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Autore: miseichan    08/10/2012    8 recensioni
Ero convinto di essere troppo cresciuto per credere alle favole di San Lorenzo: da anni non aspettavo più quella sera con ansia né mi appostavo in terrazza sperando col cuore in gola di riuscire a vedere una stella cadente. E proprio quando ormai le stelle non mi interessavano più, una venne di sua sponte a sbattere contro la mia saracinesca.
Storia partecipante al contest: "Alla luce delle stelle"
Genere: Comico, Commedia, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Stella, mia bella stella

 

San Lorenzo, io lo so perché tanto
di stelle per l'aria tranquilla
arde e cade, perché si gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.

 

Mezzanotte e un minuto.

Potrei scommetterci. L’orologio sulla parete segnava l’una e un minuto, certo, ma è anche vero che quell’orologio porta un’ora avanti da che io ne abbia memoria. L’undici agosto era iniziato da ben un minuto quando lui arrivò.

La mia stella.

Ero convinto di essere troppo cresciuto per credere alle favole di San Lorenzo: da anni non aspettavo più quella sera con ansia né mi appostavo in terrazza sperando col cuore in gola di riuscire a vedere una stella cadente.

E proprio quando ormai le stelle non mi interessavano più, una venne di sua sponte a sbattere contro la mia saracinesca.

“E’ chiuso” borbottai a denti stretti, chiudendo il cassetto con aria contrariata “C’è un cartello” aggiunsi, alzando la voce visto che i colpi continuavano, sempre più forti “Perché nessuno legge mai quel dannatissimo cartello?!”

“Il motorino”

La risposta era arrivata fievole, i pugni che smettevano di abbattersi sulla serranda. Scuotendo la testa mi avvicinai, sollevandola meno di un metro: mi piegai sulle ginocchia e sporsi la testa fuori, gli occhi che faticavano a mettere a fuoco nel buio della notte; vedevo solo due scarpe da ginnastica sdrucite:

“L’orario di chiusura è passato da un pezzo, amico” mugugnai irritato “Siamo chiusi

“E’ un’officina?”

“Sì” sospirai, ruotando gli occhi “Ma siamo chiusi

“Ho… ho visto una luce e…”

Era una voce esile, balbettante: si inceppava, la lingua che sembrava ingaggiare una lotta con ogni singola parola. Vi era tristezza in quella voce, e qualcosa di molto simile alla disperazione.

“Mi sono trattenuto un po’ più a lungo del solito, oggi” accennai, facendo per alzarmi e chiudere la conversazione “Come dice il cartello, però, siamo chiusi dalle dieci

“Il motorino” tremò ancora la voce, sempre più bassa.

Mi ero già alzato in piedi, le dita che fremevano per riabbassare la grata:

“Non posso farci niente a quest’ora, amico” feci, stringendomi nelle spalle “Gira a largo

“E come faccio senza motorino?”

Mi passai le mani sul viso, imprecando fra i denti:

“Non me ne fotte un cazzo del tuo maledettissimo motorino, okay?” sbottai, cominciando ad abbassare la serranda. Non feci in tempo a portare a termine l’atto, però, che due piedi si infilarono nel poco spazio rimasto: con un guizzo rapidissimo il corpo di un ragazzo scivolò sotto la saracinesca, raggiungendomi.

Lo osservai basito: sdraiato di schiena sul pavimento lurido dell’officina, l’espressione da cane bastonato. Si sollevò sui gomiti, tirandosi agilmente a sedere:

“Ha dell’alcol?”

“Co… come?” fu la prima cosa che riuscii a chiedere, ancora sorpreso dall’assurdo gesto di lui. Era strisciato sotto la saracinesca. Come Indiana Jones. Gli mancava solo il cappello, constatai, carezzandomi il mento:

“Esci” sibilai, fissandolo con sguardo implacabile “Immediatamente. Fuori di qui”

“Ho bisogno di qualcosa di forte” continuò lui, ignorandomi e alzandosi in piedi “Qualcosa di molto, molto forte

Si pulì i jeans, spolverandoli con le mani, e sbatté le scarpette sdrucite una contro l’altra. Poi si aggiustò la felpa, sì, la felpa. Una felpa in agosto, considerai fra me e me: dovevo avere a che fare con un pazzo. Probabilmente qualche casa di cura lo stava già cercando, mi dissi, osservandolo inquieto mentre girava per l’officina:

“Non hai un posto dove andare?” domandai, cercando di mantenere un tono pacato.

