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Autore: LyraWinter    09/10/2012    5 recensioni
Parigi, Natale Vigilia di Natale.
Cosa succede quando pochi secondi cancellano improvvisamente tutto ciò attorno a cui ruotano il tuo frammentato passato ed il tuo piccolo mondo?
Cléo approda a Montmartre, scappando da un' Inghilterra per lei piena di ricordi troppo dolorosi, alla ricerca di quell'unico, piccolo dettaglio che le testimoni visivamente che tutto ciò che ha avuto importanza nella sua vita é esistito davvero. Non vi é più nulla, oltremanica per lei, se non solitudine.
Non conosce nessuno, non ha una casa e l'ultimo pound che aveva in tasca lo ha speso per una bottiglietta d'acqua in una polverosa macchinetta a Victoria Station. Eppure, quando tutto le sembra perduto, la mano calda, familiare e confortevole di qualcuno che sembra conoscerla, le accarezza la fronte, la solleva per condurla salda attraverso il doloroso processo del ricordo, perché é solo attraverso quello che Cléo potrà accettare la nuova, mutata, realtà che si trova a dover affrontare.
[STORIA SOSPESA]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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1.

Lost

 

 

It's a long way round

to find this out

And it seems you have so much to say

and I drowned you out

 

Lost -Paper Aeroplanes-

 

 

 

 

 

Una quiete irreale era scesa sulla città con il sopraggiungere della sera. Era come se all’improvviso tutta la vita che pulsava nelle piazze e nelle strade gremite di persone dai mille volti confusi che camminavano , alcune con passo veloce e frettoloso, altre con un’andatura pigra e rilassata, stesse gradualmente abbandonando quei luoghi che si materializzavano dinnanzi al mio sguardo smarrito per la prima volta nella mia vita. Ero giunta ai piedi del colle da una dimensione senza tempo, dove non vi erano passanti, solo corpi estranei che si muovevano accanto a me, incrociavano il mio camminare incerto, mi sfioravano, si scontravano, si allontanavano. Non mi preoccupai nemmeno di schivarli e, se accidentalmente ne travolsi qualcuno nel mio vagare, non mi curai nemmeno di alzare gli occhi per scusarmi. Attorno a me ogni individuo, ogni volto, ogni edificio, si perdeva nell’anonimato di forme confuse e prive d’importanza dinnanzi all’immagine nitida e ben definita che portavo impressa nella mente, incapace di vedere o pensare ad altro che a quel cavalletto di legno consumato, a quella tela incompleta e a quello scorcio di corteccia scura, in leggera penombra, dietro ai quali si intravedeva un cielo il cui azzurro si tingeva delle tinte calde del sole al tramonto.

 

Nevicava da quella che mi era apparsa un’ora appena, ma sull’acciottolato regolare sotto ai miei piedi e sui tetti scuri che incombevano sulla mia testa china si era già depositata una lieve e soffice coltre candida, che brillava illuminata dalle luci tremolanti dei lampioni e che attutiva i piccoli passi timorosi di coloro che si affrettavano alle loro case per prepararsi al cenone della Vigilia di Natale. O così credevo, visto che da giorni vagavo con l’impressione che, in quei gelidi giorni di dicembre, il tempo mi scivolasse addosso come le gocce che si rincorrono sulle stoffe impermeabilizzate delle giacche invernali. Ognuna di loro nella mia testa era un giorno: scivolava veloce, lasciandosi dietro una lieve traccia che in pochi, brevissimi attimi si sarebbe ritratta fino a scomparire, andando a mescolarsi senza indugio a terra, dove altre mille piccole gocce formavano un'impercettibile pozza dalla forma irregolare ed indefinibile.

