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Autore: Eleanor Hamish Rigby    13/10/2012    20 recensioni
Si dice che se nella tua vita passata la tua vita si lega strettamente a quella di un’altra le vostre anime rimarranno legate per sempre.
Si dice che l’ anima è soltanto un resto, una parte di un unico spirito che venne diviso in due e che queste metà sono destinate a cercarsi per l’eternità per ripristinare l’equilibrio e completarsi.
Ma non scegliamo noi in che corpo si troverà l’altra metà di noi stessi.
E se il destino stesse dando una possibilità a tre amori che secoli prima erano stati distrutti da una rivoluzione?
E se una nuova guerra ci si mettesse di mezzo?
E se la nostra unica ragione di vita e la causa del nostro dolore coincidessero?
Cosa faremmo se il nostro peggiore nemico si rivelasse il nostro grande amore?
Quanti ideali, quante persone si possono tradire, fin dove ci si può spingere per amore?
#Larry #Ziall #Limielle
Olocausto, Shoah.
Per non dimenticare.
Genere: Drammatico, Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Harry Styles, Liam Payne, Louis Tomlinson, Niall Horan, Zayn Malik
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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 Vorrei dedicare questo capitolo a te.
Sì, proprio a te che stai leggendo questa dedica.
Grazie, anche se non ci conosciamo.
Solamente: grazie.

    



Avviso: dato che negli altri tempi proprio non ne sapeva di venirne fuori, questo capitolo sarà al passato. Sì, lo so che faccio schifo. Probabilmente mi toccherà andare negli altri capitoli precedenti ed iniziare a scrivere al passato pure quelli.
Per ora, chiedo perdono a tutte voi e soprattutto alla testa sensibile di
eledifra.
Scusate :(

si prega di leggere l'angolo dell'autrice, è molto importante.

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Capitolo 8: E vidi i colori, vidi la vita...



POV Liam
Lasciai perdere la gitana, cercando di scacciarla dalla mia mente.
Perché s'ostinava ad invadere i miei pensieri?
Era come una mosca fastidiosa che s'ostinava ad insinuarcisi, senza dare segno di volersi allontanare.
Sbuffai e m'allontanai: avevo del lavoro da sbrigare ed avrei adempiuto ai miei doveri, prima o poi sarebbe scomparsa dai miei pensieri.
Però sentivo una parte di me che sperava, che sapeva che quegli occhi m'avrebbero accompagnato per tutta la giornata.
Gli occhi di una zingara.
Ridicolo.
Certo, bella lo era.
Ed era passato tanto tempo dall'ultima volta che avevo stretto una donna tra le mie braccia.
Circondato da uomini e da donne scheletriche, era ovvio, naturale che una bella ragazza m'avesse attratto.
Sicuramente era per questo che m'aveva colpito così tanto.
Non c'era altra spiegazione.
-Payne!
Riconobbi la voce del mio superiore e mi girai, ponendomi subito sull'attenti.
-Riposo. Payne, deve seguirmi.
Iniziò a dirigersi a passo deciso verso il cuore del campo, senza aspettarmi o dare altre spiegazioni.
Lo seguii, tacendo le mille domande che sorgevano nella mia mente.
Che stava succedendo?
Appena fuori l'aria plumbea del cielo polacco m'avvolse.
In quel luogo non esistevano calore o colore, niente.
Tutto freddo e grigio.
I prigionieri che passavano davanti alle baracche ci lanciavano occhiate, con i loro occhi grandi e vuoti sul volto scheletrico.
Erano morti, quelli, morti dentro.
Insensibili a tutto ciò che accadeva intorno a loro.
Non sembravano più nemmeno spaventati, indifferenti perfino alla morte o al dolore.
Soltanto in pochi potevo ancora scorgere dei bagliori di paura e di consapevolezza di ciò che accadeva intorno a loro.
Ebrei, zingari: in quei momenti, mentre ci fissavano imbambolati, mi rendevo conto di quanto noi ariani fossimo nettamente superiori a loro.
In lontananza scorsi due figure in uniforme.
Avvicinandomi, m'accorsi della presenza d'altri due membri: Styles ed Horan, i miei sottoposti.
Che avessero combinato dei danni?
Non era possibile, erano sempre stati ligi al dovere, leali.
Mai un lamento od un obbiezione era uscito da quelle bocche.
Ma cos'altro poteva essere successo se non un errore commesso dai miei uomini?
Posai il mio sguardo su di loro per poi rivolgermi al mio superiore.
-Signor Todesritter, comandante, non so cos' abbiano combinato i miei sottoposti, ma mi assumo tutta la respons...
Il comandante mi bloccò.
-Payne, i soldati Styles e Horan non hanno fatto nulla di grave. Il problema riguarda il vostro servo. Anzi, i vostri servi, suo, di Horan e di Styles.
In quel momento arrivarono dei soldati che buttarono per terra tre scheletri che sarebbero dovuti essere uomini.
Caddero per terra, in ginocchio, sulla neve che ricopriva il suolo.
L'uomo dinanzi a me alzò lo sguardo: il mio servo m'osservava con occhi colmi di paura.
-Sono stati sorpresi a rubare cibo nelle cucine. Da regolamento, la pena loro assegnata è la morte per fucilazione, per mano dei loro padroni.
Quindi di voi.
Harry e Niall mi guardarono.
Il mio servo puntò gli occhi su di me, implorandomi con lo sguardo.