“No” si strinse nelle spalle lui “Sono scappato

Ecco, come volevasi dimostrare. Fra un po’ si sentono le sirene di un’ambulanza.

“Com’è possibile che non ci sia alcol, in questo posto?” fece ancora il ragazzo, cominciando ad aprire i vari cassetti, le dita che frugavano fra chiavi inglesi e cacciaviti “E’ un’officina, no? L’alcol non è una prerogativa qui?”

Trattenni l’insulto che mi era salito alle labbra e ostentai un sorriso di convenienza:

“Siamo sempre chiusi, lo sai?”

“Io sono dentro, però”

“Non ti ho invitato”

“Avresti dovuto farlo”

E poi aprì lo sportello giusto: si chinò in avanti con un gridolino soddisfatto, la bottiglia già stretta nelle mani.

“E’ roba pesante, quella” borbottai, facendo per avvicinarmi.

“Non mi interessa” rispose lui, fermandomi con un solo gesto “Più forte è, meglio è” affermò sicuro.

“E’ troppo forte per te”

“Meglio”

Scossi la testa, guardandolo rapidamente dalla testa ai piedi: era un fuscello. Forse anche per colpa della felpa di qualche taglia più grande della sua, ma sembrava uno stecco. Probabilmente lo avrei mandato a gambe all’aria solo soffiando, un tipino così. Ripensai alla casa di cura e decisi di riprovarci:

“Rischi di restarci secco”

Lui rise, stappando la bottiglia e portandola direttamente alle labbra: buttò giù un sorso dopo l’altro, veloce, senza fermarsi nemmeno per riprendere fiato. In un colpo solo.

“Meglio, davvero” ripeté, allontanando di poco la bottiglia e asciugandosi le labbra con il dorso della mano “Voglio dimenticare. Dimenticarlo. E’ stato lui, lo sai? A rompermi il motorino”

Bevve un altro sorso e mi si avvicinò, traballando leggermente: si appoggiò al cofano della macchina più vicina, gli occhi lucidi e brillanti. Mi fissava, l’espressione di un pazzo.

“Sono andato sotto casa sua, oggi” biascicò, la voce impastata ma più sicura “Lui mi ha accolto urlando, mi ha dato della puttana, del deficiente” tirò su con il naso, bevendo ancora, il tono più arrabbiato “Ha preso una spranga, poi… una spranga

Si fermò, riprendendo fiato. Un altro sorso. Un respiro.

Come se quasi non riuscisse a credere alle sue stesse parole.

“Ti ha colpito?” mi trovai a chiedere, lanciandogli occhiate indagatrici, sinceramente preoccupato.

“No” ridacchiò isterico “Ha colpito il motorino. Lo ha preso a sprangate e ha continuato ad insultarmi, capisci?”

Non dissi niente. Aspettai.

“Una spranga, dico, ma dove cazzo l’ha trovata?” borbottò, continuando a bere e guardandomi fisso “Ha colpito lo specchietto, poi il vetro…” ansimò, gesticolando enfaticamente “E diceva che era colpa mia! Non è assurdo? Caspita, assurdamente assurdo. Proprio assurdo. Assurdo. Assurdo. Che strana parola… assurdo. Non è una strana parola? Con tutte queste esse? Asssssurdo, vedi?”

Ecco. Partito.

“Dammi la bottiglia” gli intimai, allungando la mano verso di lui.

“Certo” sorrise il ragazzo, svuotandola definitivamente “Ecco, ora è tutta tua

Mi rigirai fra le mani la bottiglia vuota e rabbrividii. Lanciai un’occhiata al fuscello e mi sembrò più instabile del solito, l’espressione trasognata, il sorriso a trentadue denti. Ubriaco fradicio.

“Non è un problema per te?” mi chiese, prendendomi in contropiede.

“Tu?” sogghignai, decisamente infastidito “Sì, sei un problema

Lui dischiuse le labbra, incerto: assunse un’espressione concentrata, assorta. Guardò me, poi la bottiglia, poi le sue mani: come se le vedesse per la prima volta. Sospirai, avvicinandomi di nuovo alla serranda e aprendola del tutto.

“No” esclamò di colpo il ragazzo “Non mi riferivo a me!”