 

Dai piccoli negozietti tipici che si affacciavano sulla strada giungevano carole natalizie che si mescevano ai mormorii e alle note distorte delle casse scadenti dei punti vendita turistici tracimanti di gadget scintillanti indigeni, come lo ero io, in quel paese straniero a me sconosciuto. Ovunque intorno a me potevo udire voci flebili, smorzate dalle pesanti sciarpe di lana o dai baveri dei cappotti, che auguravano Buon Natale, si scambiavano saluti frettolosi, cenni silenziosi; le persone che ancora si trovavano in strada si dirigevano di gran fretta in direzione opposta alla mia, verso i piedi del colle, o trovavano riparo negli androni dei palazzi e delle piccole case intonacate. Nessuno sembrava intenzionato a bighellonare com’era consuetudine per le stradine del villaggio né pareva intenzionato a godersi lo spettacolo della prima neve in città. Tutti si muovevano come se fossero in fremente e trepidante attesa di un evento straordinario e immaginavo che proprio così dovesse essere in quel ventiquattro dicembre che sembrava rivendicare orgogliosamente il suo arrivo, con i soffici fiocchi di neve, le sue luci dorate, lo spirito di allegria e pace infuso dalle note delicate e melodiose dei suoi canti.

 

Fra tutte quelle persone, musiche e sensazioni, che percepivo come un unico, intricato groviglio di stimoli indecifrabili, persa come una totale estranea, vi ero io, una piccola figura che avanzava con il capo chino, coperto da un liso berretto grigio, per proteggere il volto congelato dai pesanti fiocchi che cadevano spezzando il buio della sera con il loro biancore tremolante. Se qualcuno si fosse fermato a osservarmi avrebbe notato che il viso arrossato per il freddo era solcato da spesse strisce che mi percorrevano le guance, per andare a terminare sul mento e poi giù, fino al collo del maglione di lana pesante che mi ero gettata addosso per proteggermi dalle rigide temperature. Avevo smesso di piangere da giorni ormai, non perché non lo volessi, ma perché sentivo fisicamente che il mio corpo non era più in grado di espellere liquidi sotto forma di lacrime; tuttavia non mi ero curata di pulirmi il viso né di strofinare le piccole incrostazioni saline che si erano accumulate nei continui, incontrollabili, scoppi di emozioni e nei giorni di sporadico riposo nei sedili delle metropolitane e dei treni su cui ero salita per giungere fino alla mia meta. Sempre se meta si potesse chiamare un luogo di cui non conoscevo l’esatta ubicazione e le cui sole coordinate spaziali erano un cavalletto consumato da un pittore e un’impercettibile incisione sulla corteccia scura di un albero.

 
Non ero nemmeno in grado di indicare il momento preciso in cui quei solchi erano comparsi sulle mia guance: li vedevo riflessi in ogni vetrina, in ogni finestrino nel quale accidentalmente mi specchiavo. Se entravo in un bagno chiudevo volontariamente gli occhi, anche se a pensarci bene non ne usavo uno da giorni, terrorizzata di incontrare qualcosa che potesse riflettere nitida e crudamente reale la mia immagine; avevo timore di ammirarvi il ritratto di un’estranea, di un corpo svuotato dell’alito di vita che animava i miei occhi stanchi e gonfi, ora disperso in qualche angolo del mondo che mi ero lasciata alle spalle.
 
Non mangiavo da due giorni o forse più: non perché non avessi fame, ma perché avevo speso l’ultimo pound in una bottiglietta d’acqua di uno sporco distributore della metropolitana quando le labbra avevano iniziato a tagliarsi per la scarsa idratazione. Mi stringevo in quel cappotto di tweed verde e blu con il colletto consumato troppo grande per la mia esile figura, che mi faceva apparire ancora più piccola di quanto già non fossi di natura. Riconoscevo che, agli ignari passanti, non dovevo sembrare altro che una di quelle ragazze dal look trasandato accuratamente studiato che fanno tendenza al giorno d’oggi: la realtà era che la calzamaglia di lana pesante che indossavo era strappata sul ginocchio destro perché qualche giorno prima, presa da un’angoscia che a stento mi permetteva di respirare, mi ero messa a correre dietro alla prima linea della metropolitana nella quale mi ero imbattuta, inciampando sulle gambe malferme per l’assenza di forze, di sonno, di energia. A un acuto osservatore non sarebbe passata inosservata la profonda abrasione che tentavo di celare dietro la stoffa ridotta a brandelli, ma in una città dove essere strano era sinonimo di alla moda nessuno si accorgeva di quel dettaglio né del fatto che i buchi dei miei stivali consunti fossero dovuti al troppo camminare e non a una mera ragione estetica. E neppure che quella Nikon semidistrutta che stringevo al collo, quasi ne andasse della mia stessa vita, contenesse tutto ciò che mi importasse dei precedenti ventitre anni.
 
