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Autore: lubitina    14/10/2012    1 recensioni
Ultime riflessioni di un messaggero divino.
« O Terra, atmosfera, paradiso
possa l'eccelsa gloria
di Savitr il Dio
esaudire le nostre preghiere. »
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Adama, Samuel T. Anders, Starbuck
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Ed eccola, infine, la Terra. La vera Terra. Non quell’enorme masso vagante per lo spazio, vuoto di vita e pieno di morte. Si stavano avvicinando, e Kara lo sentiva. Sentiva vibrazioni diverse nell’acqua che la sua mano accarezzava, spingendosi, ogni tanto, sulla pelle bagnata di Samuel. Vibrazioni gioiose.
Nel CIC del Galactica c’erano solo loro due. O meglio, c’era solo lei, coscientemente. Non aveva idea se il meraviglioso cervello di silicio del marito percepisse ciò che percepiva lei, o se, come aveva detto una volta un modello 6, “sentiva l’Universo in maniera differente”. Forse per lui il tempo e lo spazio non esistevano più, o forse erano infiniti; o forse, ancora, come quel pazzo (non lo avrebbe mai e poi negato) visionario, ometto ridicolo, di Gaius Baltar, e i suoi sogni monoteistici.
Eppure, Kara, sarebbe stata felice, almeno per un istante, di trovarsi nel suo personale universo, assieme a Samuel. Sentì un lieve fremito agli occhi, lacrime che stavano per sgorgare, ma le ricacciò indietro. Non era ancora il momento.
Le mancava.
Invidiava la loro capacità di proiezione, quel vivere in luoghi immaginari. Il loro modo di fuggire. Pensandoci, a volte, era anche giunta a provare pietà per Boomer, immaginandola intrecciare le proprie dita con quelle di Tyrol, attraverso le sbarre della cella del Galactica. Pietà.. infine,forse, l’aveva anche ammirata. La sua morte, per mano di un’altra se stessa, aveva significato la pace per genitori e figli, umani e cyloni.
Kara si scosse da quei tristi pensieri. Era inutile ricordare ciò.
Quella notte le era apparsa in sogno sua madre. Sua madre e Leoben.
Stai per tornare a casa,Kara”, le aveva detto, con una voce incredibilmente dolce, accendendosi una sigaretta, seduta al tavolo della loro piccola cucina. E poi, dopo un tiro, sdegnata, aveva buttato la sigaretta. E aveva sorriso, allargando le braccia. “Vieni qui, Kara. Ti ho sempre voluto bene.”
Leoben le guardava, stranamente silenzioso. Un’espressione serena dipinta sul volto alieno.
 
Kara “Scorpion” Thrace, un tempo tenente, capitano, CAG, si guardò attorno, nel CIC, per l’ultima volta.
Lì, in quell’angolo, l’ultimo John aveva puntato una pistola alla sua tempia, e aveva sparato, rifiutando la resa. Più di un anno capricano prima, Boomer aveva sparato a William Adama, ricoprendo la mappa galattica di sangue innocente. E lì, tante volte, i suoi occhi avevano incontrato quelli di Lee Adama, che abbassava lo sguardo o sorreggeva il suo, la stessa luce orgogliosa.
Ripensò a lui, che ora era fuori, su di un Viper, tuffandosi nell’atmosfera perfetta di quel pianeta verde e blu, o ammirandolo da lontano. Pensò a quando si erano uniti, per la prima volta, sul letto sabbioso di quel fiume asciutto su New Caprica. “Io amo Kara Thrace.” “Io amo Lee Adama”. Frasi urlate al vento, perché nessuno poteva udirle.
Ed era vero. Ma lei sapeva. Sapeva che non avrebbe potuto funzionare, perché la fine era vicina e non c’era tempo per ciò che era importante. Il cuore glielo diceva, mentre Samuel T. Anders infilava l’anello sul suo dito magro, e i capelli biondi sempre più lunghi le coprivano il viso: Lee era un’utopia irrealizzabile. Forse, chissà, in un altro tempo, meno strano del loro, in un tempo che forse, solo, la mente di un ibrido cylone avrebbe potuto concepire, loro sarebbero potuti stare insieme, uniti, amarsi, e sfrecciare nello spazio aperto con i loro Viper, per l’eternità.
Un sacramento era un sacramento. E lo sarebbe stato sempre. Anche nel futuro di quel mondo che stava per nascere, dai pochi resti della civiltà più grande che quell’angolo di galassia avrebbe potuto ricordare, sotto le costellazioni che un tempo erano i nomi dei suoi pianeti, un matrimonio sarebbe stato indissolubile. Glielo aveva sussurrato,a Lee, tenendogli le mani. E aveva pensato che il suo sguardo amareggiato, disperato, al pensiero di perdere un’altra volta l’oggetto d’amore, dopo l’orrendo suicidio di Dee, l’avrebbe accompagnata sul letto di morte.
Ma nel profondo, sapeva, che per lei un letto di morte non ci sarebbe mai stato. Mai veglie funebri, mai candelabri e incenso accesi in suo onore. Mai Sacre Scritture lette, piano, con ritmo cadenzato, sul suo cadavere, da sacerdotesse di religioni antiche.
Perché il suo cadavere era ormai polvere sulla Terra, la Terra delle scritture, capelli biondi attaccati ad un teschio, e una targhetta delle Colonie appesa al collo. Lei era già morta in un altro tempo e in un altro luogo, ed era già avvenuto altre volte. Cosa sono, si era chiesta. Aveva disperato, di fronte allo sguardo incredulo di quello che la considerava una figlia, quell’ammiraglio burbero dal cuore tenero , che si asciugava lacrime amare sorseggiando scotch. Aveva perso tutto ciò che la rendeva se stessa, ciò che ricordava di essere, di fronte a quel Viper, il suo Viper, roso dalle intemperie e arrugginito, e nel suo cuore, mentre guardava il suo cadavere bruciare, c’era il nulla.
E poi, accarezzando una guancia di Samuel, i cui occhi erano sempre fissi in chissà che immagine, pensò a lui. Al Pyramid su Caprica, e su New Caprica. Al loro matrimonio. Ai loro amplessi rabbiosi sulla Demetrius, alla gamba amputata di Gaeta. A come lui l’avesse amata dal primo momento, e a come lei, incapace di capire chi fosse, avesse rinunciato a farlo, dopo la Terra. Alla promessa, alla medaglietta appesa al collo di lui, la stessa medaglietta appesa al collo di un cadavere. “Tornerò a prenderti”,  Helo che li guardava dallo sfondo boscoso del campo della Resistenza, e un’antica freccia dorata stretta in una mano.
E i loro volti coperti da veli, una sacerdotessa di fronte a loro, in una tenda profumata d’incenso. E il sapore ancora forte dei baci di Lee sulle sua labbra.
 