“Devo aver capito male, allora”

Gli stavo dando corda, ignorando il fatto che di lì a qualche minuto sarebbe probabilmente crollato a terra. Morto. Individuai in pochi istanti il motorino incriminato, accasciato contro il muro: con uno sbuffo lo tirai dentro.

“Intendevo l’essere gay!” ridacchiò lui, barcollando verso di me “Ho parlato del mio ragazzo, no? Oddio” si fermò un attimo, scivolando a sedere sul pavimento “ex-ragazzo. Ecco. Decisamente ex. Non puoi brandire una spranga e sperare di non diventare un ex, no?

“Decisamente”

Strinsi le labbra, osservando il motorino: era messo indiscutibilmente male. Strano che fosse ancora quasi intero. Quasi. Sfiorai con cautela i vari pezzi ancora utilizzabili, troppo pochi.

“E quindi… che stavo dicendo?”

“Il tuo ex-ragazzo”

“Sì” arricciò le labbra, strisciando a terra per avvicinarsi ancora “Ecco. E quindi parlavo del mio ex, un uomo, e tu non hai fatto una piega. Cioè, intendo, non ti sei lamentato. Non mi hai cacciato. Perché?”

L’ultima domanda aveva assunto una sfumatura sinceramente stupita.

“Avrei dovuto cacciarti” borbottai io “Perché siamo chiusi, però, non perché sei gay

“Ah”

Si sdraiò, piegando le braccia dietro la testa. Chiuse gli occhi.

Sospirai, pregando quasi che si addormentasse. Che cadesse in uno stato di catalessi, così avrei potuto andarmene. A lui, poi, ci avrebbero pensato i ragazzi la mattina dopo. Non ebbi fortuna.

“Come mai non ti do fastidio?”

“Mi dai fastidio” scandii “Molto fastidio

“Sì!” esclamò lui, aprendo di nuovo gli occhi “Non come gay, però, come persona!”

“Non hai il vago sentore che sia peggio?”

“Certo” approvò “Ma è anche positivo. Significa che non ti danno fastidio i gay in sé. E… oh. Sei gay?”

“Non sono gay”

“Sicuro? Perché così si spiegherebbero diverse cose

Sei ubriaco, ne sei consapevole?”

“Certo”

Lasciai perdere il motorino e mi piegai su di lui: schioccai le dita per attirarne l’attenzione già labile. Aveva gli occhi neri: due enormi occhioni neri. Si fermarono nei miei e per un momento dimenticai cosa dovevo dire.

“Non posso fare niente per il tuo motorino” borbottai, allontanandomi di scatto.

Lui si sollevò a sedere, non senza difficoltà, e lanciò un’occhiata affranta prima al mezzo e poi a me. Piegò le labbra in un broncio, gli occhi che si inumidivano:

“Come non puoi?” sussurrò, la voce tremante “E’ il mio motorino

“E’ stato preso a sprangate” spiegai pacato “Ripetutamente”

“Lo so!” esclamò lui, allargando le braccia “Te l’ho raccontato? Sono andato sotto casa sua e lui si è messo a urlare, e poi ha preso una spranga e ha cominciato a colpirlo. Assurdo, vero? Assurdo. Asssssurdo. Che strana par…”

“Oh per l’amor di Dio!”

Lo tirai in piedi afferrandolo per il colletto della felpa: lo trascinai fuori dall’officina, fino alla mia macchina, e lo buttai sul sedile del passeggero. Ignorai i suoi occhioni sgranati e chiusi lo sportello. Tornai indietro: spensi le luci e chiusi la saracinesca con un gesto liberatorio. Entrai in auto con la vaga speranza che lui non fosse più sul sedile.

C’era. E mi fissava.

“Ti accompagno a casa” grugnii, avviando il motore “Dammi un indirizzo

“Sono scappato”

“Questo già lo hai detto, ma non posso lasciarti in mezzo alla strada in queste condizioni. Dammi un indirizzo e ti ci porto. Un manicomio, una casa di cure, qualsiasi cosa”

“Non sono pazzo” mugugnò il ragazzo, facendosi ancora più piccolo “Sono solo gay

Sospirai, cercando di usare un tono più ragionevole:

“Allora perché sei scappato?”

“Per il gay”

“Come?”

“Ai miei la cosa non andava tanto bene, così me ne sono andato

Aggrottai le sopracciglia, studiando quella figurina all’apparenza troppo fragile per affrontare il mondo.

“Quindi non hai una casa?”