Non l'avevo mai toccato, era stato sempre ligio e fedele.
Ed ora avrei dovuto ucciderlo.
Non potevo cambiare la situazione: questo era il mio dovere.
Mentre facevo un segno d'assenso a Niall e Harry, impugnai il fucile.
Tolsi la sicura e caricai, posizionando il dito sul grilletto mentre prendevo la mira.
Altri soldati tenevano fermi gli ebrei.
Il mio servo, inginocchiato con le mani dietro la schiena, alzò lo sguardo.
Sul suo volto era scavato, ove le ossa emergevano nette in superficie, troneggiavano i suoi grandi occhi, neri, languidi, sconvolti, pervasi dal terrore.
-S..signor Payne, padrone...
Le sue parole si persero nell'aria, nemmeno il vento poté udirle.
Gelarono nella sua bocca mentre il suo corpo morto cadeva sulla neve fredda.
Un buco gli trapassava la fronte.
I suoi occhi nero pece, vuoti e ormai privi di qualsiasi calore od emozione umana, risaltavano come pezzi di carbone sulla neve immacolata, fissando un cielo che ormai non potevano più vedere.
Un rivolo di sangue uscì dal foro, scivolando  sulla fronte per poi cadere, macchia rossa sul bianco puro della neve.  
-Bene, il problema è risolto. Styles, Horan, Payne siete congedati. Tornate a sbrigare i vostri compiti.
Ma io stavo già andando via, il corpo di quel uomo impresso nella mente.
Camminavo, camminavo, andavo avanti senza sapere io stesso dove stessi realmente andando.
Avevo percepito la vita di quel uomo abbandonare il suo corpo.
"Era solo un ebreo, Liam, solo uno stupido ebreo".
Ma per quanto continuassi a ripetermelo non riuscivo a convincermi che fosse giusto.
Gli avevo rubato la vita, gliel'avevo strappata.
Perché?
Perché aveva cercato del cibo, perché aveva fame.
Perché voleva vivere.
E proprio questo era stata la sua condanna a morte.
Era davvero lui il mostro fra noi due?
Avevo bisogno di distrarmi, di sentirmi bene.
Avevo bisogno di qualcuno, di qualcosa che mi riscaldasse, perché il mio cuore l'avevo lasciato lì, sulla gelida neve, accanto al uomo che avevo ucciso.
In quel momento mi resi conto di dove stessi andando: verso il campo femminile.
Avevo bisogno di rivederla, di rivedere lei, quella bocca, quegli occhi.
Il mio bisogno era sbagliato, lo sapevo.
Ma in quel momento, non me ne importò.

POV Danielle

M'allontanai da quel soldato, quel uomo dagli occhi penetranti che m'aveva bloccata come fossi un'essere inferiore.
Per lui lo ero, ero solo una  zingara.
Cercai di raggiungere Zayn ma  venni tirata indietro, come un animale.
Caddi a terra.
Un uomo in divisa si frappose fra me e ciò che restava della mia famiglia, del mio passato.
Aveva due occhi azzurri e freddi, senza alcun'emozione dietro, come fossero usciti da un'errore.
Era il colore che veniva fuori dai giochi di un bambino che pittura con le mani, semplicemente esisteva ma non significava niente.
Vidi le sue labbra contrarsi sotto i baffetti biondi.
-Dove credevi d'andare? Volevi il tuo amichetto, puttanella? Tu devi andare da questa parte.
Mi lasciò scorgere un'altra uscita, dove riuscii ad intravedere una fila composta da poche donne.
Donne, solo donne.
Non ci sarebbe stato Zayn, nessuno che conoscessi a proteggermi.
Ma soprattutto nessuno avrebbe protetto lui.
Cos'avrebbero fatto a mio fratello?
Era tutto ciò che rimaneva del mio clan, della mia famiglia.
Non lo potevo abbandonare.
L'avrei ritrovato, costasse quel che costasse.
E per farlo dovevo sopravvivere.
Provai ad alzarmi ma quel essere mi prese per un braccio, buttandomi verso l'uscita.
Stavo per perdere l'equilibrio ma mi sforzai con tutta me stessa di non farlo.
Non avrei dato soddisfazione a quel bastardo, poco ma sicuro.
Non m'avrebbe vista di nuovo a terra.
"Mai" pensai fra me.
Oh, no.
Non gliel'avrei permesso di prendersi gioco di me.
Io ero Danielle Peazer, la regina degli zingari di tutta la stupida cittadina dov'ero cresciuta.
Non l'avrei lasciato prevalere.
Camminai a passo deciso verso la stanza dov'erano le altre donne.
Era una stanza chiusa, dove regnava una semi-oscurità, in fondo potei scorgere una porta che doveva collegarla a un'altra stanza.
Sul soffitto v'erano posizionati lunghi tubi arrugginiti.
Sentii dei passi alle mie spalle e mi girai: un gruppo di soldati stava entrando nella stanza.
Un uomo alto fece un passo avanti, gelandoci coi suoi sguardi mentre i suoi occhi scrutavano i nostri visi.
Due occhi grigi attenti, che sembravano percepire ogni tuo movimento, registrare ogni tua mossa.
Un volto dai tratti decisi, con degli zigomi pronunciati, labbra sottili e pallide sotto dei baffetti neri.
Il volto del mostro.
Uno dei tanti volti.
L'uomo ci scrutò qualche altro secondo.