D’un tratto mentre proseguivo imperterrita e instancabile il mio cammino, ansiosa di trovarmi nel luogo tanto agognato, ebbi l’impressione di non essere più sola, in quella dimensione parallela nella quale avevo la percezione di muovermi. Nell’androne di un palazzo, una ragazza sedeva con le gambe rannicchiate al petto cantando con voce flebile e gli occhi socchiusi la melodia che giungeva dal negozio all’altro capo della strada: aveva i capelli più biondi dei miei che le incorniciavano il volto diafano parzialmente nascosto alla mia vista e la voce più dolce che avessi mai udito. A differenza di tutti gli altri suoni che avevo registrato fino a quel momento, quello mi appariva straordinariamente reale, seppure non si trattasse di niente di più che un debole sussurro. Ciò che mi colpì maggiormente, tuttavia fu il fremito che la sporcava, quasi come se stesse soffocando in gola il flusso di emozioni che si facevano violentemente strada in lei e la faceva tremare mentre tentava di incanalarlo in quella melodia armoniosa. Mi appariva evidente, dal suo viso appuntito completamente rapito, che la sua voce provenisse da qualche mondo nascosto dentro di lei, nel quale stava vagando il pensiero mentre attorno a lei, quello reale si fermava a contemplare la sua figura eterea, quasi angelica.  Il naso prese a pizzicarmi mentre sentivo gli occhi velarsi nuovamente e le forme liquefarsi dietro le lacrime che sgorgavano gravose e abbondanti attraverso le ciglia. Non comprendevo a quale risorsa avessero attinto per bagnarsi ancora, ma accolsi la loro venuta come una piccola conquista: forse da qualche parte il mio corpo mi stava dicendo che era ancora vivo, nonostante io non percepissi nemmeno il peso delle braccia strette al petto attorno a quel piccolo tesoro che cullavo come se fosse un bambino indifeso. Bloccai il mio stanco procedere, levando gli occhi per osservarla più attentamente; per qualche istante i nostri sguardi si incrociarono e così restammo, mentre lei abbassava gradualmente la voce fino a interrompere il canto che aveva attirato l’attenzione di molti passanti, compresi due ragazzi dai capelli rossi che la osservavano a distanza, con il capo reclinato sulla spalla e le gambe leggermente divaricate, in assorta contemplazione. Stava lì a fissarmi con uno sguardo indecifrabile e, per qualche momento, lessi nel suo debole sorriso langue l’espressione empatica di chi non solo conosce le tue emozioni, ma è anche in grado di condividerle.
 
Fu, dopo giorni in cui mi aggiravo come un corpo svuotato della sua anima, il primo, fugace istante in cui ebbi l’impressione che ancora ce n’era, di vita attorno a me. Scostai gli occhi velocemente nell’attimo esatto in cui la ragazza fece per aprire la bocca, evidentemente accortasi dello stato pietoso in cui ero piombata. Mi allontanai in fretta, o perlomeno, questo era quello di cui ero convinta, perdendomi nuovamente in quel flusso di persone che mi sfioravano, mi urtavano, mi passavano accanto come se non esistessi, come se fossi una figura indegna di attenzione. Forse lo ero davvero, con quegli abiti troppo grandi, le calze sdrucite e gli stivali fradici e il cappello calato sul viso. Tutto ciò che possedevo era contenuto in uno zaino verde dai lacci di cuoio, di quelli militari che si comprano ai banchetti dell’usato per una manciata di sterline. Anche quello si stava bucando e una sottile penna nera pendeva pericolosamente dall’estremità sinistra, minacciando le malcapitate giacche dei turisti che avevano la sfortuna di passarmi accanto.
 
