Milkshake
Sono nata in un’epoca dannatamente sbagliata in cui quello
che vedo è solo frutto di una mentalità corrotta da passioni sfuggenti che
premono, con i loro lunghi artigli, e lacerano la carne riducendola a
brandelli. Pezzi di me vagano in giro per il mondo, seguendo i passi cadenzati
di un tizio qualunque che cammina solitario lungo una strada dritta e con la
vista appannata dal caldo e con le suole consumate che lasciano impronte di
gomma sull’asfalto fumante. Una canzone risuona nell’aria, segue i suoi passi,
li conta, li divora, afferra il lembo dei pantaloni e si arrampica per la
schiena. Nelle orecchie le parole si mischiano, i timpani gemono mentre i
polmoni di quel fottuto cervello vengono avvelenati da note potenti, respirando
i fumi di speranze vane rincorse da impronte di gomma.
Vi guardo camminare, vi ascolto parlare ma l’immagine di
quell’uomo che cammina da solo lungo quella linea bianca che divide l’andata
dal ritorno, mi attrae e mi distrae. Ho davanti i vostri occhi, i vostri mille
occhi che cercano e cercano senza mai trovare, ma ciò che vedo è un paio di
occhi senza volto che osservano il catrame sciogliersi fra le dita e mischiarsi
al fumo dell’asfalto.
Impazzirà lo sento, come voi impazzirete a fine serata,
dietro quelle note senza ritmo, quelle note senza cuore che non si arrampicano
ma strisciano, e voi le raccogliete e ve le portate alla labbra e ne bevete
come si beve da una fontana. Ma cazzo, la musica non si beve, la musica ti
entra nei polmoni e ti affoga, ti toglie il respiro, ti spezza la schiena e ti fa
cadere a terra riducendoti a uno stupido bipede che striscia ai piedi di un
bancone, con il bicchiere pieno di lacrime e un sorriso da idiota stampato sul
viso. E’ quella la musica, ha la faccia nera e i denti bianchi, assomiglia a
quello stregatto che mi faceva paura da
piccola, quando me lo ritrovavo tra le pagine di un libro dove prima non c’era.
Ha tra le mani qualcosa che luccica, qualcosa che parla e che ti prende e che
ti porta al centro di una pista dove ci sei solo tu con il tuo stupido sorriso
sulle labbra e imprechi, imprechi senza senso mentre i tuoi piedi si muovono
frenetici consumando il legno di quel bar in cima a una salita, nel fottuto
niente. Solo tu e la musica, solo tu e le centinaia di persone che ti camminano
intorno. Solo quel pezzo di te che segue ancora le impronte di gomma.
E poi ci sono quei rapporti distruttivi che ti riducono a
uno straccio sotto l’insegna di quello stesso bar, su una salita, nel fottuto
niente. Ti consumano con le loro tante parole che suonano, con le pacche sulle
spalle e lo stesso tuo sorriso stampato sulla faccia. Una faccia sconvolta
dalla vita, una vita di strada, una vita di lunghe passeggiate a consumare le
suole di un paio di scarpe che, alla fine lo sai, appenderai al muro, con tanto
di cartello, data, firma e controfirma. Non come voi, c’è qualcosa che non capisco, ed è profonda. Non
sapete dire addio, non sapete muovere un passo, afferrare le vostre dannate
responsabilità e girare le spalle alla certezza accogliendo l’incertezza, non
sapete dire vaffanculo. Quel vaffanculo che non si aspetta delle scuse di
ritorno.
Sono nata in un’epoca in cui le persone non sanno vivere, si
affannano a sopravvivere rincorrendo sogni come fossero caramelle gettate da un
carro di carnevale, maschere nascoste da maschere. Siamo tanti promettenti vaffanculo
nascosti dietro tanti e poco promettenti “si figuri”. Eppure ce l’avete stretta
in mano, la vostra vita, la sgretolate ogni giorno respirando l’aria sbagliata,
chiudendo la finestra di camera vostra per paura che entri qualcuno, l’unica
cose che tenete fuori è la possibilità di vedere il mondo. Però viaggiate,
eccome se viaggiate, chiudete la finestra di camera vostra e mettete tante
belle tende, quelle con i girasoli o con le farfalle, carine, ma poi viaggiate.
Ma vedete che siete un controsenso, vedete che c’è una cazzo di frenesia a
vivere una vita sbagliata?
Seguite quelle impronte, diamine fatelo! Le vedete mettere
un passo dietro l’altro? Le ho viste tornare indietro solo una volta, a
svuotare la vescica. Eppure inciampano, cadono e rotolano. Vanno avanti, come
se non avessero casa, come se nonostante si siano consumati anche i calzini,
bianchi di quelli fino al ginocchio arrotolati sulle caviglie, l’unica cosa che
conta sia..andare avanti. Provarci almeno. Senza correre, arrancando anche a
volte, ma avanti. Sempre e solo avanti.
Sono nata in un’epoca in cui andare avanti significa solo
andare indietro e non dico guardare al passato con una smorfia malinconica, no
io dico tornare a ciucciare dal seno della mamma cercando negli altri ciò che
dovremmo cercare in noi stessi. E non vogliamo nemmeno il latte intero, siamo
di quelli che bevono il latte parzialmente scremato, perché abbiam paura di
vomitare anche l’anima, di non digerirlo. Eppure a volte sono dell’idea che
vomitare faccia bene, svuotare le viscere di bile accumulata e che preme nella
gola, come un nodo da sciogliere, come un ostacolo da saltare, da scaraventare,
da calpestare.
Vivo in un’epoca in cui il voi non esiste se non per
accusare, non diventa mai noi, si ferma ad un me arrancato e di cui non siamo
nemmeno certi. Lo specchio vi sputa in faccia un riflesso carino ma che non vi
aspettate, non vi conoscete e ne siete consapevoli e prendete questa cosa come
scusa: “devo conoscere me stesso, devo
ritrovarmi”, e poi vi ritrovate sempre
allo stesso posto, a bere latte parzialmente scremato quando dovreste rimettere
quel riflesso sbagliato, passarvi una mano in faccia, magari anche un po’
d’acqua gelida che vi risveglia i pensieri, e ridisegnarvi. Come eravate, come
vi volete, come non siete mai stati, chissenefrega, fate qualcosa io voglio
quella dannata mappa di voi stessi. Nome, cognome e vaffanculo.
Sono nata in un’epoca sbagliata e voi non siete fatti
nemmeno per vivere un presente, ma non siete nemmeno un futuro, lo bruciate, e
non come fuochi d’artificio che spaccano il cielo a metà, bruciate come carta,
riscaldate per un po’ e poi sparite, nel nulla, portandovi un nome nella tomba
a raccontare la vostra storia meravigliosa alle orecchie di un povero diavolo
stanco di ascoltare sempre le stesse cose; è per questo che il paradiso è così
affollato, ma si stancherà anche lui, lassù, solo perché ha più pazienza non
significa che debba ascoltare voi, o me. Quell’uomo, continua a camminare da
solo lungo la strada, con il pollice teso verso l’alto e uno zaino in spalla
vuoto, completamente vuoto. E’ la testa che pesa, quella testa che sporge dalla
finestra aperta della propria camera, ci manca poco che non cada, con quegli
occhi pieni d’immagini, pieni di voi e noi, consapevoli di un “me” e con le
scarpe di gomma appesa al chiodo, sopra il letto, sotto il cuscino bianco e il
lenzuolo azzurro. E gli occhi si chiudono, le tende nel cestino, un barile di
latte intero sotto il letto, la musica che gratta dietro la schiena e un nome,
un cognome e… .