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Autore: DreamsHolder    12/10/2012    0 recensioni
[Last Days]
Il racconto del film "Last Days", regia di Gus Van Sant, ispirato alla morte del cantante e chitarrista dei Nirvana, Kurt Cobain, avvenuta alla sola età di ventisette anni, il 5 Aprile del 1994 a Seattle. La pellicola non ha una trama vera e propria, bensì gira intorno al protagonista, Blake, confuso e tormentato, così come si immagina lo sia stata la grande rockstar americana negli ultimi giorni della sua vita. I capitoli contengono parti di canzoni e interviste dei Nirvana e sono frutto di un'elaborazione personale del film. Alcune scene, giacché vissute solo dagli altri personaggi, sono state tagliate o appena accennate.
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1. Something in the way
2. Smells like teen spirit
Genere: Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Underneath the bridge
the tarp has sprung a leak
and the animals I've trapped
have all become my pets
and I'm living off of grass
and the drippings from the ceiling.
It's okay to eat fish
'cause they don't have any feelings.
Something in the way…
 
Nirvana, 'Something in the way'.

 
 

Quell'alba sapeva già di giorno nuovo, e al contempo tratteneva le macchie di sporco del vecchio. Tanto, tanto sporco. Una guerra di sporco. Una strada come tutte le altre nel bosco, perché il bosco ha mille strade, ed egli le vede tutte uguali. Tanto portano sempre lì, allo stesso fiume. Affonda i piedi nella sterpaglia, ferendola con quel passo sicuro. Il corpo ondeggia ribelle, a destra e a sinistra, le gambe larghe, così le braccia, sicché evidenziano l’andatura virile di quel passo, sicuro. Ma poi si ferma. Si china. Un tremito allo stomaco, poi all'esofago. Vomita. Ha alzato un po’ il gomito. Si rimette a camminare, come se nulla fosse. Che cazzo avranno da cinguettare così gli uccelli? E percepito solo questo pensiero percorrere il suo corpo come una scossa elettrica, fino ad arrivargli in testa, come il veleno rimasto in circolo per chissà quanto tempo espulso pochi secondi prima dalla bocca, gli uccelli smettono di cinguettare. Wow. Che fico. Borbotta, borbotta ancora tra sé, parole confuse che egli stesso non comprende. È ancora l’alcol a parlare, eh? Ma è stata lei, ma lui in fondo che colpa ha? Si sente veramente piccolo, ora che non ha più quella roba dentro. Un piccolo uomo.
Scende giù per una ripida china, saltellando e incespicando inebriato dal ronzio del fiume che scorre inarrestabile come la più potente tra le forze della natura, pertanto vuole far presto a raggiungerlo. Si accoscia ad una spanna dall’acqua; la prende tra le mani, strappandola a quel corso perpetuo e imperturbabile. Beve, si lava la faccia. Che bella, la sensazione di pulito sul viso. Pulito. Come vorrebbe sentirsi totalmente pulito. E allora si toglie la t-shirt bianca e la appende ad un ramo, si toglie i pantaloni rossi; fa qualche passo nell’acqua. Dio, e quanto cazzo è fredda!... Ma poi la guarda e se ne sente attratto, come risucchiato. Si tuffa. Lo ricopre tutto, e lui che se ne va controcorrente la sente sbattergli di lato, come intenzionata a spingerlo via. Non resiste. Riemerge e continua camminando. I piedi sono due zavorre che non riesce a controllare. Si volta a guardare il fiume, ancora turbato nel profondo, una volta arrivato sull’altra sponda. È così turbato che non vede il masso che gli sta davanti e rischia di inciampare. Lo guarda ancora. E ancora. E si siede su un cumulo di massi per guardarlo ancora. Perlomeno ora sì, si sente veramente pulito, purificato. O quasi. Ma sente un… Non sa cosa… Ha ancora un certo qualcosa dentro, un residuo di veleno. Gli pizzica un po’. Si alza, abbassa leggermente i boxer scuri e piscia. Piscia nel fiume che non è riuscito a sconfiggere, come su tutte le altre cose che non è riuscito a sconfiggere. Ma tanto la vita è così breve; si agisce di istinto, come quando si scrivono i testi e si indovinano gli accordi della chitarra. La vita è un pezzo. Che sia di merda, poco importa. Tanto vale la pena viverla, no?