Mi fermai solo quando i miei piedi percepirono la strada appianarsi sotto di loro: mi portai una mano alla cuffia fradicia, sollevandola per potere osservare meglio la vista che mi si apriva dinnanzi.
 
Eccola lì, finalmente davanti ai miei occhi, la Place du Tertre, nel mio immaginario sempre gremita di turisti e pittori con il basco calato sulla testa e una tavolozza in mano, che si muovevano accompagnati dalle note della Vie en Rose. Appariva in quel momento molto diversa dalle immagini costruite nel corso degli anni: brulicante di artisti o presunti tali che si affrettavano a chiudere cavalletti, impilare tele e fogli di carta grezza, impacchettare colori a olio e acquerelli sotto lo sguardo attento di qualche coraggioso turista, che indugiava a osservare quel silenzioso spettacolo con aria curiosa, certo di assistere a una scena inusuale, di quelle da raccontare con orgoglio agli amici a casa.
Senza staccare gli occhi da quel luogo affondai la mano nella profonda tasca interna della giacca estraendone l’immagine spiegazzata e stendendola dinnanzi a me con le dita delle mani congelate, nonostante i guanti di lana pesante con cui tentavo di coprirle, almeno parzialmente. Più volte dovetti ripetere l’operazione, per il loro tremolio, dovuto al freddo o forse all’emozione, per renderla chiara non tanto a me, quanto a coloro a cui avevo intenzione di mostrarla per scoprire quale fosse quel piccolo angolo di mondo a me così caro, nonostante non vi fossi mai stata.
Le persone alle quali mi avvicinavo, probabilmente scambiandomi per una ragazza di strada, si allontanavano; non le biasimavo, ma il senso di vergogna che provavo aumentava a ogni muta negazione d’aiuto. Tentai con qualche turista, sperando in un occhio, o in un obiettivo, particolarmente acuti, ma fu quando uno di loro estrasse dalla tasca una moneta da due euro, che mi resi conto che nessuno mi avrebbe mai preso sul serio in quelle condizioni.
Sentendo la gola serrarsi per la rabbia e la delusione, presi ad analizzare ogni singolo albero della piazza, con cieca disperazione, brancolando in quel biancore senza accorgermi che non stavo nemmeno cercando per davvero. Sentivo le forze abbandonarmi, scemando lentamente, proprio allora che ero così straordinariamente vicina alla meta.
 
Per ore girovagai assorta in inutili tentativi. Avevo i piedi inzuppati e insensibili che si rifiutavano di muovere un altro passo, le gambe percorse da fitte violente e dolorose e le maniche zuppe di neve e delle lacrime che avevo asciugato maldestra, irritandomi con la lana grezza e ruvida le guance già arrossate notevolmente dal freddo, dal pianto, e dall’aria tagliente di quella sera nevosa. Imboccai la prima stradina sulla destra, ritrovandomi a breve in un piccolo spazio appartato, dal quale si poteva ammirare una suggestiva panoramica della città illuminata. Cominciai a girare in tondo, freneticamente, alla ricerca di un riparo dove potermi riprendere, dove poter sedare per qualche istante quella sensazione di spossatezza che mi provocava persino costanti e ripetuti attacchi di nausea. Con gli occhi ormai annebbiati, scorsi in un angolo una piccola tettoia di legno scura che riparava quello che giudicai essere lo spazio vuoto di un paio di scooter, probabilmente messi in un luogo riparato dalla neve. Non mi avrebbe certo scaldato, ma almeno i fiocchi non avevano raggiunto una piccola porzione d’asfalto, sufficientemente spaziosa per potermi raggomitolare senza sedermi sul bagnato.
Mi sentivo allo stremo delle forze e avevo l’impressione che non sarei più riuscita a muovere un passo. La testa e i crampi allo stomaco mi piegavano in due e mi attraversavano come coltellate. Tirai fuori la coperta di lana che avevo infilato a forza nello zaino e mi ci avvolsi, acciambellandomi sotto quella tettoia e percependo gli sguardi compassionevoli di coloro che mi passavano a fianco scuotendo la testa, pensando che fossi una dei tanti clochard che affollano le vie di Parigi, le cui speranze di vita dovevano divenire pressoché minime in quelle giornate gelide e tempestose. A pensarci bene forse in quel momento mi auguravo davvero di potermi addormentare e chiudere gli occhi per sempre, per non dovere più sopportare il peso di una vita in cui mi era stato portato via tutto, per abbandonare in un angolo il peso morto di un corpo vuoto, che non sentivo nemmeno più mio.
 