-Consegnateci tutti i vostri gioielli. Fedi comprese. Non provate a nascondere qualcosa.
I soldati s’avvicinarono.
Mi tolsi i miei grandi orecchini a cerchio d’oro, i braccialetti, gli anelli.
Tutto ciò che m’era stato donato dalla mia famiglia, dal mio clan, tutto ciò che mi rimaneva di loro.
Poi, consegnai un pezzo del mio cuore nelle mani del soldato dinanzi a me.
I soldati si ritirarono alle spalle del comandante, che tornò a scrutarci.
-Spogliatevi.- disse con voce ferma. -Poi andrete sotto le docce.
Spogliarci.
Nuda, nuda davanti a tutti quei soldati, quegli esseri che ora ci fissavano famelici.
-Veloci- intimò. 
Mentre i soldati ci seguivano con gli occhi, sentii dei singhiozzi provenire da un angolo remoto della stanza.
Una ragazzina di non più di 14 cercava d’avvicinarsi ad una donna matura dal corpo squassato dai singhiozzi.
-Mamma… mamma ti prego…- implorava, cercando di allentarle i bottoni della camicia.
La donna le diede uno schiaffo sulla mano, arretrando.
-No, no mi voglio spogliare… Non…non voglio!- singhiozzava.
-Mamma, mamma ti prego…Devi farlo, mamma.  
La donna continuava a scuotere la testa, piangendo.
S’accasciò a terra, rannicchiandosi.
-Mamma, ti prego. Ti…ti uccideranno mamma. Mamma, per favore!
In quel momento l’ufficiale comparve alle loro spalle.
-Signora, si spogli.
La donna continuava a tremare, scuotendo la testa, singhiozzando e tirando ancora più a sé le ginocchia.
-Portatela via.- ordinò l’ufficiale ai soldati alle sue spalle.
La donna alzata a forza dai soldati.
La trascinarono via mentre lei si dimenava , scalciava.
-No! No!- urlava, con tutta la voce che aveva in corpo, gli occhi che brillavano, folli, disperati.
-No, mamma! No, vi prego… Per favore, lasciatela andare! Mamma!- gridò la figlia, cercando di raggiungerla.
Dei soldati la bloccarono, mentre lei allungava il braccio, tendendosi verso la madre che veniva portata via.
Poi, udimmo uno sparo.
-Mamma!- urlò la ragazza, le lacrime che sgorgavano fitte dagli occhi e le rigavano le guance.
L’ufficiale la tirò indietro.
-Piantala, ragazzina.
Lei continuò a singhiozzare, le lacrime che cadevano una dopo l’altra.
-Smettila. O sarà il tuo turno.
Con il corpo scosso dai sussulti, la ragazzina ritornò al suo posto.
-Bene. Ora, continuate a spogliarvi.
Alcune di noi obbedirono subito al comando, le mani tremanti dalla paura.

Le seguii anch'io, con le mani che tremavano sotto il peso di quegli sguardi.
Cercai di non pensare, studiando ogni angolo di quel luogo lugubre ed i miei occhi incontrarono quelli del energumeno, il soldato che prima m'aveva sbattuto sul pavimento per poi spingermi qui, come fossi un animale che dev'essere spronato.
Mi guardava, nei suoi occhi di quel colore così vuoto sprizzava ora un  barlume di malizia, di divertimento per quel che mi stava capitando.
Lui godeva di tutto questo.
Nuda, nuda davanti a lui, scoperta ai suoi sguardi, impotente di fronte ai suoi pensieri.
No, non poteva essere.
Non sarei stata succube a lui.
Non potevo permetterglielo ma non potevo cambiare la situazione, non potevo fare nulla.
Tutto quanto stava sfuggendo al mio controllo, come acqua tra le dita, senza che io potessi fare niente per fermare la caduta.
Quel soldato mi guardava, stava giocando, giocando con me.
Un'idea mi fulminò.
"Vuoi giocare? E allora giochiamo".
Incatenai il suo sguardo al mio.
iniziai a passare la mano sul mio collo per poi farla scendere sulla  spalla, mantenendo il contatto visivo.
Poi, con un sorriso, feci scivolare la manica del mio vestito, lasciandolo cadere a terra.
Spalancò gli occhi mentre le labbra si contraevano.
Aveva davvero sperato di vedermi chinare al loro potere senza fare nulla?
Sentii un rumore, uno scroscio alle mie spalle: le docce erano state attive.
Lanciai un'ultima occhiata alle mie spalle per poi gettarmi sotto l'acqua.
Fu come se tanti piccoli spilli freddi mi trapassassero la pelle: l'acqua che scendeva dai tubi era... ghiacciata.
Oh, sì ghiacciata era veramente il termine più adatto.
Dalle aperture da cui scaturivano i getti pendevano alcuni ghiaccioli: il freddo aveva gelato le gocce, che ora pendevano su di noi, testimoni inermi di ciò che stava accadendo, cristalli bellissimi ma letali.
Vidi la ragazzina di prima piangere e tremare sotto l’acqua.
Stringeva  fra le dita capelli corti, che le dovevano essere stati appena tagliati,  tirandoli verso l’alto.
Dai suoi grandi occhi color cioccolato uscivano lacrime che si mischiavano con l’acqua della doccia.
 Mi avvicinai a lei e d’istinto le poggiai una mano sulla spalla.
Puntò i suoi occhioni verso di me: il viso dai tratti infantili era scosso dal tremito del labbro inferiore.
