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Autore: CantervilleGhost    12/10/2012    0 recensioni
"Ma io sto zitto e mi fisso le bende. Continuo a non dire niente, perché so che se cominciassi a parlare questo fiume in piena strariperebbe e inonderebbe le mie guance e tu mi guarderesti con pietà e sarebbe umiliante e io ne morirei.
Così sto zitto e mi fisso le bende."
Genere: Slice of life, Song-fic, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Lyrics by Escape from Muse.

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To escape your meaningless and your insignificance

 

Guardava la strada scorrere. Dietro il guard-rail era tutto un susseguirsi di alberi e arbusti dalla forma non bene identificabile. Guardava la strada scorrere, ma ciò che vedeva in realtà era un susseguirsi di errori e rimpianti, alcolici e tranquillanti: la ricetta dell'ultimo dolce di un disperato che ha perso la voglia - il motivo, il bisogno - di vivere.
Si sentiva vuota. Persa. Una parola in mezzo a tante, tutte strette in un vocabolario immenso. Una parola che si è appena resa conto di non significare ciò che credeva, di non significare nulla. Di essere un semplice segno. Un insignificante sbaffo d'inchiostro incastrato tra i paroloni.
E avrebbe fatto qualsiasi cosa, provato qualsiasi cosa per fuggire da quella mancanza di senso - significato - rilevanza. Anche assaggiare quella torta fatale.
Poi, si ricordò di avere stretta tra le braccia la sua vita. L'unica vita che valeva la pena di essere vissuta, l'unica vita per la quale valeva la pena di sopravvivere. Si strinse ancora di più addosso quel fagotto addormentato. Cullata dai sobbalzi del veicolo e dall'allegro cianciare degli altri passeggeri, immergendo il viso tra i capelli biondi del bambino, li inzuppò di lacrime.
 

You are uncontrolable
And we are unlovable

 

Tutto si riduceva a questo: lui era una bestia -incontrollabile, immeritevole di perdono o pietà ; io e mia madre, semplicemente, non eravamo degni. Del suo rispetto, del suo affetto, del suo amore. L'avevamo elemosinato a lungo, col capo chino, le mani a coppa, le ginocchia piegate. Ma lui aveva sputato sul nostro capo, dato un calcio alle nostre mani, messo chiodi sotto le nostre ginocchia.
E aveva continuato per la sua strada.
Una strada parallela alla nostra. Andavamo nella stessa direzione, ma non ci saremmo mai - mai! - incontrati.
 

And I don't want you to think that I care
I never would
I never could
Again

 

L'aveva umiliata. L'aveva usata. L'aveva data per scontata. Questo era quello che l'aveva più ferita.
L'aveva scambiata per un televisore che ti aspetta rispettoso fin quando torni dal lavoro; che ti fa compagnia mentre ti allunghi sul divano, mentre ti bevi una birra di troppo; che se si mette a fare le bizze basta un colpo ben assestato. Con le mani, con i piedi - che importa? - basta che sia bello forte e ben piazzato. E si aggiusta tutto.
Dannazione, non sono un televisore! Non osare trattarmi come un televisore!
Ma per quanto tu colpissi, il televisore non ha smesso di fare le bizze.
E lo sa che sei già pentito, che il tuo cervello macera nel senso di colpa, che i l tuo cuore avvizzisce. Lo sa, perché c'è stato un tempo in cui vi eravate amati.
Ma non m'importa più. Non m'importi più. Non potrei. Non vorrei. Non di nuovo.

 

Why can't you just love her?
Why be such a monster?
You bully from a distance
Your brain need some assistance

 