-Povera ragazza, è la Vigilia di Natale.
-Ma il comune non potrebbe fare nulla per aiutare questa gente?
 
Potevo sentire i loro sguardi compassionevoli, i commenti impietositi. Chissà perché, quando vedi una persona nelle condizioni in cui mi trovavo allora, non riesci mai a pensarne male e cominci a costruire nella mente incredibili storie, domandandoti quale sia la ragione che spinge qualcuno ad abbracciare uno stile di vita così abietto: droga, tragedie familiari, alcol, sembra quasi che la sopita fantasia delle persone si desti improvvisamente dinnanzi alla vista di tanta miseria. Non avevo mai vissuto per strada né ne avevo mai avuto l’intenzione, eppure non mi riusciva più difficile comprendere cosa passava per la mente di coloro che compivano scelte così estreme. Il senso di vuoto e di disperazione ti schiaccia a terra e tu ti trovi in balia degli eventi, come intrappolato in una corrente che ti trascina a valle, lasciandoti a malapena la possibilità di riempire i polmoni di aria, prima di tornare ad annaspare e a lottare per rimanere a galla. È quasi come essere in un costante stato di ebbrezza, in quel momento di stordimento in cui non riesci a distinguere cosa sia opportuno e cosa no: lo fai e basta, perché é quello che ti senti in quel preciso momento. Se devi dormire, dormi, se devi piangere, lasci uscire le lacrime finché ne hai, se devi ridere, ti fai venire i crampi alla pancia. Ogni freno inibitorio crolla, dinnanzi alla tua incapacità di giudizio e raziocinio.
 
Qualcuno mi mise accanto un paio monete, le sentii tentennare lievemente accanto a me. Non avevo nemmeno la forza per raccoglierle, nonostante fossi consapevole che, se avessi voluto mettere a frutto il guadagno di quell’elemosina, mi sarei dovuta sbrigare, prima che ogni negozio chiudesse. Ero come impietrita, come se quella piccola, folle e inutile ricerca fosse stato l’unico appiglio che mi permettesse di proseguire nel mio vagare apparentemente senza meta. Era la stessa sensazione che si prova al termine di una lunga corsa o fatica: sono gli ultimi dieci metri quelli che ti distruggono. Sei ormai vicinissimo alla fine e sai già che, con un ultimo, piccolo sforzo, poi starai meglio.
Ma non ne hai più, di energia, per affrontarlo e ti sembra che superare quell’ultimo ostacolo, costituisca una fatica inutile e insormontabile rispetto a tutte quelle ormai passate. Così te ne stai lì, stremato, indeciso sul da farsi. A volte stringi i denti, prosegui e quasi sempre hai successo. Altre non riesci, ti abbandoni lì, esanime e crolli, vinto dalla fatica nell’ultimo, estremo attimo di lucidità. E li rimani, soffocando ogni barlume di speranza, incapace di elaborare razionalmente il fatto che sei a pochi passi dalla conclusione e che non ha senso fermarsi.
 
Così feci io, disperando dinnanzi alla spossatezza quella folle ricerca che mi aveva portato a coprire tutta quella strada, perseguendo la folle idea di trovare quell’ anonimo angolo di mondo senza sapere nemmeno giustificare il perché lo facevo.
 