Danti a me rividi la mia sorellina, quando i nostri genitori vennero uccisi dai soldati.
 L’abbracciai, stringendola forte, come avevo fatto con lei.
-Sssh, andrà tutto bene. Andrà tutto bene, piccola- le sussurrai all’orecchio, accarezzandole la testolina rasata.
-C.. come può andare tutto bene? Mia…mia madre è stata appena uccisa. Mio papà è morto… Non ho nessuno. Chi si occuperà di me?- singhiozzò sulla mia spalla.
M’allontanai  per  vederle il viso.
-Piccola, io sono Danielle. Come ti chiami?
-Mi chiamo Angela… i miei sono... erano-si corresse con un singhiozzo- italiani.
-Quanti anni hai?
-Tre...tredici. Ne avrei dovuti fare quattordici tra un po’. Io e mamma dovevamo festeggiare…
Le lacrime ricominciarono a scenderle dagli occhi.
La strinsi nuovamente a me, con più forza.
-Angela, sai, mia nonna era italiana.
-D..davvero?- balbettò.
-Sì. Lo sai cosa mi diceva sempre? Che dovevo essere orgogliosa d’avere sangue italiano nelle vene. Perché le donne italiane erano coraggiose, furbe e riuscivano sempre a sopravvivere all’avversità. Ogni volta faceva impazzire tutti, perché non mi controllava ed io m’allontanavo, facendoli preoccupare. E sai cosa rispondeva quando le urlavano contro?- le dissi, con voce dolce, mentre scuoteva la testa.
-Alzava la testa, sorrideva e diceva, con la voce più tranquilla del mondo“Non vi preoccupate, ha sangue italiano. Se la caverà”. – risposi.
Angela accennò un sorriso, divertita dall’immagine della nonna.
-E anche tu te la caverai. Penserò io a te, piccola. Non ti lascerò sola.- le sussurrai, stringendola tra le mie braccia, il suo corpo che lentamente smetteva di tremare.
-Giuri che non mi lascerai? Me lo prometti Danielle?- bisbigliò, scostandosi per puntare i suoi occhi sui miei.
Erano così grandi, così profondi.
Era così indifesa, spaventata, sola.
-Te lo prometto, Angela. Lo giuro, giuro su tutto quello che ho che non ti abbandonerò.- dissi, per poi tornare a confortarla cullandola tra le mie braccia, mentre l’ultima lacrima cadeva sulla mia pelle, unica goccia calda contro le schegge di gelo della doccia.
“Non so con che coraggio oso prometterti ciò. Come puoi uscire illesa da tutto questo? Come potrà andare bene? Non lo so. Ma non ti abbandonerò. Non lascerò che ti facciano del male, piccola Angela. Costi quel che costi” .
Il getto smise improvvisamente di scendere.
Angela venne allontanata da uno dei soldati, per essere messa vicino alla porta: eravamo state ordinate per altezza e nemmeno me n’ero accorta.
Volse il suo sguardo spaventato alle sue spalle, per guardarmi.
Accennai un sorriso ed annuii, per rassicurarla.
Parve funzionare e lei se ne andò al suo posto.
Il soldato che aveva parlato prima si rifece avanti:
-D'ora in poi siete al mio comando. Dovrete obbedire ai miei ordini e a quelli dei miei compagni.-proclamò.
Freddo, come tutto il resto che lo circondava.
-Non voglio obbiezioni.
Il suo sguardo passò su ogni viso per poi soffermarsi sul mio.
-A chi si ribella spetterà la morte.
I suoi occhi mi trapassarono: era un avvertimento.
Mi resi conto di quello che avevo fatto: m'ero ribellata appena arrivata lì, infrangendo fin da subito le loro regole.
Avevo provocato un soldato, umiliandolo davanti agli occhi dei suoi compagni, del suo superiore.
L'avevo ferito nell'orgoglio.
E l'orgoglio era la ragione di vita, l'essenza stessa di un membro delle SS.
Il mio sguardo si spostò da quello del superiore a quello del energumeno: aveva occhi colmi d'odio, odio e rancore.
Sostenne il mio sguardo per poi farlo scendere sul mio corpo.
In quel momento passò nei suoi occhi un barlume che non stentai a riconoscere: eccitazione.
Quando la sua attenzione venne richiamata dal comandante, mi guardai.
Rabbrividii, ricordandomi d'un particolare: ero nuda.
Avevo eccitato un membro delle SS.
L'avevo ferito nel orgoglio, umiliandolo davanti al suo superiore e ai suoi compagni.
E l'orgoglio era la base di vita, l'essenza stessa di un SS.
Avevo eccitato, umiliato e provocato un soldato.
In un posto dove non potevo vantare diritti o la protezione del mio clan.
Per  la prima volta in tutti quegli anni, mi sentii sola.
Sola, impotente.
Inerme davanti a ciò che stava succedendo.
Tutto quanto sembrò scomparire.
Non udii nemmeno il soldato ordinarci di passare all'altra stanza, percepii solo il moto delle persone intorno a me e lo seguii.
Quando arrivammo davanti alla stanza, i miei sensi si risvegliarono.
Era grande, abbastanza da contenere gruppi di centinaia e centinaia di persone.
Pezzi d'intonaco cospargevano il pavimento incrostato, percorso da lunghe panche di legno marcio.
"Scappa"
Il mio istinto si risvegliò alla vista di quel luogo e mi urlò, mi supplicò di fuggire.
Ma dove volevo andare?