Ricacciò nuovamente indietro le lacrime, e aprì le labbra, come a dire qualcosa. Si asciugò le mani bagnate sull’uniforme, scuotendo energicamente la testa.
“Ora devo andare. Ti amo”, e la sua volte a quel punto si ruppe, e pianse, lo sguardo fisso sulla vasca del cylone.”Addio, Sam”.
“Ci vediamo dall’altra parte”.
 
 
Lee era sulla Terra, la vera Terra, e guardava quegli esseri, così simili a loro, a quelli di Kobol e delle Dodici Colonie, da una piccola altura. Assieme a lui il dottor Cottle e suo padre, allontanatosi un attimo dalla Roslin, che dormiva, coperta, sotto un albero. Per lei stava giungendo la fine, lo sapevano tutti.
“Ho fatto alcune analisi del loro DNA. E’ perfettamente compatibile col nostro. Certo, sono in uno stadio molto arretrato d’evoluzione sociale, ma potremmo dar loro una mano.”
“Ed è compatibile anche con quello cylone, se vi interessa.”, disse guardando un gruppo di numeri 8, poco distante da Baltar e Caprica 6, che pareva aver totalmente dimenticato la sua gravidanza.
“La speranza non era fallace..”, aveva allora mormorato l’Ammiraglio Adama, continuando a guardare l’orizzonte, e il gruppetto di umanoidi, le lance in mano, coperti solo da pelli.
Lee alzò allora lo sguardo. Le navi della Flotta non si vedevano già più. Il Sole, quel sole così simile a quello di Caprica, era la loro meta.
 
 
“Cosa senti, Scorpion?”, chiese, sorridendo triste l’Ammiraglio, in ricordo di tante battaglie combattute insieme.
“Nient’altro che la pioggia, signore.”
Kara, impettita, commossa, aveva risposto.  Insieme, avevano guardato Adama risalire sul Raptor, accendere il motore al tylium, di cui, peraltro, non c’era traccia attorno a quel pianeta. Lo videro gettare un ultimo sguardo verso di loro, e stringere delicatamente la mano troppo magra del Presidente, riservandole uno sguardo d’amore.
 
 
 
 
 “Kara.”, mormorò con un sorriso alla giovane donna che, in piedi, lo guardava, mentre il Raptor s’allontanava sempre più nel cielo.
“Facciamo due passi, Lee.”
Camminarono piano, senza fretta, per quella savana, l’erba ancora verde dopo le piogge recenti.
Erano in silenzio.
Lee si sentiva in pace. Come non lo era stato da anni. Come non lo era da quella notte su New Caprica, quando aveva urlato all’Universo il suo amore.
I suoi occhi si posarono su di lei, e poi iniziò a parlare. Sapeva che sarebbe stata l’ultima volta.
“Sai Kara, stavo pensando di costruire una casa. Vorrei vivere per un po’ senza le comodità della Fotta o delle Colonie, e ricominciare da zero. Come quei nostri simili laggiù.”
Nel dire ciò, si girò verso l’orizzonte verde e sconfinato, e verso le figure umanoidi sullo sfondo.
“Kara, mi ascolti?”
Lee guardò dietro di sé, ma non vide altro che l’infinito di un mondo totalmente nuovo e da scoprire. E nell’aria aleggiava l’ultimo sorriso del suo grande amore. 
  
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