“Ma che dici?” sbottò lui, raddrizzando le spalle “Certo che ho una casa

Stavo per tirargli un destro.

“Mi dai l’indirizzo di questa casa, allora?” sussurrai, il tono piatto.

“Certo. E’ casa di mio cugino. Mi ospita, sai? Quando sono scappato, ecco, sono andato da lui e lui mi ha dato una camera. Non è male, sai? Ci sto proprio bene. E poi per lui non è un problema, il mio essere gay, dico. Come per te. Non mi guarda in modo diverso, come facevano i miei. Non dice frasi strane, niente. Si spoglia anche davanti a me, figurati…” ridacchiò, reclinando il sedile all’indietro e allungando i piedi sul cruscotto “Non ha paura che gli salti addosso: dice che se mai mi venisse voglia di assalirlo, ci penserebbe lui a togliermela con un pugno ben assestato

Spensi il motore.

“Non hai intenzione di darmi l’indirizzo, vero?”

“Che indirizzo?”

Mi veniva voglia di piangere. Poggiai la fronte sul volante, chiudendo gli occhi.

“Mio cugino è stato il primo a farmi sentire normale, lo sai? Anche a scuola mi prendevano sempre in giro. Oh. Non mi sono neanche presentato. Tu come ti chiami?”

“Voglio un indirizzo, ragazzo”

Lui girò il capo verso di me, l’espressione sorpresa:

“Oh, ma perché non lo hai detto subito? Via degli Olmi, 83”

Riaccesi il motore e ingranai la marcia in meno di un secondo, il piede che già premeva sull’acceleratore. Assurdo. Quella serata non avrebbe potuto essere più assurda. Asssssurda, ecco.

“Allora?” ricominciò lui “Come ti chiami?”

“Ercole”

Annuì, dandomi un pugnetto sulla spalla. A stento lo sentii.

“Ti sta bene. Con tutti quei muscoli e l’altezza, e la forza… cioè, prima mi hai sollevato neanche fossi un fuscello

“Tu sei un fuscello”

“Sì, vabbè, ma tu sei muscoloso”

Accelerai ancora, svoltando a destra: mi addentrai nella campagna, prendendo una strada secondaria.

“Oh” riprese di colpo lui “Io sono Luigi. Luigi Stellato”

Si passò una mano fra i capelli, ravvivandoli: erano neri come gli occhi, tagliati poco sopra le spalle.

“Che stavamo dicendo?” domandò, sinceramente curioso.

“Ti sei appena presentato” risposi io, aprendo il finestrino e beandomi dell’aria fresca della notte. Faceva caldo. Del resto era pur sempre Agosto, mi dissi. Ignora il ragazzo con la felpa, è Agosto. Deve far caldo.

“Già. C’era un motivo però… oh! Ti stavo dicendo della scuola! Mi prendevano tutti in giro, lo sai? E’ stato un vero e proprio incubo: non mi chiamavano nemmeno più Luigi, sai? Mi chiamavano Stella. Per via del cognome, no?”

“Da quanto hai finito la scuola?”

“Da un anno” borbottò lui, incerto, guardandosi le mani “Sì. Da un anno. Ora frequento l’università, che poi è pur sempre una scuola, eh? Cioè, dico io, ma gli esami non finiscono mai?

“Perché ti prendevano in giro?”

Mi guardò come se quello ubriaco fossi io.

“Ma per l’essere gay, no?” sbottò, l’espressione ferita “Non mi ascolti, allora! Di che stavamo parlando?”

“Come facevano a sapere che sei gay?”

Lui schiuse le labbra, come preso in contropiede da quella domanda.

“Gliel’ho detto io”

“Perché?” feci io, rifilandogli impulsivamente uno scapaccione “Perché rovinarsi la vita? Non potevi startene zitto? Lo hai sbandierato ai quattro venti, immagino, come hai fatto con me. Perché?”

“Perché no?” chiese lui, stringendosi nelle spalle, l’aria stordita “Se è quello che sono, perché non avrei dovuto dirlo? Perché nasconderlo? Cioè… tu mica nascondi i muscoli, no? Non si nasconde il proprio essere”

Serrai le mani attorno al volante.

“Sei un ragazzino pazzo”

“No” ridacchiò lui “Solo un tantino ubriaco

Gli lanciai un’occhiata di sbieco e lo vidi mettersi a sedere, improvvisamente inquieto. Aprì il finestrino e cacciò la testa, sporgendosi fuori. Mancava solo che tirasse fuori la lingua.