Dove sarei potuta scappare?
Non avevo vie di fuga, era come se dietro di me fossero state posizionate delle mine.
Tutto ciò che era stato, tutto il mio passato era stato spazzato via.
Ed ora non mi restava che un'unica direzione, un unica possibilità: andare avanti.
Così varcai la soglia, gettandomi nel futuro oscuro.
Appena varcata la soglia che mi separava dalla stanza un odore m’invase le narici: l’odore pungente del sudore, dei corpi ammassati.
L’aroma persistente della paura.
Ma v’era un altro odore che mi spaventava ma che non riuscivo a riconoscere.
Cos’era quell’odore?
Cercando di distrarmi feci saltare gli occhi da un punto all’altro della stanza finché delle macchioline rosse su una panca non diedero una risposta alle mie domande.
Sangue.
Avevo percepito l’odore del sangue.
Che cosa stava succedendo?
Ci fecero sedere sulle panche, mentre due uomini senza divisa e due donne, coperte con delle strane uniformi simili a pigiami rigati, s'avvicinavano.
-Ora verrete marchiate. Vi sarà tatuato un numero sulla pelle con il quale sarete identificate da questo momento in poi.
Numero.
Tatuaggio.
Marchio.
Dolore.
Saremmo state marchiate, come fossimo mucche o cavalli.
Perfino epiteti come "bastardo" o "bestia" non erano considerati al nostro livello.
Valevamo meno che bestie là dentro.
Sarei diventata un numero, una cifra fra tante.
Un corpo fra molti altri.
Iniziarono a tatuare le donne più vicine alla porta d'uscita.
Mi costrinsi ad osservare la parete dinanzi a me: non volevo guardare.
Urli, grida isteriche invasero la stanza a poco a poco.
Poi, udii dei passi avvicinarsi sempre più.
Una ragazza di circa 16 anni mi s'avvicinò con un panno in mano.
Iniziò ad asciugarmi una parte del mio braccio, ancora bagnata, aiutata da una donna.
Rabbrividii al contatto della sua pelle: la sua mano era fredda, gelata ma, soprattutto, sembrava priva di pelle.
Riuscivo a sentire le piccole ossa delle sue dita mentre mi toccava.
-Come ti chiami?- mi sussurrò, china sul mio braccio, muovendo le labbra impercettibilmente.
Non risposi,  sconcertata.
Perché voleva sapere il mio nome?
Chi era?
-Diglielo, bambina. Tra un po’ potresti non ricordati più nemmeno chi sei.
Questa volta a parlare era stata la donna.
La guardai di sottecchi, cercando di non farmi vedere dalle guardie.
Il suo volto scavata conservava ancora un qualcosa d’umano, v’aleggiava sopra un riflesso di bellezza, al bellezza dolce, adulta ma non matura d'una donna di trent'anni,  ormai quasi svanita.
Dovetti sembrarle spaventata perché accennò un sorriso materno, quasi impercettibile che scomparve velocemente com’era arrivato.
-Danielle. Danielle Peazer.  
La vidi annuire impercettibilmente per poi allontanarsi dal mio braccio.
Uno degli uomini senz'uniforme mi s'avvicinò.
I miei occhi cercarono istintivamente una via di fuga dal suo viso, dalla sua figura.
Costrinsi il mio sguardo a tornare sulla parete di fronte.
Poi sentì la mia pelle venire profanata, bucata da quell'essere.
Sentivo la carne bruciare a quel tocco, ogni singola parte del mio essere urlava.
Non riuscivo più a trattenermi e cercai di ribellarmi da quella presa.
Ma mentre il mio viso voltava incontrai quello del SS che avevo provocato.
Di nuovo quel suo sorriso malizioso, di nuovo quello sguardo soddisfatto.
Quello era il diavolo.
Godeva, godeva del dolore altrui.
Godeva del mio dolore, di quello di tutte le altre donne in quella stanza.
Di quelle che v'erano passate prima di noi.
Forse anche le mie sorelle, le ragazze della mia famiglia erano passate lì.
Magari quelle gocce di sangue erano le loro.
E lui aveva riso, riso del loro dolore, del loro sangue.
Le aveva fatte piangere e poi aveva riso delle loro lacrime.
La scena mi passò dinanzi agli occhi.
Riuscivo a vedere lui, con quel sorriso stampato in faccia, percepii il rumore della sua risata che invadeva la stanza, mischiandosi alle urla di qualcuna di loro.
Poi, un volto mi passò davanti.
Vidi il volto della mia sorellina pervaso dal dolore, le lacrime che scendevano sulle sue guance.
Riuscivo a sentire le sue urla.
 Sentì una stretta formarsi alla bocca dello stomaco, percepii il flusso del mio sangue ribollire nelle mie vene.
Il grido che si stava formando morì nella mia gola.
Non gli avrei permesso di fare la stessa cosa a me.
Non avrei urlato, non avrei pianto.
Avrei riscattato me stessa, le donne di quella stanza, quelle che v'erano passate.
L'avrei fatto per loro, per la mia famiglia.
L'avrei fatto per mia sorella.
Rivolsi nuovamente il mio sguardo alla parete e mi morsi le labbra, mentre il mio braccio andava a fuoco.
Quando finirono, ci diedero da indossare gli stessi indumenti che portavano la ragazza e la donna.
-Un momento- disse il comandante.
 Lanciai uno sguardo al soldato: il sorriso gli era morto in faccia.