Il mondo è una cupola nera, e lui è l’unico abitante di quella boccetta di vetro, come quelle con i pupazzi di neve all’interno che si vedono a Natale. Se le agiti un po’ la neve sballotta qua e là, per poi depositarsi nuovamente sul fondo, con dolcezza. Le scintille che zampillano dal fuoco gli danno la medesima impressione. Lo ha acceso lì, in mezzo al bosco, e di tanto in tanto lo alimenta con della legna secca, come gustando ogni singolo centimetro guadagnato, pregustando la crescita di quella creatura direttamente proporzionale all’avanzamento imperturbabile delle fiamme. Imperturbabile, come lo scorrere del fiume. Perpetuo. Se aggiungessi della legna all’infinito, pensò, il fuoco crescerà all’infinito; brucerebbe tutto il bosco. Scacciò via quel pensiero. Si toglie una scarpa, si toglie anche l’altra, entrambe vicino al gracile ramoscello conficcato al suolo che sostiene i calzini e i boxer. Non ha tolto neanche le scarpe e i calzini, quando si è lanciato nel fiume. Anche il tempo gli sembra perpetuo e imperturbabile ora, tutto è diventato tutto a un tratto distante, come il fuoco che osserva con le braccia conserte sulle ginocchia, le gambe strette al petto, e anche la traversata nel fiume ormai sembra appartenere già al passato. Il problema, ora, è curarsi del futuro. Scaccia via anche quest’altro pensiero, mille volte più spaventoso del primo. Ma che passato, ma che futuro? La vita è il presente! Il presente infinito che non fa asciugare i calzini e le scarpe. Che non fa crescere il fuoco. Forse è questo il suo problema… Egli non pensa al futuro. Il futuro è tutto un chissà, tutto un forse, o un quasi. Chissà, domani faccio questo, o forse questo, o quasi… O quasi?... E ancora scaccia un altro pensiero. I pensieri si susseguono troppo veloci, troppo difficili da tenere tutti insieme in un fascio e a delineare una linea precisa su cui farli scorrere. Vorrebbe che scorressero come gocce di rugiada che scivolano lungo un filo d’erba, come i tanti fili d’erba che lo circondano, anziché scoppiettare come le scintille, come le tante scintille luminescenti che saltano dal fuoco. Senza un ordine preciso. Senza un senso. Un boato nella notte; forse un aereo. E dove? In cielo non c’è nulla, vedo tutto nero. E canta. Canticchia. Non è più sotto l’effetto dell’alcol, eppure non capisce che cosa vuole dire. Però continua. Parole confuse. Che cazzo sto cercando di dire? Troppo complicato. Ripete solo le parole che ricorda. Un rametto, dritto, piccolo; lo raccoglie, lo spezza, se lo rigira tra le mani e lo butta via. Nel fuoco. Ci rinuncia. Scuote appena quello più lungo, ma sottile, gracile, a cui sono appesi i boxer e i calzini, come se l’avesse fatto quasi accidentalmente. Magari ha così tanti pensieri che gli frullano nella testa da aver perso completamente la concezione dei propri movimenti; perché si dice, dentro, certo, l’ho fatto accidentalmente, l’ho sfiorato pensando alla roba che non si asciuga. È ancora presente, dopotutto, domani si asciugherà. Chissà, forse, quasi. Quasi quasi abbandono tutto nel bosco e me ne vado… Sì, me ne vado via. Nel buio. Rigetta questo pensiero, e il suo corpo ancora si muove contro la sua volontà, la mano lo rifiuta con un gesto, il gesto con cui butta l’altra metà del rametto nel fuoco. Lo brucia. Ma perché dannazione questo fuoco non cresce? E poggia una mano al suolo, ci pianta su i piedi, e ci butta dentro anche altra legna secca. Si sporge tanto che i capelli biondi ondeggiano in avanti un po’ più del dovuto, ed egli li ricaccia indietro con le mani, prima a sinistra poi a destra. Le mani in faccia. Si tortura la faccia. Troppi pensieri, troppi pensieri… La mano portata al mento, guarda il cielo. Troppi pensieri, troppi pensieri…
«Ooooh!»
Un ululo lanciato all’alto ignorante di quel piccolo uomo, perso e solo, che nella palla di vetro aspetta che qualcuno la scuota. E con essa anche lui, cosicché abbiano una scossa anche i suoi pensieri; si decidessero a tacere se non vogliono darsi un ordine, o a darsi un ordine se non vogliono tacere! Un nuovo boato nel buio. Questo sembra proprio un aereo. Latrati di un cane, che sembra l’abbia scambiato proprio per un altro cane. Ulula altre parole. Là in alto forse lo avrebbero sentito. Forse non lo ignorano del tutto. Gli alieni, quelli che l’hanno abbandonato sulla terra, e sua madre l’ha trovato quand'era piccolo vicino ad una navicella spaziale, così come tante altre madri hanno trovato tanti altri bambini alieni abbandonati; e tutte le notti guardano il cielo e aspettano. Aspettano che vengano a prenderli, a riportarli a casa, o che magari gli diano indicazioni sul da farsi. C’è una missione da compiere o e tutta qui, la vita? Ha un senso, la mia vita? Forse quello che ode è il boato di un'ennesima navicella spaziale. E allora continua col suo canto, sperando che lo sentano, e che lo portino via. O che magari gli dicano che cosa deve fare.
«And you… It’s a long play…»

E un altro nuovo giorno sorge. Ma le macchie di sporco di quello che ha preceduto il vecchio restano. Solo attenuate, sì, per via di quell'abborracciato battesimo nel fiume, l'acqua che lo purifica dai peccati e li trasporta via, rapida, lungo tutto il suo corso. Resteranno all'infinito lì, perché i peccati non putrefanno come i pesci, non si consumano come le rocce: i peccati restano intatti, e in quanto tali devi solo evitare di pensarci, dimenticarli. Allunga il passo nell'erba alta, troppo alta, celante il brago che gli insudicia le scarpe. Ha perso la sua andatura virile. I pensieri della notte prima ora sembrano pesargli addosso. Improvvisamente dei binari. Un boato squarcia il silenzio. Ancora, un secondo boato. Un treno. Egli lo guarda esterrefatto… E pensa. A quel quasi che sotto sotto è la decisione più rapida e indolore che possa prendere. Alla trepidante attesa degli alieni, che sembrano essersi dimenticati per sempre di lui. In fondo sono passati ventisette anni. Accantona quella possibilità, la adagia e incornicia in un minuscolo angolo vuoto della sua mente, come fosse il feto di un'idea, e quello stesso angolo vuoto fosse destinato a crescere come un utero. Continua a camminare.

  
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