Negli anni ho maturato la convinzione che quando perdi qualcosa di importante ti fissi su altro di estremamente stupido, cercando di concentrare tutte le tue forze in una folle attività per non dovere pensare. Il fallimento non è ammissibile, poiché nella tua testa lo registri come un’ulteriore perdita. E questa fu esattamente la fase che attraversai io, iniziando a vagare alla ricerca di quel cantuccio, per non crollare nell’abisso della disperazione più cupa, per non dovere ammettere che una piccola parte di me era morta in quel piccolo appartamento dalle pareti colorate, senza speranza che potesse tornare in vita.
 
-Est-ce que tu t'es défoncée? (1)
 
Una voce giungeva alle mie orecchie, da qualche parte sopra di me. Ero così indebolita che non riuscivo nemmeno a udire distintamente quello che mi diceva. La testa mi girava vorticosamente e il senso di nausea in aumento mi inchiodava a terra, priva della voglia di prestare attenzione a quell’intruso che mi riportava a una dimensione della quale non avevo più percezione.

-Ecoute-moi! Est-ce que tu t'es défoncée? (2)
 
Feci un debole segno con la testa forse troppo impercettibile per essere colto, sperando di avere compreso quello che l'uomo mi chiedeva.

-Tu peut pas rester ici. J'appelle la police. (3)
 
Mi strinsi ancora di più incapace di muovermi, incurante delle minacce, troppo debole per pensare a qualcosa. Anche se avessi voluto, non sarei mai riuscita a muovere un muscolo per assecondare il suo sollecito.
 
All’improvviso una mano mi agguantò: l’uomo doveva avere capito che non costituivo un pericolo, così piccola, esangue e debole e prese a scuotermi per farmi alzare. Per istinto mi strinsi le braccia attorno al petto e afferrai la mia Nikon, proteggendo un po’ quella un po’ la pancia, come per preservarle intatte da quell’attacco inaspettato, mentre gli strattoni si facevano più violenti.
 
Ricominciai a frignare come una bambina. Lo avrei desiderato davvero, ma non potevo alzarmi, non sentivo più le gambe e il mio corpo non rispondeva ai comandi del cervello. Cominciai ad avvertire un senso di panico: se gli scossoni fossero sfociati in qualcosa di più pesante non avrei avuto speranze.
Poi, d’improvviso, una seconda voce, delicata, femminile si sovrappose ai richiami adirati del sopravvenuto

-Laisse-la. Elle est avec moi. (4)
 
L’uomo sembrò ignorarla, continuando ad accanirsi sul mio corpo in balia delle sue mani. Capivo che non voleva farmi male, desiderava solo che mi allontanassi, tuttavia non potevo fare a meno di esserne spaventata al punto da non riuscire a muovere un muscolo, mantenendomi come pietrificata in quella posizione fetale che mi permetteva di proteggere i miei piccoli tesori.

-Laisse cette fille je t'ai dit! (5)
 
A quell’urlo acuto e fermo l’uomo, con un ultimo, secco strattone, mi lasciò e io crollai a terra inerme. Non mi ero mai sentita peggio in vita mia. Mi voltai, annaspando con il fiato rotto e iniziai a vomitare a più riprese. Cosa non lo seppi mai, dal momento che non mangiavo nulla da ormai due giorni, ma i conati mi spezzavano e mi scuotevano minacciando di farmi perdere l’equilibrio anche dalla sicura posizione a carponi nella quale mi trovavo.
Avvertii distintamente una mano piccola e gelata che mi si posava sulla fronte mentre l’altra mi spostava delicatamente il ciuffo di capelli madidi che mi era scivolato sulla fronte. Chiusi gli occhi, avvertendo il mondo farsi buio intorno a me. Li strizzai più volte, ma non cambiò nulla.
 