Un senso d’orgoglio mi percorse: ero riuscita nel mio intento.
Poi venne aperta la porta che ci avrebbe condotto fuori.
Già, fuori.
Sarei stata all’interno del vero campo di  lavoro.
Da lì in poi, sarebbe divenuto una realtà.
La mia.
Di nuovo mi sembrò che tutto ciò che era stato della mia vita fosse stato spazzato via dalle mine.
Ad ogni passo che facevo, ciò che era passato sarebbe stato cancellato, non sarei più potuta tornare indietro.
Non ci sarebbe stata una seconda chance.
Un altro passo e Danielle Peazer, la regina degli zingari, avrebbe cessato d’esistere.
Presi un respiro, chiusi gli occhi e feci quel passo, abbattendo il muro invisibile che separava la mia vecchia vita da quella che sarebbe stata d’ora in poi.
La porta si chiuse alle mie spalle, lasciandosi dietro anche una parte di me.
Quando sentii il gelido vento polacco schiaffeggiarmi il volto, aprii gli occhi.
Il suolo su cui poggiavo i piedi era ricoperto da uno strato spesso di neve.
Dappertutto riuscivo a scorgere quel bianco: sulla terra, sulle tante case di mattoni scoloriti, grigi,  usurate, che la cospargevano.
Alcune avevano il tetto per metà sfondato, probabilmente dal peso della neve.
Venimmo divise dal comandante, poi un soldato dall’espressione imperturbabile condusse il gruppo in cui ero stata collocata ad una delle baracche.
Entrai e mille occhi di scheletro si puntarono su di me.
Donne, tante donne,  dal capo rasato e il volto scheletrico.
Le ossa si vedevano nitide, lo strato di pelle che un tempo doveva aver ricoperto quei volti era quasi inesistente.
I loro grandi occhi erano puntati nella mia direzione, ma sembravano non vedermi realmente.
Erano vuoti, come grandi bottoni appuntati su quei visi.
Vedevo le loro mani cadaveriche penzolare dai bordi delle strutture di legno.
Quelli che avrebbero dovuto essere i nostri letti erano in realtà delle strutture di legno, spoglie,
Erano tutte ammassate lì, una accanto all’altra, i loro corpi, o ciò che ne restava, che si sovrastavano.
Una ventata di gelo passò dal tetto fallato ed attraversò la stanza facendo tremare la struttura sotto il movimento dei loro corpi rabbrividiti.
E mi riportò alla realtà.
“Scappa, scappa”.
Volevo fuggire, fuggire da quel posto.
Non volevo addormentarmi con la paura d’essere soffocata dal peso di qualcun altro,  volevo sfuggire a quel destino.
Sarei diventata il fantasma di me stessa, uno scheletro senz’anima che cammina.
Sarei morta, morta dentro.
Avrei smesso d’esistere.
Trattenni un urlo.
Non avevo possibilità: per cosa avrei lottato?
Per cosa stavo lottando?
Se fossi sopravvissuta a quel luogo, se non fossi morta nel corpo lo avrei fatto nello spirito.
Non m’accorsi neppure del soldato che se ne andava finché non venni riportata alla realtà dalla presenza di una mano sulla mia spalla.
Scattai d’istinto, voltandomi a guardare il mio aggressore.
Un volto scavato, dallo sguardo provato mi osservava.
Era la ragazza di prima, la custode del mio nome.
-Scusami, non volevo spaventarti. Ma vedi prima… prima non sono riuscita a sapere il nome di una delle donne che erano con te. Bhé, più che una donna era una ragazzina. Mora, con grandi occhi marroni.  
Un nome attraversò la mia mente: Angela.
Quel nome bastò a risvegliarmi dallo stato di disperazione in cui ero caduta.
Doveva essere finita in un’altra baracca.
Ed io l’avevo lasciata andare, non avevo mantenuto la mia promessa.
Un ricordo attraversò la mia mente.
-Danielle.- mi chiamò Zayn.
Ero abbandonata tra le sue braccia, la traccia delle lacrime che ancora segnava la mia guancia.
Mia sorella era stata appena deportata ed io non sapevo far altro che piangere.
Grazie al cielo, lui era lì.
-Sì, Zayn?-dissi alzando gli occhi verso di lui.
Il suo viso era rischiarato dalla luce della luna: i  suoi occhi scuri puntano l’orizzonte,fissavano le stelle,  persi in chissà quali pensieri.
-Danielle, non so cosa ci succederà. Non so cosa riserba il futuro per noi e non sono nemmeno sicuro di volerlo sapere. Ti chiedo solo una cosa: nel caso noi venissimo separati, non permettere a quei bastardi di  sopraffarti. Non ti dimenticare chi sei, Danielle. Non dimenticare quello in cui credi. Promettimi che non smetterai mai, mai di lottare.
Ma cosa gli saltava in mente?
Noi due, divisi?
-Ma Zayn, noi non saremo divis…
-Promettimelo, Danielle.- mi bloccò, distogliendo lo sguardo dal cielo notturno per posarlo su di me.
Non l’avevo mai visto così.
-Te lo prometto, Zayn.
In quel momento un’idea terribile m’attraversò.
-Zayn, mi hai promesso che non mi lascerai. Come puoi prometterlo se pensi che saremmo divisi?- la mia voce tremava, dannazione.
Mi sorrise, accarezzandomi la guancia.