Sei seduto davanti a me. In viso un sorriso tirato, appiccicato con lo sputo. Mi chiedi di parlare, vuoi sapere come mi sento. Cerchi un dialogo.
"E' troppo tardi!" vorrei urlare. Avevo bisogno PRIMA del dialogo! PRIMA! Quando la sentivo singhiozzare - di nostalgia? di dolore?- PRIMA avrei voluto sapere perché tu non fossi lì  ad abbracciarla, a consolarla. Perché non eri con lei - con noi - a rassicurarci e a dirci che andava tutto bene. Perché hai lasciato che andasse via - che andassimo via. Perché piangeva tra i miei capelli. Perché l'hai fatta morire? Perché hai ucciso il suo cuore? Perché non potevi semplicemente amarla? Perché essere un mostro del genere?
PRIMA mi sarebbe servito il dialogo. Ma il prima è già passato.
Vorrei urlarti di guardarla. Guardala! Non vedi? Di lei rimane poco: poco più di un caso clinico, poco meno di un essere umano. La vedi questa rosa rinsecchita? Che appassisce sotto il tuo sguardo? E' così da dieci anni. Non ti rendi conto del potere che hai ancora su di lei? Di come continui a tiranneggiarla, di come l'hai tiranneggiata tutto il tempo? Anche dopo che siamo andati via, tu sei sempre stato tra noi. Un ombra opprimente, una gramigna caparbia. La rosa non ha potuto appoggiarsi al suo pergolato. E la rosa è appassita. E il pergolato è diventato fradicio.
Niente esce dalla mia bocca, ma i miei occhi gridano.
Tu mi guardi, ma non lo vedi. Ti fermi al mio mutismo, alle ferite sui polsi nascoste dalle bende.
Sospiri e ti passi una mano tra i capelli. E' un tic che ho anch'io. Mi odio per questo. Dici che forse ho bisogno di parlare con qualcuno più bravo, con uno specialista.
Avrei voglia di saltar su ed urlarti che non ho bisogno di niente e di nessuno. E' il tuo cervello ad aver bisogno d'aiuto! Come puoi - dopo aver fatto quello che hai fatto! - venire da me, oggi - DOPO! - e non morire fulminato dalla tua stessa ipocrisia?
Ma io sto zitto e mi fisso le bende. Continuo a non dire niente, perché so che se cominciassi a parlare questo fiume in piena strariperebbe e inonderebbe le mie guance e tu mi guarderesti con pietà e sarebbe umiliante e io ne morirei.
Così sto zitto e mi fisso le bende.

 

But I still take all the blame
'Cause you and me are both one and the same
And it's driving me mad
And it's driving me mad

 

Ti ricordi com'è successo?

Siamo nella nostra - nostra, ci credi?! - nuova casa. Le uniche cose che abbiamo con noi sono una tovaglia stesa sul nudo pavimento e la compagnia dell'eco che ci rincorre per le stanze vuote.

Una sera come le altre, a casa. Tu sulla poltrona, io a farti da guardia sull'uscio della cucina.

E' appena piovuto.

Per evitare che mi bagnassi e che mi venisse chissà quale malanno, hai mollato prima il lavoro e mi sei venuto a prendere. Stai in piedi in mezzo al salone con un sorriso che ti va da un orecchio all'altro, mentre sgoccioli sul pavimento. Hai i capelli bagnati e la tuta da lavoro appiccicata al petto. Non ho mai visto niente di più bello.

Sei appena tornato.Quando ti ho visto entrare - i capelli bagnati, la tuta appiccicata al petto - ho visto materializzarsi il ricordo di un passato prossimo troppo, troppo remoto. Con un grugnito ti togli gli indumenti zuppi e li butti da una parte. Poi ti accasci sul divano. Ti prendi la testa tra le mani, cercando di riordinare il cervello già sbronzo. Accendi la tv e ti lasci inebetire dai due commentatori. Non mi saluti nemmeno.

Ti giri verso di me.

Il tuo sorriso diventa furbetto e un po’ imbarazzato: «Ho una sorpresa per te».

«Portami da bere» berci.

«Una sorpresa?!» Mi illumino tutta. Amo le sorprese.

«Cos'è, ti sei ricordato che esisto? Avresti potuto anche salutarmi. E comunque, non te la porto la tua dannata birra! Guardati, sei ubriaco fradicio!» esclamo in risposta. Poi sussurro: «Che schifo».

E' un attimo.

Le tue braccia mi avvolgono, mi schiocchi un bacio sulle labbra e mi fai un sorriso, un sorriso bellissimo.

Non mi accorgo del movimento - semplicemente, non me lo sarei mai aspettata. La tua mano schiocca sul mio viso. Ti guardo, ti fisso, ma non vedo nulla. Solo le mie lacrime sorprese.

Arrossisco. Mi stringi un po’ più stretta. «Sposami», ed è un sussurro fatto di dolcezze e promesse sincere. Un brivido per il mio corpo, una coccola per il mio cuore.