“Torna dentro” intimai, afferrandolo per il cappuccio della felpa. Lui si divincolò, facendo per aprire lo sportello.

“Che cazzo fai?!” sbottai, frenando di colpo.

Lui spalancò del tutto lo sportello, cercando di rimettersi in piedi quel tanto che era necessario per uscire. Si era dimenticato della cintura: quasi si strozzò, la saliva che gli andava di traverso. Lo liberai, sospirando, e lo sospinsi fuori dalla macchina:

“Contento?”

Le gambe quasi gli cedettero. Ci vollero diversi attimi prima che trovasse un vago equilibrio:

“Ho bisogno di aria”

“Il finestrino non bastava?” chiesi, tagliente.

Non rispose, muovendo qualche passo sull’erba: lo guardai barcollare, affinando lo sguardo pur di non perderlo di vista. Ci eravamo allontanati dalle luci delle case, dei lampioni: immersi nel buio a stento lo vedevo. Con un gemito frustrato scesi anch’io, raggiungendolo e afferrandolo per il cappuccio:

“Torna dentro” sibilai, strattonandolo.

“No” piagnucolò lui “Non voglio”

Quasi mi aspettavo che si mettesse a sbattere i piedi per terra.

“Guarda” fece ancora, la voce genuinamente contenta “L’erba, il cielo, le stelle… non ti vien voglia di sdraiarti e non muoverti più? Hai mai dormito sull’erba? E’ bello, sai? Certo, poi rischi di avere un po’ di mal di schiena ma non è grave, ti assicuro. E… ma mi vuoi lasciar andare?”

“Torna in macchina”

“Ma non ci penso proprio!” si divincolò, arretrando velocemente e rischiando di sbilanciarsi: traballò, correndo il rischio di cadere “Non vuoi sdraiarti a guardare un po’ le stelle?”

Questa volta la domanda era stata dolce, gli occhioni neri che di nuovo si spalancavano.

Sei ubriaco

“E allora?”

“E allora devo riportarti a casa”

“Non è casa mia” specificò lui, alzando un dito e puntandomelo contro “E’ casa di mio cugino. E’ simpatico, sai? Un po’ troppo etero per i miei gusti, ma simpatico. Devo fartelo conoscere, sì. Non mi fa mai bere, sai? Dice che non gli piaccio quando sono ubriaco. Dice che non reggo l’alcol. E dice che dopo aver bevuto parlo troppo. E a vanvera. Non è assurdo? Assurdo. Asssssurdo. Non è strana come parola, eh?”

Lo afferrai per la felpa e quasi lo lanciai contro la macchina: in palestra sollevavo pesi che erano il doppio di lui.

“Ha ragione su tutto, tuo cugino. Parli troppo e decisamente a vanvera. Ora, prima di ricominciare a discutere su quanto sia strana la parola assurdo, torna in macchina. Sono stato chiaro?”

Lo sospinsi malamente e qualcosa cadde dalla tasca della felpa, finendo nell’erba: mi piegai per raccoglierla e restai imbambolato, osservando incredulo la confezione di lubrificante. Lubrificante? Alzai lo sguardo e incontrai il sorriso incerto e leggermente imbarazzato del ragazzo:

“L’ho preso nella tua officina”

“Lo hai rubato, vorrai dire” borbottai, rigirandomelo fra le dita.

“No!” eruppe lui, agitando le mani con fare forsennato “L’ho preso solo in prestito! L’ho visto lì e mi sono detto che non ci sarebbe stato niente di male a provarci, no? In fondo non ti facevo neanche schifo. Cioè, non mi hai cacciato, no? E non hai detto niente sul mio ragazzo… no! Ex! Perché sbaglio ancora? Ex!”

“Perché lo hai preso?” lo interruppi, cercando di capire qualcosa in quel fiume di parole prive di senso.

“Per provarci con te”

“Sono etero”

“Dicono tutti così”

Inarcai le sopracciglia, lanciandogli la confezione. Lui la guardò cadere senza provare neanche a prenderla. Poi le diede un calcetto e sogghignò, la voce che si faceva improvvisamente maliziosa:

“Secondo me c’è una parte gay dentro tutti, sai? Solo in alcuni è più forte che in altri. Gli altri la ignorano, capisci? Fingono che non sia così, che non ci sia. Però… però quando e se arriva la persona giusta, secondo me, non importa se è maschio, femmina o transessuale. Semplicemente è quella giusta. E non ci puoi fare niente”

Mentre parlava si era piegato sui talloni per afferrare la scatola; poi si era accasciato sull’erba: prima seduto, quindi sdraiato, completamente rilassato. La voce si era andata abbassando, lo sguardo che si perdeva nel cielo.