-Sai, Dani, non è necessario essere vicini fisicamente per essere uniti. Per quanto ci possano allontanare, il mio cuore, i miei pensieri saranno sempre con te. Ricordatelo, sempre. Ora dormi, principessa.
Mi baciò la fronte, per poi appoggiare il suo braccio sulla mia spalla,  avvolgendomi in un abbraccio caldo, rassicurante e colmo d’amore.
Così, con il capo posato sul suo petto, mi addormentai.”
Improvvisamente mi tornò la voglia di lottare.
Mi ero lasciata sopraffare da tutto ciò che mi circondava, dai soldati, dalle donne, da tutta quella disperazione che incombeva.
Ma ora avevo qualcosa per cui valeva la pena combattere per la mia vita: dovevo farlo per me, per Zayn, per Angela.
Angela.
Dovevo ritrovarla, subito.
Corsi via dalla baracca, dimenticandomi di tutto.
Dove sei, Angela? Dove ti trovi adesso?”
Corsi per tutto l’accampamento, infilandomi in vicoli che non conoscevo.
Tanti sguardi vuoti si posarono su di me ma non gli badai.
Poi, finalmente, la trovai.
La scena che vivi mi fece gelare il sangue nelle vene: Angela era lì, in un vicolo, con una donna dai tratti gitani.
Di fronte a loro dei soldati s’avvicinavano ai loro corpi, cercando di strappar loro le uniformi.
Uno prese Angela per le braccia, cercando di tenerla ferma.
Angela urlò, il suo gridò lacerò l’aria.
L’altra donna cercava di ribellarsi, di lottare per la vita, ma soccombeva sotto il peso delle botte dei soldati.
Il suo pigiama era strappato.
Che cosa dovevo fare?
Se fossi andata lì,  mi avrebbero uccisa.
-Giuri che non mi lascerai? Me lo prometti, Danielle? -bisbigliò, scostandosi per puntare i suoi occhi sui miei.
Erano così grandi, così profondi.
Era così indifesa, spaventata, sola.
-Te lo prometto, Angela. Lo giuro, giuro su tutto quello che ho che non ti abbandonerò.- dissi, per poi tornare a confortarla cullandola tra le mie braccia, mentre l’ultima lacrima cadeva sulla mia pelle, unica goccia calda contro le schegge di gelo della doccia. “
Corsi verso di loro.
Strappai Angela dalle  grinfie del soldato.
Lo colpii in pieno viso, rompendogli il naso.
Cadde  a terra mentre gli altri andavano verso di lui per soccorrerlo.
-Lasciala stare, mostro!-  gli spuntai in faccia.
Angela mi guardava  con gli occhi sbarrati, tremante dalla paura.
-Scappa, Angela. Non preoccuparti per me, me la caverò. Scappa!- le urlai.
Lei iniziò a correre via, verso le baracche.
Brava, piccola mia, scappa. Corri, mettiti in salvo”  pensai mentre la vedevo allontanarsi.
Vidi la zingara che prima era con lei accasciata al suolo e la raggiunsi.
Mi chinai verso di lei.
-Tutto bene?- domandai.
-S…sì.- mi rispose, piegata in due.
Boccheggiava, le mancava l’aria.
- Ferma, se ti muovi rischi di cadere di nuovo. T’aiuto io.
La presi sotto le braccia e l’alzai.
Era leggera come una piuma, sotto le dita percepivo nettamente le sue ossa.
-Sicura di stare be….
Avvertii un’improvvisa fitta allo stomaco, l’aria mancarmi  e mi piegai in due dal dolore.
Alzai lo sguardo: il soldato a cui avevo rubato Angela brandiva  il pugno in aria.
Qualcun altro s’avvicinò ed iniziarono a darmi calci, pugni.
Provai a ribellarmi ma loro colpivano solo con più forza, sembrava eccitarli.
Mi arresi sotto i loro colpi, immobile, incapace di fare niente.
Chiusi gli occhi, inerme.
Non permettere a quei bastardi di  sopraffarti.”
Gli  occhi di Zayn mi trafiggevano.
“Non ti dimenticare chi sei, Danielle.  “
Aprii gli occhi, di scatto.
Non gli avrei lasciato fare di me quello che volevano.
Io ero Danielle Peazer, regina degli zingari di quella che era stata la mia città.
Se mi volevano, avrebbero dovuto lottare.
Iniziai a divincolarmi alle loro prese,  tirando calci, mordendo le loro mani.
Riuscii ad alzarmi in piedi, barcollando.
La pelle bruciava, bruciava dappertutto: non sarei potuta correre via.
In quelle condizioni sarei caduta dopo meno di cinque passi.
Misi il mio corpo all’ erta, pronta a difendermi.
Li vidi avvicinarsi.
Uno cercò d’afferrarmi e di tirarmi  verso di sé.
Sfuggi alla sua presa e lo colpii allo stomaco, mentre tiravo un calcio nei genitali ad uno che aveva provato a darmi uno schiaffo.
Cercai d’allontanarmi ma venni strattonata da un soldato, che mi bloccò tenendomi per i polsi.
-Dove vuoi andare, bambolina? Ora ci divertiamo un po’…- mi disse con aria divertita, ridendo sotto i baffi.
Iniziò a giocare con la mia uniforme.
Tentai di liberarmi dalla sua presa ma era troppo forte.
Poi, all’improvviso,  venni strappata via dalle sue grinfie da due forti braccia, che mi nascosero dietro di sé.
Il soldato che mi stava torturando aveva tra le mani pezzi della mia divisa.
