamavano Stella”
“Non è un brutto nome”
“E’ da femmina”
“E’ il diminutivo del tuo cognome”
“E’ pur sempre un nome da femmina”
“Non è brutto, però”
Sussultai quando mi colpì con la scatola che ancora si
rigirava fra le mani:
“Sai a che serve il lubrificante?”
Non risposi, limitandomi a inarcare un sopracciglio. Forse
non se ne era nemmeno accorto.
“E’ un continuo doppio senso”
“Cosa?”
“Il lubrificante! Se leggi a cosa serve,
intendo…” assunse un’espressione assorta, come se si sforzasse
di ricordare qualcosa “Un lubrificante è
una sostanza, in genere liquida, che interposta tra due superfici ne riduce l'attrito e l'usura” citò, il sorriso che diventava un ghigno
“Ogni meccanismo, dal più modesto al più complesso, che abbia parti in
movimento, necessita di essere lubrificato”
Ridacchiò,
coprendosi gli occhi con un braccio:
“Vedi
che è tutto un doppio senso?”
“Guarda”
mormorai, allontanandogli il braccio e indicandogli il cielo “Una stella
cadente”
Piccola,
appena visibile fra gli altri milioni di puntini che illuminavano il cielo:
percorse una traiettoria parabolica, scendendo verso destra. Velocissima. Da
quant’è che non vedevo una stella cadente?
“Che
giorno è oggi?”
“L’undici
agosto”
“Oh”
spalancò gli occhi lui “Ieri era San Lorenzo”
“Sì”
“La
conosci la storia?”
Scossi
la testa, l’impressione che l’erba si andasse man mano modellando
al mio corpo. Inclinai il capo e continuai a fissare il cielo, il desiderio di
recuperare tutte le notti in cui non lo avevo fatto.
“Scientificamente, la
caduta delle stelle è da imputarsi al passaggio degli asteroidi della
costellazione Perseo all'interno dell'orbita visiva terrestre” mi spiegò
“Le Perseidi, hai presente?”
“No. Non mi è mai piaciuta la geografia
astronomica, a scuola”
“Ti piacciono le stelle cadenti, però”
“Quelle sì”
Ridacchiò, dandomi di gomito e indicandomene
un’altra. Più grande della prima.
“Vedendo il tutto in modo più poetico,
le stelle cadenti sono le lacrime versate dal santo durante il suo supplizio,
che vagano eternamente nei cieli, e scendono sulla terra solo il giorno in cui
Lorenzo morì” prese un bel respiro, gli occhi che non abbandonavano il
cielo stellato “Si dice che le stelle possano avverare i desideri di
tutti coloro che si soffermano a ricordare il suo dolore, lo sai?”
“Sì. Si pronuncia una
filastrocca”
Mi guardò, aggrottando le sopracciglia:
“Non è vero”
“Sì che è vero”
“Non la conosco”
“Non significa che non sia vero”
Si sollevò sui gomiti, guardandomi con
un’espressione da cucciolo arrabbiato. Semplicemente adorabile.
“Te la sei presa per i doppi sensi sul
lubrificante” mi accusò, ricadendo all’indietro.
“Ti assicuro che esiste” risi io,
sogghignando “E non me la prendo per così poco, cosa credi? Il misero
tentativo di abbordaggio di un fuscello come te non mi fa né caldo né freddo”
“Non era misero. E stavo semplicemente
facendo conversazione”
“Mancava solo che mi slacciassi i
pantaloni”
“Temevo troppo un tuo pugno. Potresti
stendermi, lo sai?”
“Sì”
Mise il broncio e tornò a guardare le stelle,
le mani nella tasca della felpa.
“Non hai caldo?”
“Mmm…” si strinse nelle
spalle “Sono un po’ strano: d’inverno ho delle improvvise
vampate, e mi vedi andare in giro in canottiera, e d’estate ci sono notti
in cui mi vengono i brividi, ma…”
S’interruppe di colpo, fissandomi con
insistenza:
“Questa filastrocca, allora?”
“La vuoi sentire?”
“Certo”
Sorrisi, aspettando che passasse
un’altra stella cadente: non ci volle molto. La individuai senza
difficoltà, persa fra tutte le altre. Piccola ma luminosissima. Veloce come
sempre. Mentre ancora compiva il suo arco mormorai:
“Stella, mia bella stella, desidero
che…”
E chiusi gli occhi.
“Desidero che?”
“Non si può dire ad alta voce il
desiderio”
“Io lo voglio sapere, però!”
“E’ personale”
“Allora io non ti dico il mio”
“Non lo voglio sapere”
“Bugiardo”
Ridacchiai, facendo per alzarmi: mi ero già
seduto quando mi sentii tirare per il bordo della maglia.
“No” mormorò lui, cercando di
trascinarmi di nuovo sull’erba “Restiamo ancora”
“Abbiamo già visto le stelle”
“Non c’è mica
un tempo per vederle, sai? Sarebbe assurdo. Assurdo. Asssssurdo. Non ti sembra str…”
“Va bene” approvai, zittendolo
subito “Restiamo ancora un po’, solo un pochino, però”
“Pochino”
Lo sentii che si avvicinava. Poggiò la testa
sulla mia spalla, facendosi vicino vicino.
“E’ vera la filastrocca?”
“Sì”
“E’ bella”
“Sì”
“E’ come se si rivolgessero a me”
Sorrisi, reprimendo a stendo
l’impulso di avvolgerlo con un braccio.
“Tu sei Luigi”
“Anche Stella, però” mormorò
“Qualcuno mi ha detto che non è un brutto nome”
Sorrisi, quella notte, nel modo più sincero
che riesca a ricordare.
E sorrido adesso, quando sento i colpi
abbattersi contro la saracinesca, implacabili. Come sempre.
Guardo il solito orologio che segna
l’una e un minuto: non mi va più, ormai, di aggiustarlo; porterà sempre
un’ora avanti, non c’è niente da fare. Spengo le luci e mi avvicino
alla serranda, aprendola quanto basta per incontrare
un paio di occhioni neri e brillanti nella notte.
Mezzanotte e un minuto.
E’ bello vedere come certe cose non
cambiano.
Stella, mia bella stella, desidero che.
§
Autore: Miseichan
Titolo: Stella, mia bella stella
Genere: Romantico, commedia
Avvertimenti: Yaoi
Raiting: Arancione
Breve introduzione: Ero
convinto di essere troppo cresciuto per credere alle favole di San Lorenzo: da
anni non aspettavo più quella sera con ansia né mi appostavo in terrazza sperando
col cuore in gola di riuscire a vedere una stella cadente. E proprio quando
ormai le stelle non mi interessavano più, una venne di sua sponte a sbattere
contro la mia saracinesca.
Prompt
e parola: Officina
- Lubrificante
Note autore (facoltativo): Probabilmente la notte
di San Lorenzo è un cliché, lo so, ma l’idea era quella e non me la sono
sentita di cambiarla. Spero vi piaccia *-*