Non sapevo cosa fare.

Per la prima volta dopo tanti anni, provai di nuovo un senso di inadeguatezza e impreparazione che avevo quasi dimenticato. Fissai quel ragazzino e sentii una ridda di domande farsi strada in me: perché non lo avevo mandato subito a quel paese? Perché gli avevo permesso di bere? E ancora, perché non lo avevo cacciato a calci nel didietro?

E per quale diavolo di motivo, poi, mi sentivo in dovere di accompagnarlo a casa?

Più lo guardavo e più quesiti nascevano. Su di me e su di lui. Lui che anche da ubriaco, fra tutte le cazzate, qualche cosa sensata la diceva.

“Così hai preso il lubrificante” mormorai, sedendomi sull’erba, accanto a lui.

Fu come se a sedersi fosse stata un’altra persona.

“Già” sussurrò “Non si sa mai che fossi io quella persona giusta

“Sono etero, Luigi”

“Più lo ripeti e meno suona vero”

 Sorrisi, reprimendo l’impulso di sdraiarmi. Non dovevo. Non ero più un ragazzino, insomma. Che diavolo mi stava passando per la testa, eh?

“Come mi hai chiamato?” chiese improvvisamente lui, tirandomi all’indietro.

Mi lasciai tirare, sdraiandomi al suo fianco.

“Luigi. Non hai detto di chiamarti così?”

“Già” fece, il tono incerto “Suona strano, però. Non mi chiama mai nessuno così, sai? Neanche mio cugino: lui mi chiama Gigi. E’ inutile ripetergli che non mi piace. E tutti gli altri mi chiamavano Stella”

“Non è un brutto nome”

“E’ da femmina”

“E’ il diminutivo del tuo cognome”

“E’ pur sempre un nome da femmina”

“Non è brutto, però”

Sussultai quando mi colpì con la scatola che ancora si rigirava fra le mani:

“Sai a che serve il lubrificante?”

Non risposi, limitandomi a inarcare un sopracciglio. Forse non se ne era nemmeno accorto.

“E’ un continuo doppio senso”

“Cosa?”

“Il lubrificante! Se leggi a cosa serve, intendo…” assunse un’espressione assorta, come se si sforzasse di ricordare qualcosa “Un lubrificante è una sostanza, in genere liquida, che interposta tra due superfici ne riduce l'attrito e l'usura” citò, il sorriso che diventava un ghigno “Ogni meccanismo, dal più modesto al più complesso, che abbia parti in movimento, necessita di essere lubrificato

Ridacchiò, coprendosi gli occhi con un braccio:

“Vedi che è tutto un doppio senso?”

“Guarda” mormorai, allontanandogli il braccio e indicandogli il cielo “Una stella cadente

Piccola, appena visibile fra gli altri milioni di puntini che illuminavano il cielo: percorse una traiettoria parabolica, scendendo verso destra. Velocissima. Da quant’è che non vedevo una stella cadente?

“Che giorno è oggi?”

“L’undici agosto”

“Oh” spalancò gli occhi lui “Ieri era San Lorenzo

“Sì”

“La conosci la storia?”

Scossi la testa, l’impressione che l’erba si andasse man mano modellando al mio corpo. Inclinai il capo e continuai a fissare il cielo, il desiderio di recuperare tutte le notti in cui non lo avevo fatto.

Scientificamente, la caduta delle stelle è da imputarsi al passaggio degli asteroidi della costellazione Perseo all'interno dell'orbita visiva terrestre” mi spiegò “Le Perseidi, hai presente?”

“No. Non mi è mai piaciuta la geografia astronomica, a scuola

“Ti piacciono le stelle cadenti, però”

“Quelle sì”

Ridacchiò, dandomi di gomito e indicandomene un’altra. Più grande della prima.

“Vedendo il tutto in modo più poetico, le stelle cadenti sono le lacrime versate dal santo durante il suo supplizio, che vagano eternamente nei cieli, e scendono sulla terra solo il giorno in cui Lorenzo morì” prese un bel respiro, gli occhi che non abbandonavano il cielo stellato “Si dice che le stelle possano avverare i desideri di tutti coloro che si soffermano a ricordare il suo dolore, lo sai?”