Volsi lo sguardo in alto, verso il viso del mio soccorritore.
Il mio cuore perse un battito.
Non stentai un momento a riconoscerlo.
I capelli castani, la bocca carnosa, la mascella contratta
Gli occhi color cioccolato del capitano Payne bruciavano,  infervorati dalla rabbia.
 
POV Liam
La cercavo con lo sguardo, il bisogno di vederla che sembrava aumentare ad ogni passo.
Dei soldati stavano si stavano divertendo come al solito con le prigioniere del campo.
Passai avanti, senza curarmene,  mentre si sfogavano con botte su una delle due.
Sembrava essersi finalmente arresa, accasciata al suolo.
Ma inaspettatamente ricominciò a lottare, alzandosi, mostrandomi il suo volto, i suoi capelli.
Quei ricci.
Avrei riconosciuto quelle onde brune ovunque.
 Senza nemmeno rendermene conto, corsi verso di lei.
L’istinto mi stava urlando di salvarla.
La tirai indietro, ponendomi davanti a lei.
Sentivo la rabbia crescere, il sangue pompare, ribollire nelle vene più furioso che mai.
-Che cosa state facendo?
Incenerii quel soldato con lo sguardo, per poi passare a tutti gli altri.
-Ci scusi, capitano Payne. Ci stavamo solo divertendo.
-Non con lei.- intimai, trafiggendolo.
- Perché? - osò chiedermi.
Già, perché?
Non potevo evitare quella domanda.
Era solo uno stupido soldato semplice ma non era del mio reparto.
Non avevo potere su di lui.
Cosa mi sarei potuto inventare?
Poi, un’idea m’illuminò.
-Oggi il mio servo è stato sorpreso a rubare nelle cucine ed è stato fucilato. Lei è la mia nuova serva.
Sul suo volto passò una luce maliziosa: sapeva benissimo che le serve erano esclusiva dei padroni.
Chissà che immagini gli stavano passando per la testa.
Provai un’ondata di disgusto nei suoi confronti.
-Oh, allora ci scusi, capitano. Non disturberemo più la prigioniera. Però non ci vorrà togliere anche la sua amica, vero? Vorremmo divertirci ancora un po’…- ghignò, riferendosi alla zingara alle sue spalle.
-No, assolutamente. Però fate in fretta.- risposi.
M’allontanai, stringendo Danielle a me, il mio braccio avvolto sulla sua spalla.
Si voltò con gli occhi sbarrati a guardare la sua amica, l’altra gitana che emetteva urli disumani.
Guardai anch’io: non cedeva, non smetteva di lottare, mentre i lembi della sua divisa venivano strappati.
Udivo le risate dei miei compagni.
Sentii Danielle tremare e mi voltai verso di lei: gli occhi lucidi dalla paura, i capelli scompigliati. La pelle nuda che s’intravedeva nei punti in cui la divisa era stata strappata.
Anche così, ferita e spaventata, era tremendamente bella.
Quando la donna emise l’ennesimo urlo, più acuto degli altri, la vidi scuotersi mentre gli occhi divenivano ancora più lucidi.
La feci girare  dall’altra parte, mentre tremava sempre di più, come un cucciolo smarrito ed infreddolito, tra le mie braccia.
Non volevo che vedesse.
Ma io non potei fare a meno di guardare un’ultima volta la scena.
Mi voltai, osservando la gitana sotto i colpi dei soldati che avevano appena finito di divertirsi.
La osservai quando se ne andarono, sembrava lottare contro qualcosa,  lottando ancora con le poche forze che le rimanevano, come un fuoco quasi spento ma che ancora brucia,  mentre,  ancora in ginocchio, s’accasciava.
Alzò lo sguardo , i suoi occhi scuri incontrarono i miei.
E vidi il mondo negli occhi di una zingara.
Vidi passione, amore, odio, sofferenza, disperazione.
Vidi i colori, vidi la vita.
Vidi la salita per cui s’era trascinata lottando in quel posto senza colori, senza ritmi.
E vidi il precipizio che c’era alla fine della salita.
Vidi la lotta tra la vita e la morte.
E la vidi scegliere la morte, lasciandosi andare oltre il baratro.
La vidi tagliare il suo filo e lasciarsi cadere nell’oblio. 

Cazzo!

Cioé, volevo dire... PER DINDIRINDINA!

Mi scuso per aver pubblicato così in ritardo.
Passando alle cose importanti, avrei delle domande da farvi.
La fine ovviamente è molto, mooolto lontana.
Ma vorrei schiarirmi delle idee sul finale.
E vorrei sapere anche la vostra opinione.
Le opzioni sono queste:
  • LIETO FINE: il classico, e forse un po' scontato, finale a lieto fine. Tutti quanti si salvano, sopravvivono e viranno felici e contenti.
  • FINALE DRAMMATICO: un finale che comprende la morte dei personaggi, senz'eccezione.
  • SOPRAVVIVENZA DI UNA SOLA DELLE COPPIE: solo una coppia sopravvive al destino avverso, mentre tutte le altre periscono.
  • SOPRAVVIVENZA SOLO D'ALCUNI PROTAGONISITI: solo alcuni dei personaggi sopravviveranno e non per forza con il loro partner.
Poi vorrei sapere che ne pensate di Angela.

Rispondete per favore, m'interessa la vostra opinione.
Anche se non è per forza detto che vi darò retta :)

  
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