L’unica cosa che desideravo era abbandonarmi a terra e stare lì per sempre, ma quelle mani, delicate e forti al contempo, mi sorreggevano, impedendomi di crollare. Poi, nell’istante in cui sentii le ultime forze svanire definitivamente, quella voce parlò di nuovo, con tono protettivo, materno, mentre una ciocca di capelli talmente biondi da sembrare bianchi, invadeva il mio ristretto e offuscato campo visivo.
 
-Forza Cléo, ti porto a casa.
 
Poi, tutto fu buio intorno a me.

 

 

 

 

Note al testo


 

(1) Ti sei fatta?

(2) Ascoltami, ti sei fatta?

(3) Non puoi restare qui, chiamo la polizia.

(4) Lasciala. Lei é con me.

(5) Lascia la ragazza, ti ho detto!

 

 

Note e sproloqui


Sapevo che prima o poi sarebbe successo. Ho cominciato un'altra storia, me tapina. A chi mi segue già leggendo Never let me go, sappiate che questa é una storia molto diversa, ma che mi sta estremamente a cuore. é nata dopo una serie di letture soprendenti (e deprimenti :D  ) che mi hanno portato a buttare giù la bozza di una trama molto doversa da quello a cui sono abituata. A chi invece mi segue per la prima volta, spero che questo nuovo esperimento possa convincervi delle mie -scarse- capacità scrittorie. 

Come avrete capito in questo capitolo la storia si svolge a Parigi, una città a me molto cara, poiché vi ho trascorso lunghi periodi che mi hanno formata e mi hanno sicuramente reso la persona che sono oggi. In realtà l'intera vicenda si svolgerà in Inghilterra, fra il sud e Londra, altri luoghi che considero un pochino casa, sempre grazie all'immensa fortuna che ho avuto di trascorrervi periodi più o meno lunghi.

Dunque, chi approda qui sappia che l'intera vicenda trasuda il motto "God save the queen" per ambientazione, caratterizzazione dei personaggi ma, soprattutto musica, senza la quale questi capitoli non esisterebbero senz'ombra di dubbio. Vi lascerò via via i link, per farvi entrare nel clima nel quale ho scritto ed ideato le vicende: ogni episodio, a partire dal titolo stesso, prende spunto dalle parole di una canzone quindi, se vorrete ascoltarla, sappiate che, in ogni nota, troverete me e i miei personaggi. Prima o poi creerò anche una playlist su TuTubo penso, non adesso che é l'una di notte e ho un po' sonno XD.

 

Per ora sappiate che la canzone (di cui trovate un estratto anche nel banner) da cui la storia prende il titolo é "I know you care", l'ultimo singolo di Ellie Goulding, nonché colonna sonora del film "Now is good".

L'altra canzone citata nel banner invece é del prestavolto del protagonista stesso, Roo Panes, e si intitola "Indigo home"; amatelo, ma non troppo che é tutto mio. Scherzo, ovviamente. Già che ci siamo, vi svelo anche il nome di Cléo, anche lei cantante, Marika Hackman, autrice di un pezzo che adoro "You come down".Mi é stato detto che é esattamente come ci si immaginava la protagonista, quindi sono molto fiera della mia scelta.

 


Veniamo infine ai ringraziamenti: a ElleSinclaire, innanzi tutto, che ha betato il capitolo, a Gypsy_Rose, che lo ha letto quando ancora la storia portava il titolo "Nonsocosasia" e alla SidRevo, che ha passato un pomeriggio a selezionare accuratamente molto pezzi (oddio, un pomeriggio é riduttivo, visto che passiamo le nostre giornate ad ascoltare musica e a parlarne), e a tutte voi che siete approdate qui, su questa mia nuova storia. La dedico a voi, nella speranza possa trasmettervi tutte le emozioni che suscita in me lo scriverla.

 

Come sempre, mi trovate qui, nel mio piccolo angolino di delirio (cliccate su qui che non so perché non mi segna il link). Se vorrete entrare sarò più che felice di accogliervi (ma non assicuro ne usciate sani!)

 

Un abbraccio

 

Lyra

   
 
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