“Sì. Si pronuncia una filastrocca”

Mi guardò, aggrottando le sopracciglia:

“Non è vero”

“Sì che è vero”

“Non la conosco”

“Non significa che non sia vero”

Si sollevò sui gomiti, guardandomi con un’espressione da cucciolo arrabbiato. Semplicemente adorabile.

“Te la sei presa per i doppi sensi sul lubrificante” mi accusò, ricadendo all’indietro.

“Ti assicuro che esiste” risi io, sogghignando “E non me la prendo per così poco, cosa credi? Il misero tentativo di abbordaggio di un fuscello come te non mi fa né caldo né freddo

“Non era misero. E stavo semplicemente facendo conversazione

“Mancava solo che mi slacciassi i pantaloni

“Temevo troppo un tuo pugno. Potresti stendermi, lo sai?”

“Sì”

Mise il broncio e tornò a guardare le stelle, le mani nella tasca della felpa.

“Non hai caldo?”

“Mmm…” si strinse nelle spalle “Sono un po’ strano: d’inverno ho delle improvvise vampate, e mi vedi andare in giro in canottiera, e d’estate ci sono notti in cui mi vengono i brividi, ma…

S’interruppe di colpo, fissandomi con insistenza:

“Questa filastrocca, allora?”

“La vuoi sentire?”

“Certo”

Sorrisi, aspettando che passasse un’altra stella cadente: non ci volle molto. La individuai senza difficoltà, persa fra tutte le altre. Piccola ma luminosissima. Veloce come sempre. Mentre ancora compiva il suo arco mormorai:

“Stella, mia bella stella, desidero che…”

E chiusi gli occhi.

“Desidero che?”

“Non si può dire ad alta voce il desiderio

“Io lo voglio sapere, però!”

“E’ personale”

“Allora io non ti dico il mio”

“Non lo voglio sapere”

“Bugiardo”

Ridacchiai, facendo per alzarmi: mi ero già seduto quando mi sentii tirare per il bordo della maglia.

“No” mormorò lui, cercando di trascinarmi di nuovo sull’erba “Restiamo ancora

“Abbiamo già visto le stelle”

“Non c’è mica un tempo per vederle, sai? Sarebbe assurdo. Assurdo. Asssssurdo. Non ti sembra str…”

“Va bene” approvai, zittendolo subito “Restiamo ancora un po’, solo un pochino, però

“Pochino”

Lo sentii che si avvicinava. Poggiò la testa sulla mia spalla, facendosi vicino vicino.

“E’ vera la filastrocca?”

“Sì”

“E’ bella”

“Sì”

“E’ come se si rivolgessero a me”

Sorrisi, reprimendo a stendo l’impulso di avvolgerlo con un braccio.

“Tu sei Luigi”

“Anche Stella, però” mormorò “Qualcuno mi ha detto che non è un brutto nome

Sorrisi, quella notte, nel modo più sincero che riesca a ricordare.

E sorrido adesso, quando sento i colpi abbattersi contro la saracinesca, implacabili. Come sempre.

Guardo il solito orologio che segna l’una e un minuto: non mi va più, ormai, di aggiustarlo; porterà sempre un’ora avanti, non c’è niente da fare. Spengo le luci e mi avvicino alla serranda, aprendola quanto basta per incontrare un paio di occhioni neri e brillanti nella notte.

Mezzanotte e un minuto.

E’ bello vedere come certe cose non cambiano.

 

Stella, mia bella stella, desidero che.

 

§

 

 

 

 

Autore:  Miseichan

Titolo: Stella, mia bella stella

Genere: Romantico, commedia

Avvertimenti: Yaoi

Raiting:  Arancione

Breve introduzione:  Ero convinto di essere troppo cresciuto per credere alle favole di San Lorenzo: da anni non aspettavo più quella sera con ansia né mi appostavo in terrazza sperando col cuore in gola di riuscire a vedere una stella cadente. E proprio quando ormai le stelle non mi interessavano più, una venne di sua sponte a sbattere contro la mia saracinesca.

Prompt e parola: Officina - Lubrificante
Note autore (facoltativo): Probabilmente la notte di San Lorenzo è un cliché, lo so, ma l’idea era quella e non me la sono sentita di cambiarla. Spero vi piaccia *-*

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
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