«Non rispondermi a quel modo!» ringhi. Sì, proprio come una bestia. «Non. Osare. Farlo. Più.» ed ogni parola è una spinta, uno schiocco, uno strattone. Ed io sto lì, a guardare te che fai danzare il mio corpo di una danza macabra e grottesca. «Lasciami in pace» è un sussurro fatto di ubriachezza e rabbia. «E portami quella fottuta birra!»
 

«Sì»

Com'è successo?
Noi che eravamo uno, la stessa anima per caso perdutasi in due corpi diversi. Dove sono quei due giovani che ballavano seguendo l'eco dei propri passi in una casa vuota e appena comprata? Dove? E chi sono questi sconosciuti che ballano in questo salotto di mobili sgualciti una danza di dolore?
Mi sta facendo impazzire.
Se solo avessi fatto quello che mi dicevi senza lamentarmi. Se solo ti avessi amato di più. Se solo non avessi ignorato quel terzo paio di occhietti che ti guardava guidare la nostra danza macabra. Se solo avessi trovato la forza di affrontarti. Se solo avessi trovato la forza di essere il tuo appoggio, di non lasciarti solo. Se solo fossi stata meno egoista.
Me ne prendo tutta la colpa.
E mi sta facendo impazzire.

 
 I’ll take back all the things that I said
I didn’t realise I was talking to the
living dead
 

Aveva l’impressione di parlare con un muro. Un muro di piombo. Come se lì, dove si era rinchiuso quell’estraneo che una volta era stato suo figlio, non ci fosse spazio per le parole, il perdono o qualsiasi altro sentimento che non fosse indegnità, dolore e rabbia. Guardare quel giovane biondo era come guardare su un muro scalcinato le diapositive di un sogno  che si era infranto, spinto dalla risacca degli eventi,  contro un cuore troppo – troppo! – giovane. Guardava quel ragazzo, gli parlava, ma in effetti si sentiva come un pessimo comico immerso nel tremendo silenzio di una platea che non riusciva (poteva? voleva?) ad apprezzare il suo monologo. Guardava quell’uomo che si nascondeva nel dolore e nelle ferite fasciate, che non riusciva più a trovare felicità in quello che lo circondava, in quello che aveva, in quello che poteva permettersi: i raggi del sole sul copriletto stampato, un padre pentito che chiede perdono, la sua  stessa vita.
Aveva avuto intenzione di prenderlo per sfinimento, ma era lui stesso ad essere sfinito, ora. Il sorriso di circostanza che gli barcollava in viso avrebbe ceduto da un momento all’altro.
Ed era arrabbiato. Aveva voglia di riprendersi tutte le parole, tutti gli inviti e l’amore sott’inteso a quel triste monologo da pagliaccio.
Ed era triste: Come aveva potuto il gioioso bambino biondo che aveva tanto amato essersi trasformato in un uomo morto? Un uomo che camminava, respirava – ma che era morto dentro? Come non si era accorto che negli ultimi anni non aveva parlato al maggiore dei suoi figli, ma alla morte vivente?
E aveva pianto. Per tutto il tempo. Le lacrime avevano seguito sentieri scavati sul suo viso dal rimorso e gli erano rotolate lungo le guance, gli avevano bagnato il colletto. Lacrime di coccodrillo – ne era consapevole – ma pur sempre lacrime sincere.
Il giovane straniero, comunque, non diede segno di accorgersene. Il suo viso rimase inespressivo, lo sguardo fisso sulle bende come se sperasse di riuscire a forarle e a ferirsi di nuovo con la sola forza di volontà, i pugni che si aprivano e chiudevano spasmodicamente, come se non vedessero l’ora di strozzare qualcuno. Non disse nulla per tutto il tempo. Non disse nulla nemmeno quando il più anziano uscì dalla stanza portandosi dietro una nube di parole inutili. Rimase zitto a fissarsi le bende.
 

But i don’t want you too think that I care
I never could,
I never would
Again
 

Ti vedo. Fisso questo cielo blu, di un blu asfissiante, ma è te che vedo. Ti vedo camminare lungo il vialetto di casa nostra – mia e di mia madre. Il prato che lo circonda è fatto di sterpaglie e la ghiaia è tanto rada che camminandoci sopra il cuoio delle tue scarpe costose si sporca di terra. Ma tu non te ne curi. Hai le spalle ingobbite, le mani ficcate a fondo nelle tasche del tuo completo cachi. Sposti nervoso la sigaretta da un angolo all’altro delle labbra con rapidi movimenti della bocca. Sembri pensieroso e triste. Mi riscalda il pensiero che sono stato io a causarti questi sentimenti, che forse qualcosa di me te ne importa davvero.
Una donna ti raggiunge portandoti il soprabito. Vorrei ignorarla, ma è così vistosa che non riesco ad escluderla dal mio campo visivo. I capelli fulvi le scendono ad onde sulle spalle, coperte da uno spolverino verde chiaro. Quasi riesco a sentire i suoi passi ticchettare sul vialetto.
Mamma ha sempre portato i capelli opachi con un taglio corto e pragmatico. Ti ricordi? Mamma non ha mai avuto un cappottino così fine, perché i soldi non bastavano e lei non li avrebbe mai buttati via per qualcosa di così frivolo. Ti ricordi?
Non puoi. Perché anche se eri con noi, se respiravi la nostra stessa aria, non ci sei mai stato davvero.
La donna ti posa sulle spalle la giacca e ti accarezza i capelli. Ti vedo sospirare e le tue spalle si rilassano. Una carezza e le mie speranze sono portate via dal tuo sospiro. Abbassi lo sguardo. Attaccato al soprabito della madre, come se da quello dipendesse la sua sopravvivenza, c’è un bambino. Gli sorridi. Ora le tue labbra nervose si stendono in un sorriso dolce. Un vero sorriso da papà.
Mamma non ha mai avuto un soprabito verde chiaro a cui potessi stringermi come se da quello dipendesse la mia sopravvivenza. Le tue labbra non si sono mai stese in un sorriso da papà per me. E io non ho avuto nulla a cui aggrapparmi. Non un cenno, un indizio, una parola che mi desse una speranza, che mi facesse sopravvivere. E io non ho nessuna speranza. E io non sopravvivo. Non avrebbe senso comunque.
Passi un braccio attorno alle spalle della tua nuova moglie. La moglie che non hai usato, che non hai picchiato, che hai amato per quella che è e non per quello che volevi farla diventare, che merita il tuo rispetto.
Prendi per mano il tuo nuovo figlio. Il figlio che ti adora, che ti ubbidisce, che pende dalle tue labbra qualsiasi cazzata tu dica, che ti somiglia, che merita il tuo amore.
Poi ti accorgi di me, che vi fisso da dentro questa baracca malandata che è casa mia, che è il mio corpo, che è la mia anima. Mi sento un guardone a spiare questa felice famiglia di estranei e mi vergogno del fatto che tu mi abbia colto a sbirciare nella tua vita perfetta. Mi guardi e i tuoi occhi sono malinconici, pieni di scuse e forse anche vergognosi. Ma non voglio che tu pensi che me ne interessi davvero qualcosa. Non lo sopporterei. Non potrei. Non vorrei. Non di nuovo.
Ho guardato la tua Mercedes portare te e la tua famiglia verso la tua nuova vita. E poi, finalmente, mi sono concesso di esplodere.
Sono esploso in mille minuscoli pezzi che si sono sparsi per tutto il salotto. Il mio corpo è rimasto intatto, ma dentro non mi è rimasto nulla. Ed ho cominciato a correre.
Non si è mosso questo corpo vuoto, ma io ho corso, ho corso una corsa disperata, di lacrime e resa. Ho corso una corsa che mi ha portato qui, oggi, sull’orlo di questo precipizio.
Il cielo è terso e l’aria è calda. E’ una bella giornata. Non c’è un filo di vento nemmeno quassù.
Mi sento così vivo. Vivo, finalmente! Sento, sento tutto. Sento il rumore della strada sotto di me. Sento il parapetto sottile sotto la suola delle mie scarpe da due soldi. Sento il sole baciarmi il viso.
Il cielo è terso e l’aria è calda. E’ una bella giornata per essere liberi.
Faccio un passo avanti, oltre. Oltre il parapetto. Verso il vuoto. Verso la serenità. Verso la libertà. Verso la fine.
E mi sento così vivo.
 

You would say anything
You would try anything
To escape your meaningless
Your insignificance.
 

   
 
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